Al tavolo di un ristorante di Belgrado siede un uomo con una camicia a quadretti rossi e blu. Il pizzetto grigio è accuratamente rifinito e sul petto poggiano gli occhiali da lettura attaccati a un cordino. Fuori piove. Il brutto tempo ricorda all’uomo il paese in cui ha passato dieci anni della sua vita. Anche lì pioveva sempre. La cosa, però, non lo disturbava più di tanto: il cielo grigio dei Paesi Bassi lo poteva osservare solo dalla finestra.
Poi, nel 2015, il ritorno nella capitale serba. Alcuni quartieri non li riconosceva più. Durante la sua assenza erano spuntati palazzi e centri commerciali. La pubblicità scorreva su enormi schermi, i colori accesi gli facevano quasi male agli occhi. Tutti avevano uno smartphone mentre lui era ancora abituato al suo vecchio Nokia.
Nel penitenziario di Scheveningen, uomini che durante la guerra avevano combattuto gli uni contro gli altri andavano d’accordo
Aveva fantasticato molto su come sarebbe stato tornare nel paese che era stato la sua patria prima che scoppiasse la guerra e tutto andasse in rovina. Sognava di stendersi sul pavimento del suo appartamento, felice di essere di nuovo a casa. Sognava di insegnare all’università: dopotutto aveva un dottorato in sociologia e, con la sua esperienza, avrebbe potuto essere molto utile agli studenti.
Vinko Pandurević ha 61 anni e ne ha passati dieci nella prigione del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia a Scheveningen, nei Paesi Bassi. Nel 2001 fu incriminato per il genocidio di Srebrenica, dove nel 1995 l’esercito e le milizie dei serbo-bosniaci uccisero più di ottomila musulmani bosniaci. In qualità di comandante, era un diretto sottoposto del generale Ratko Mladić, il capo militare dei serbo-bosniaci.
“Ero in macchina quando sentii alla radio che ero stato incriminato”, racconta Pandurević. “Non riuscivo a crederci”. Capì subito che il processo sarebbe stato molto lungo: il genocidio è il crimine più grave che si possa commettere. Decise di nascondersi. Aveva due figli di 3 anni, gemelli. “Non potevo abbandonarli”.
Rimase latitante per più di tre anni, finché nel 2005 si costituì. “C’era una taglia sulla mia testa, non ero più al sicuro da nessuna parte. Mia moglie e i miei figli venivano seguiti. Se fossi andato a trovarli, li avrei messi in pericolo. E poi ero solo, non ce la facevo più”. Il primo giorno nel carcere di Scheveningen, in cortile, si avvicinò un po’ disorientato a un gruppetto di uomini. Guardandoli meglio, riconobbe tra loro l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, che gli chiese immediatamente cos’era successo a Srebrenica. “Signor presidente, non lo so neanch’io”, rispose Pandurević, al che Milošević iniziò a imprecare: “Siete tutti dei bugiardi!”.
“Piccola Jugoslavia”: così era chiamato il carcere di Scheveningen. In quegli spazi, uomini che durante la guerra avevano combattuto gli uni contro gli altri andavano perfettamente d’accordo. Cucinavano a turno, giocavano a calcio e guardavano la tv nel salotto comune. Pandurević frequentava un corso di yoga con due croati, le differenze nazionali non contavano più. “Un po’ com’era una volta nell’esercito jugoslavo”, sorride l’ex comandante. “Mancava solo un ritratto di Tito alla parete”.
Ma poi aggiunge che non tutto era idilliaco in prigione. L’atmosfera distesa, racconta, era dovuta alle circostanze: gli ex nemici erano nella stessa barca e cercavano di vivere la situazione al meglio. Inoltre il direttore era uno straniero, se fosse stato dei Balcani tutto sarebbe stato diverso.
Liberi
Nel 2015 Pandurević fu condannato per complicità in crimini contro l’umanità. Nel suo caso l’accusa di genocidio non fu dimostrata. La pena: tredici anni di reclusione. Per la frustrazione dei familiari delle vittime di Srebrenica, qualche mese dopo era di nuovo a piede libero. Aveva già scontato due terzi della pena e aveva quindi i requisiti per la scarcerazione anticipata. In prigione si era sempre comportato bene e il presidente del tribunale pensava che avrebbe potuto riabilitarsi. Quello di Pandurević non è un caso isolato. Dei novanta serbi, croati e bosniaci condannati dal tribunale dell’Aja, nei Paesi Bassi, la maggior parte è tornata libera. Per la precisione 59 persone.

