È la guerra di Donald Trump. Nel corso delle ultime due settimane gli Stati Uniti hanno bombardato lo Yemen più di 50 volte. Abbiamo parlato molto della prima operazione contro le posizioni dei ribelli huthi, soprattutto a causa della polemica sui piani bellici condivisi su una piattaforma non sicura. Da allora, però, nessuno ha fatto troppo caso ai bombardamenti, che sono stati incessanti.

L’azione militare americana non è un segreto. Trump in persona se ne è vantato sui social network, dichiarando di aver “decimato i terroristi huthi sostenuti dall’Iran. […] Li colpiamo giorno e notte, sempre più duramente. I nostri attacchi proseguiranno fino a quando non saranno più una minaccia per la libertà di navigazione”.

L’ultima frase del tweet è la più minacciosa: “è soltanto l’inizio”, scrive il presidente. “Il peggio deve ancora arrivare per loro e per i loro sostenitori in Iran”. Il suo vero obiettivo, evidentemente, è il regime iraniano, con il suo programma nucleare. Ma Trump è davvero pronto a scatenare una guerra contro Teheran per impedire al regime di acquisire la bomba atomica?

E soprattutto, perché agire proprio ora? I motivi sono almeno due. Il primo è evidente: il programma nucleare iraniano è sul punto di raggiungere l’obiettivo. A quanto pare la repubblica islamica si sta avvicinando a quella che viene chiamata “soglia nucleare”, ovvero il momento in cui sarà in condizione di produrre una bomba atomica cambiando inevitabilmente l’equilibrio strategico della regione.

Trump ha scritto una lettera ai leader iraniani per proporre un negoziato, ma Teheran ha rifiutato una trattativa diretta e ha risposto alle minacce del presidente dichiarando di non avere altra scelta se non quella di sviluppare la sua bomba atomica in caso di attacco statunitense.

Il secondo motivo è che la regione è nuovamente sul punto di sprofondare. Oltre ai bombardamenti dello Yemen da parte degli Stati Uniti, Israele ha ripreso la sua guerra impietosa a Gaza, aggravata da un blocco umanitario le cui conseguenze potrebbero essere drammatiche. Lo stato ebraico, intanto, bombarda quasi ogni giorno il Libano nonostante il cessate il fuoco entrato in vigore a novembre.

Il legame tra questi diversi fronti nasce dall’allineamento strategico tra Stati Uniti e Israele. Tel Aviv può contare sulla copertura di Washington nella sua guerra a oltranza a Gaza, e non passa giorno senza che Benjamin Netanyahu citi il piano di Donald Trump per svuotare il territorio palestinese dei suoi abitanti.

I due paesi condividono inoltre l’ostilità nei confronti dell’Iran governato dai mullah. Fino all’elezione di Trump, l’amministrazione Biden aveva impedito a Israele di attaccare le postazioni nucleari iraniane, temendo un caos regionale.

Trump, però, sembra avere meno pudore rispetto al suo predecessore. Oggi il presidente segue la strategia della “massima pressione” nei confronti di Teheran per tentare di forzare un passo indietro del regime sul nucleare.

Ma cosa farà nel caso (probabile) in cui l’Iran non dovesse cedere? La scelta, a quel punto, sarà semplice: perdere la faccia o innescare un’escalation.

Trump, il presidente che diceva di non amare la guerra, ne ha scatenata una dopo nemmeno due mesi, in Yemen. E presto dovrà decidere se farne scoppiare un’altra, di portata molto più vasta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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