Chi credeva che, una volta liberi, questi uomini avrebbero cercato di rimanere nell’ombra si sbagliava. A molti di loro, negli aeroporti di Serbia, Croazia e Bosnia Erzegovina è stata riservata un’accoglienza da eroi: gente che esultava, musica. Alcuni condannati baciavano il terreno appena scesi dall’aereo, tra i discorsi ufficiali dei rappresentanti del governo: finalmente i nostri uomini sono di nuovo a casa dopo la grande ingiustizia subita all’Aja. A qualcuno è stata subito offerta una posizione pubblica, ad altri è stato messo a disposizione un appartamento a spese dello stato.
“Il mio ritorno è stat0 una grande festa”, racconta Veselin Šljivančanin, 67anni, ex ufficiale dell’esercito jugoslavo che, come Pandurević, è stato per anni latitante prima di essere catturato dalle autorità serbe nel 2003. Quando decise di darsi alla fuga indossava una cintura esplosiva: l’avrebbe azionata se fosse stato catturato, scrive il giornalista britannico Julian Borger nel libro The butcher’s trail, sulla caccia ai criminali di guerra nei Balcani. Šljivančanin fu arrestato il giorno del suo compleanno. Era andato a trovare la figlia. Fu un errore colossale. Mentre gli agenti speciali cercavano di abbattere un muro dell’appartamento perché non riuscivano a entrare dalla porta blindata, la figlia lo convinse a consegnarsi. Fu portato all’Aja in pantaloncini e ciabatte.
Šljivančanin è stato uno dei primi criminali di guerra condannati a tornare a Belgrado, esattamente dieci anni fa. Nel 2010 era stato condannato a dieci anni di reclusione per crimini di guerra commessi in Croazia, ma visto che all’epoca aveva già scontato due terzi della pena, poco dopo è potuto tornare nel suo paese. “Familiari, amici… Tutti mi aspettavano a casa, quasi non riuscivo a entrare”, racconta ridendo nell’ufficio del suo ex avvocato. “Abbiamo bevuto fino alle due di notte. La tv nazionale voleva intervistarmi e sono stato anche invitato dal ministro”.

Buona condotta
Icty celebrities. Così Barbora Hola e Joris van Wijk della Vrije universiteit di Amsterdam, studiosi della riabilitazione dei criminali di guerra, definiscono i condannati dell’ex Jugoslavia: uomini famosi nei loro paesi solo per essere comparsi davanti al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja, che in inglese è conosciuto con la sigla Icty (Tpij in italiano). “Il diritto penale internazionale non ha mai mostrato interesse per le fasi successive alla condanna”, sostiene Van Wijk. “I processi sono costati milioni di euro, ma tutto è finito con le condanne. Del dopo non si è occupato nessuno”. “In carcere non sanno come comportarsi con queste persone”, continua Hola. “Da una parte sono ‘nemici dell’umanità’ che hanno sulla coscienza crimini terribili, unici nel loro genere. Dall’altra, sono per lo più signori molto educati che si comportano in maniera esemplare, anche grazie al loro passato nell’esercito. Rispettano la gerarchia della prigione, tengono pulita la cella e osservano le regole”.
La buona condotta è uno dei criteri più importanti per il rilascio anticipato dei condannati, si legge chiaramente nelle sentenze dei giudici del tribunale per l’ex Jugoslavia. “Per gli estremisti islamici ci sono programmi di deradicalizzazione; chi viene condannato per violenza sessuale può contare su gruppi di ascolto”, racconta Van Wijk. “I criminali di guerra, invece, sono lasciati a se stessi. Ora che sono di nuovo liberi, molti negano le atrocità commesse e continuano a diffondere le loro idee. È un fenomeno inquietante, soprattutto se si pensa che il tribunale è stato istituito non solo per fare giustizia ma anche per facilitare la riconciliazione tra i popoli”.
Non mi pento
Nel gennaio 2019 Carmel Agius, il nuovo presidente del Meccanismo residuale dei tribunali penali internazionali, istituito dopo la chiusura del Tpij, ha cambiato radicalmente la politica delle scarcerazioni anticipate: per ottenere la libertà ormai è essenziale che il condannato mostri rimorso per i suoi crimini. Improvvisamente quasi più nessuno aveva requisiti per la scarcerazione. Oggi la maggior parte delle domande viene respinta. “Il cambio di rotta è arrivato troppo tardi. Ed è scorretto”, commenta Hola. “Non si possono cambiare le regole in corsa. Inoltre è difficile aspettarsi che i condannati si mostrino pentiti se in prigione nessuno si è mai occupato di questo aspetto”.
Al contrario, i criminali di guerra hanno usato il tempo passato a Scheveningen per ripulirsi l’immagine e affilare le loro armi ideologiche. Lo si capisce bene dalla quantità di libri che hanno scritto durante la prigionia. Nel carcere olandese hanno visto la luce almeno 119 volumi: poesie, romanzi , analisi militari, memorie. “Gran parte degli scritti riguardano la guerra e i ‘processi ingiusti’ dell’Aja’”, spiega Vladimir Petrović, uno storico che ha studiato questi documenti. Bosniaci, croati, serbi: tutti hanno scritto qualcosa.

Petrović è rimasto stupito da tanta prolificità e incuriosito dal contenuto di quei libri. Leggendoli sperava di penetrare nell’anima di chi li aveva scritti, come era successo quando aveva studiato la letteratura di prigionia di personaggi storici come Miguel de Cervantes, Ugo Grozio, Lenin e Hitler. Ma è rimasto deluso. “Sono delle vere porcherie”, dice. “A parte qualche rara eccezione, questi uomini non sanno scrivere. Ma la cosa che più mi ha colpito è che non c’è alcun tipo di riflessione sulle loro azioni. Sono profondamente convinti di non aver fatto niente di male”.
Per Petrović questi libri sono la dimostrazione del fallimento della giustizia penale internazionale: “Appena queste persone sono finite in carcere, la comunità internazionale si è disinteressata a loro. Ma che senso ha una pena se il condannato non è stimolato a riflettere sulle proprie responsabilità?”.
Le conseguenze di questo disinteresse sono molto gravi. Con i libri, infatti, i criminali di guerra riescono a esercitare una grande influenza sulle società di cui fanno parte, soprattutto ora che sono di nuovo liberi e possono diffondere le loro idee attraverso tv e giornali. L’autore senza dubbio più prolifico è Vojislav Šešelj, 66 anni, vicepremier serbo ai tempi della guerra contro il Kosovo nel 1999. Šešelj ha pubblicato più di sessanta libri, tra cui una serie di dodici volumi (ognuno di almeno mille pagine) con la trascrizione degli atti del suo processo all’Aja. Tra i titoli spiccano Il figlio di puttana olandese Alphons Orie (dedicato a un giudice del Tpij) e Una banana per Kofi Annan (sull’ex segretario generale delle Nazioni Unite). “L’ho raso al suolo, il tribunale”, dice Šešelj nell’ufficio del Partito radicale serbo, la formazione ultranazionalista da lui fondata nel 1991. “Dice” è un eufemismo: ogni volta che apre bocca, sembra tuonare. In tribunale i giudici dovevano abbassare il volume delle cuffie quando arrivava il suo turno di parlare. A suo carico c’è ancora un procedimento in corso per oltraggio alla corte e per aver pubblicato in uno dei suoi libri i nomi di tre testimoni protetti. Ma Šešelj non ha intenzione di tornare all’Aja. È sempre circondato da sostenitori con le spalle larghe e la testa rasata che lo portano in palmo di mano. Metaforicamente, visto che il loro leader ormai pesa quasi duecento chili.

“Con i miei libri ho dimostrato che il tribunale è illegale e antiserbo”, continua trionfante da dietro la sua scrivania di mogano. Le pareti dell’ufficio sono coperte di librerie, tutte piene dei suoi lavori. L’ultima fatica di Šešelj è una serie in tre parti su Srebrenica, in cui spiega perché non si tratterebbe di genocidio. Nel 2020 ne ha distribuite quarantamila copie in Serbia. “Sono morti al massimo mille uomini”, dice. “Solo prigionieri di guerra”. Secondo lui, i fatti di Srebrenica vanno considerati una legittima operazione militare. E trova ridicola la condanna all’ergastolo a Mladić. “All’epoca non era neanche in Bosnia”, dice.
Vojislav Šešelj appare spesso nelle trasmissioni della tv serba, e molti apprezzano i suoi interventi. Attacca tutti e non ha paura di niente. Come intrattenitore funziona benissimo. Spesso è talmente sopra le righe da sembrare un comico più che un politico. Ma secondo molti è proprio qui che si nasconde il pericolo.
Una piccola resistenza
Anche Veselin Šljivančanin è una presenza fissa sui mezzi d’informazione serbi. Con quattro libri, la sua produzione letteraria è molto più contenuta di quella di Šešelj, ma gli basta comunque per farsi invitare in ogni angolo del paese. “Sono state dette tante bugie sul mio conto che ho pensato di dover scrivere un libro”, dice del suo primo lavoro, Ho difeso la verità: 2.450 giorni all’Aja. “Non è narrativa o fantasy: è semplice cronaca, basata sui fatti”. Šljivančanin vuole parlare soprattutto ai giovani serbi. “Gli uomini che hanno combattuto per la nostra libertà non devono essere dimenticati”, dice.
Quasi ogni giorno qualcuno lo riconosce e lo ferma per strada, racconta con una punta d’orgoglio. “Alcuni mi chiedono se sono davvero io. E tutti vogliono farsi una foto con me”. Sul suo viso compare un sorriso. “Soprattutto le donne giovani”. La sua storia, aggiunge, è molto chiara: “Sono un uomo onesto e sincero. Se fossi stato un cattivo ufficiale, oggi non sarei così popolare”.

Qualche anno fa, però, alla presentazione di un suo libro è stata organizzata una protesta. Un incidente di poco conto, secondo Šljivančanin. “Erano solo tre o quattro croati”, dice. “Niente di serio. Li aveva sicuramente mandati qualcuno”.
Ivan Djurić, Marko Milosavljević e gli altri sette artefici di quell’azione dimostrativa hanno un ricordo diverso di quella serata. Intanto erano tutti serbi. Alcuni sono rimasti lievemente feriti. E la protesta gli è costata 50mila dinari di multa a testa, circa 420 euro. “Non potevamo guardare Šljivančanin che faceva apertamente pubblicità al suo libro senza fare nulla”, spiega Djurić, un serbo di 32 anni, coordinatore di Youth initiative of human rights, un’organizzazione di Belgrado attiva nella tutela dei diritti umani. “Un criminale di guerra condannato in via definitiva che minimizza pubblicamente i reati che ha commesso e nega eventi accertati è un fatto grave. Ma che a invitarlo a parlare sia il partito al governo è ancora più grave”.
Quando hanno visto l’annuncio della presentazione del volume a Beška, un paese nel nord della Serbia, hanno discusso animatamente se andare o meno. “Io temevo che sarebbe stato inutile”, dice Djurić. “Inoltre faceva freddo, almeno 15 gradi sottozero. La strada era ghiacciata, era anche pericoloso”.
“Ma dovevamo andare”, aggiunge Marko Milosavljević, 29 anni. “In quanto giovani dovevamo ribellarci”. Qualche anno prima i ragazzi serbi avevano accolto come una liberazione l’arresto e la consegna all’Aja di Mladić, l’ultimo dei latitanti. “‘Adesso finalmente possiamo andare avanti’, pensavamo allora. ‘I colpevoli sono dietro le sbarre, possiamo lasciarci questo periodo della nostra storia alle spalle’”. Il loro sollievo, però, non è durato a lungo. Increduli hanno assistito alle immagini dell’accoglienza festosa e ufficiale riservata ai primi criminali di guerra che tornavano dai Paesi Bassi. “In quel momento abbiamo capito che avevamo perso”, dice Djurić. “Avevamo sempre cercato di sottolineare la differenza tra gli individui che si erano macchiati di crimini di guerra e la società serba nel suo insieme. Il messaggio ufficiale del governo invece era: siamo tutti serbi, siamo una cosa sola. E il resto del mondo è contro di noi”. Alla fine, i nove giovani serbi sono partiti in due auto su una strada che costeggiava il Danubio, verso il nord. Stipati sul sedile posteriore, hanno stabilito un piano: “Mi ero messa un cappotto lungo in modo da poter nascondere uno striscione”, racconta Sofija Todorović, 29 anni. “Appena Šljivančanin fosse salito sul palco, avremmo dato fiato ai nostri fischietti e srotolato lo striscione”. La saletta era strapiena, hanno aspettato con trepidazione che il criminale di guerra prendesse la parola. Quando ha dato il benvenuto ai presenti, il gruppo ha cominciato a fischiare.

Todorović non ha avuto molto tempo per srotolare lo striscione: sono stati subito sbattuti fuori dalla sala. Le loro auto sono state danneggiate, e i ragazzi sono riusciti a scappare appena in tempo. Todorović e Milosavljević sono rimasti in ospedale fino alle prime ore del mattino per le ferite alla testa, alle mani e alle gambe. Non erano ancora arrivati a casa che sui tabloid vicini al governo uscivano già i primi articoli sulla loro azione. “Fascisti” e “traditori stranieri”, venivano chiamati. “Più di un anno dopo, il tribunale locale ci ha condannati al pagamento di una multa”, racconta Todorović. “Volevamo fare ricorso, ma ci è stato negato”.
Di chi è la verità
Ma i ventenni non si fanno mettere a tacere facilmente. “Io sono nata nel 1992 a Belgrado, durante l’assedio di Sarajevo”, dice Todorović. “Ma ne ho sentito parlare solo a 19 anni. Ti sembra possibile? Non ne sapevo nulla”. Le autorità serbe – aggiunge – stanno sistematicamente riscrivendo la storia. “A scuola, sui giornali e dalla tv ho imparato solo che i serbi erano stati cacciati dalla Croazia, che il Kosovo era stato rubato alla Serbia e che ai serbi veniva data la colpa di tutto mentre le vittime serbe non erano riconosciute. E pensavo anche di essere una studente ben informata”.
Con la loro ong, Todorović e gli altri cercano di parlare ai giovani di tutti i Balcani. “Solo conoscendo la verità possiamo convivere in pace”, dice.
“All’inizio del 2000 eravamo ottimisti, soprattutto dopo aver cacciato Milošević’, dice la sociologa Nataša Kandić, 74 anni. “Speravamo in un futuro senza odio. Ma nei Balcani i leader politici non si considerano vicini di casa, si considerano nemici”. Con la sua ong, lo Humanitarian law center, Kandić sperava di portare a galla la verità sul conflitto e creare uno spazio in cui affrontare il tema della responsabilità collettiva. “A trent’anni dalla guerra posso solo concludere che abbiamo perso la battaglia per la giustizia. Ogni paese porta avanti la sua versione della storia e i fatti sono costantemente manipolati”.
◆ L’11 luglio 2021 ricorre il 26° anniversario del massacro di Srebrenica, in Bosnia Erzegovina, dove nel 1995 l’esercito e le milizie dei serbo-bosniaci, sotto la guida del generale Ratko Mladić, uccisero più di ottomila musulmani bosniaci inermi nell’arco di pochi giorni. La strage avvenne nell’ambito del conflitto che accompagnò lo smembramento della Jugoslavia e che durò dal 1991 al 1995, con una coda nella guerra del Kosovo, tra il 1998 e il 1999. In teoria la zona di Srebrenica era stata dichiarata “area protetta” dalle Nazioni Unite e doveva essere un luogo sicuro per i civili, grazie alla presenza dei caschi blu dell’Onu.
◆ L’8 giugno 2021 i giudici del Meccanismo residuale dei tribunali penali internazionali hanno confermato l’ergastolo a Ratko Mladić per genocidio, crimini contro l’umanità e di guerra. L’appello contro la condanna, emessa nel novembre 2017 dal giudice olandese Alphons Orie, è stato respinto e la sentenza è diventata definitiva , in mancanza di altri gradi di giudizio. Ricercato dalla fine del conflitto, Mladić era riuscito a sfuggire alla cattura fino al 2011, quando è stato arrestato dalla polizia serba a Lazarevo, una cittadina nel nord del paese.
◆Dei novanta cittadini serbi, croati e bosniaci condannati dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia 59 sono tornati liberi, nove sono morti e 22 sono ancora in carcere. Il condannato forse più celebre è Radovan Karadžić, ex leader politico dei serbo-bosniaci, che alla fine di maggio del 2021 è stato trasferito da Scheveningen in un carcere del Regno Unito, dove dovrà scontare una condanna a vita, tra le altre cose per il genocidio di Srebrenica. Dopo un lungo periodo di latitanza, Karadžić è stato catturato nel 2008 a Belgrado. Viveva nel quartiere di Novi Beograd, si faceva chiamare Dragan Dabić ed esercitava la professione di guaritore ed esperto di medicina alternativa.
◆ Gli ultimi due imputati processati all’Aja sono i serbi Jovica Stanišić e Franko Simatović. Figure di punta dei servizi segreti di Belgrado, i due erano stati assolti nel 2013 dall’accusa di aver commesso crimini di guerra in Croazia e Bosnia Erzegovina, ed erano tornati in Serbia. In appello, però, l’assoluzione è stata annullata. Il nuovo processo è cominciato nel 2017. Volkskrant, Bbc
Secondo Kandić, la cosa peggiore è che nei Balcani non è emerso neanche un politico intenzionato a cambiare le cose: non in Serbia, non in Croazia, non in Bosnia Erzegovina. “Gli intellettuali che avevano ancora energia dopo la caduta di Milošević sono stanchi. Stanchi del nepotismo, della corruzione, del sistema mafioso. Molti, poi, dipendono dal governo: rischiano il posto all’università se si mostrano troppo critici”. Per un po’ Kandić ha riposto le sue speranze nell’Unione europea, e nelle pressioni che poteva fare sui governi della regione. “Ma oggi non possiamo più contare sull’Europa. L’Unione è profondamente divisa e ha altro a cui pensare rispetto alla riconciliazione nei Balcani. Inoltre il populismo è in crescita, per esempio in Ungheria. Prendete Viktor Orbán: cosa possiamo aspettarci da un politico come lui?”. Avvilita, Kandić nota che dei criminali di guerra con una condanna alle spalle sono invitati nei talk show in qualità di “esperti” mentre a persone come lei viene tappata la bocca. “Capisco che non possiamo continuare a punirli, hanno scontato la loro pena in prigione. Ma non devono avvelenare la società con il loro linguaggio d’odio. E di certo non i nostri giovani, che hanno tutto il futuro davanti”.
Bianco o nero
Nel ristorante di Belgrado Vinko Pandurević versa una bustina di zucchero nel suo caffè solubile. La sua vita è segnata, non solo dalla guerra ma anche dal processo che è venuto dopo. Per anni, giorno dopo giorno, si sono presentati in aula testimoni che raccontavano la loro storia. “Anche se non parlavano direttamente di me, è stato difficile ascoltare le vittime”, dice. “A ogni parola rivivevo la guerra”.
Per Pandurević non è facile ricominciare. La speranza di poter insegnare all’università è svanita, e a differenza di molti altri condannati non è riuscito a trovare lavoro. Forse perché il suo ruolo a Srebrenica è stato più complesso di quello di altri militari di alto rango. Secondo il tribunale, Pandurević non è stato solo complice della morte di migliaia di musulmani bosniaci, ha anche giocato un ruolo cruciale nel salvarne altre migliaia.
Ma nel racconto della guerra degli anni novanta oggi ci sono solo il bianco e il nero. C’è poco spazio per il grigio. Quando Pandurević è invitato a un programma tv, le reazioni sono per lo più critiche, racconta. Come gli altri condannati, nega il suo coinvolgimento nell’eccidio di Srebrenica e contesta il numero di morti stabilito dal tribunale, ma allo stesso tempo sottolinea l’atrocità di quei fatti. “Sono successe cose terribili, da serbi non possiamo davvero andarne fieri”, dice. E cita il filosofo tedesco Karl Jaspers, per il quale esistono diverse forme di responsabilità. “Da un punto di vista giuridico non mi sento responsabile, ma da quello morale sì: mi trovavo in quel territorio e avrei dovuto sapere cosa stava succedendo”.
Per molti è una posizione difficile da accettare. “I nazionalisti serbi pensano che non sia un buon patriota, mentre gli attivisti di sinistra mi considerano un negazionista del genocidio e un fascista. In Serbia ci sono due fazioni e nessuna delle due sa bene cosa pensare di me. Diciamo che le mie dichiarazioni non piacciono a nessuno”. ◆ vf
Questo articolo è stato scritto con il sostegno di journalismfund.eu
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati