Un giorno d’estate nel 2023 Armia Khalil, un addetto alla sicurezza del Metropolitan museum of art (Met) di New York, ha notato un visitatore che girovagava in cerca di qualcosa. “Ha bisogno di aiuto signore? Posso aiutarla?”, gli ha chiesto. L’uomo stava cercando Fuga in Egitto, un dipinto a olio di Henry Ossawa Tanner del 1609 che ritrae con profonde tonalità di blu una scena biblica, la fuga di Giuseppe, Maria e Gesù dagli assassini del re Erode.
“Naturalmente sapevo dov’era il quadro”, dice Khalil. Rientrava nelle sue mansioni. Ma lui aveva anche un interesse personale per l’opera, perché è cresciuto in Egitto ed è innamorato dell’arte egiziana. “Ormai, dopo quasi dieci anni al Met, conoscevo quasi tutto ciò che aveva a che fare con l’Egitto”, spiega.
In realtà, però, quell’uomo era un curatore del museo, impegnato a pianificare una grande mostra che avrebbe avuto tra i suoi temi proprio l’antico Egitto. E Khalil non era un addetto alla sicurezza qualsiasi. Era anche uno scultore, fortemente ispirato dalle opere della sua terra d’origine.
Il loro incontro fortuito è stato breve – cinque minuti, forse meno – ma ha innescato degli eventi che hanno cambiato la vita di Khalil in un modo che lui non avrebbe mai potuto immaginare.
Per capire come Khalil, 45 anni, si sia ritrovato proprio nel posto giusto al momento giusto, può essere utile fare qualche passo indietro e scoprire come aveva ottenuto un lavoro al Met. E soprattutto come un ragazzo povero di un piccolo villaggio egiziano fosse riuscito a frequentare una prestigiosa scuola d’arte e ad approdare a New York. Merito anche della fortuna e dell’intervento divino. O, almeno, così la pensa lui.
L’infanzia di Khalil a Qulusna, in Egitto, è stata quanto di più lontano si possa immaginare dalla vita a New York. Da ragazzo giocava vicino alle sponde del Nilo, modellando piccole sculture d’argilla. “Mio fratello maggiore aveva talento per l’arte e io lo imitavo”, racconta. Alle scuole medie Khalil aveva vinto alcuni concorsi di disegno e alle superiori, dice, aveva preso una decisione: voleva diventare un artista.
L’accademia d’arte, però, era molto costosa e la sua famiglia non poteva permettersi né le lezioni né i materiali. Gli facevano pressioni perché diventasse insegnante o trovasse un lavoro con uno stipendio garantito. Ma lui resisteva.
Fortunatamente un suo cugino, un sacerdote della chiesa copta ortodossa, decise di supportare il suo sogno spiritualmente, emotivamente ed economicamente, così Khalil poté frequentare la facoltà d’arte di Minya, circa 250 chilometri a sud del Cairo.
Già allora era appassionato di storia e arte dell’antico Egitto. Ma presto s’innamorò anche del rinascimento. Passava tante ore in biblioteca, studiando dipinti che ritraevano vortici di capelli, angeli alati e varie scene religiose: “Ne ero affascinato”.
All’università cominciò a intagliare piccole figure sacre, come statue della Vergine Maria e di Gesù bambino, piccoli studi della crocifissione e perfino una copia in legno dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci. A volte riusciva anche a vendere i suoi lavori.
“L’ho salutata con un bacio, anche se l’avrei rivista”. Una volta arrivata nel museo, infatti, nessuno avrebbe potuto più toccare l’opera
Una specie di cosa divina
Gradualmente la sua famiglia cambiò opinione. “Quando videro che guadagnavo anche più di loro, rimasero molto stupiti”, racconta Khalil. Descrive la situazione come “una specie di cosa divina”. La vendita delle figure intagliate gli permetteva di sostenersi e anche di dare un contributo alla famiglia.
Mentre studiava la pittura a olio, gli piaceva dedicarsi alla lavorazione del legno. Nella pittura, osserva Khalil, un errore può essere nascosto, ci si può dipingere sopra. Con il legno, invece, “una volta fatto un taglio, non puoi tornare indietro. Bisogna fare attenzione”.
Dopo l’università avrebbe voluto trasferirsi negli Stati Uniti, ma non ottenne il visto. Andò a vivere al Cairo e, per un periodo, realizzò copie delle antiche sculture egizie in un laboratorio vicino alle piramidi. Una o due volte alla settimana andava al Museo egizio del Cairo e studiava tutto quello che poteva, soprattutto gli antichi manufatti. “Era fantastico vedere i pezzi autentici, risalenti a quattromila o cinquemila anni fa”, racconta. “E per me la visita non significava solo scattare una foto e andarmene. Ero lì per imparare”. Khalil realizzò alcune riproduzioni degli attrezzi per la lavorazione del legno usati dagli antichi egizi e imparò a usarli da autodidatta.
Nel 2005 una lettera inaspettata cambiò tutto. Dopo che gli Stati Uniti gli avevano negato il visto, sua sorella aveva presentato una nuova domanda a suo nome. E funzionò: Khalil era una delle 55mila persone selezionate nel mondo a cui sarebbe stato concesso un visto.
Prima di allora non era mai stato fuori dal suo paese. Ma nel settembre del 2006, a 25 anni, atterrò al Kennedy international airport di New York con circa 375 dollari in tasca e due valigie, una delle quali era piena di attrezzi per la lavorazione del legno. I primi mesi furono difficili. Dormiva in una stanza a Jersey City con l’amico di un amico che aveva un letto in più. Trovò lavoro in un cantiere come operaio e si occupava di mescolare il calcestruzzo. Faceva freddo. Gli mancava la famiglia. Piangeva spesso.
A novembre, però, visitò per la prima volta il Metropolitan museum of art. “Ho ancora il biglietto”, dice ridendo. “Mi ritrovai faccia a faccia con tutti i grandi artisti. Gli impressionisti. Van Gogh, Manet, Monet”. Ma la cosa più importante per lui era un’altra: le gallerie egizie. Dopo aver chiesto indicazioni andò alla sala in cui sono conservati la tomba di Perneb e i magnifici dipinti con le scene dell’aldilà, e fece un respiro profondo. “Sono di nuovo in Egitto”, pensò.
Camminando per il museo, gli venne voglia di chiamare suo fratello a casa. “Gli dissi che ero al Met proprio in quel momento, di fronte a Caravaggio e a Michelangelo. Un addetto alla sicurezza lo pregò di non parlare al telefono nelle sale della galleria, e lui si scusò. “Ero emozionato”, ricorda.
Negli anni successivi cercò lavoro nelle gallerie e negli studi d’arte, ma senza successo. Prese brevemente in considerazione l’idea di trasferirsi in Texas. “Le cose non andavano del tutto male, ma era un periodo difficile”, racconta.
A New York era arrivata la recessione e le cose si fecero più difficili. Ma Khalil non si arrese. “Volevo semplicemente stare vicino al mondo dell’arte”, spiega, ricordando di aver presentato domande e domande di lavoro nei musei di tutta la città.

Una settimana da sogno
Nel 2012, sei anni dopo essere arrivato a New York, Khalil ricevette la chiamata che stava aspettando. Era il Met. Chiedevano se gli interessava un lavoro nella sicurezza. Qualche giorno prima aveva ottenuto la cittadinanza statunitense. “Fu una settimana da sogno”, ricorda. “Ero felicissimo, per la prima volta dal mio arrivo lì”. Il suo primo incarico da custode fu nell’ala egizia.
Quando Akili Tommasino, curatore del Met cresciuto a Brooklyn e laureato a Harvard, ha incontrato per la prima volta Khalil, quel giorno del 2023, stava cercando di passare inosservato. “Non indossavo il mio tesserino identificativo”, ricorda Tommasino. “Di solito quando vado nelle sale non lo porto”.
Ma Khalil era curioso del suo interesse per la Fuga in Egitto e così Tommasino gli ha mostrato il tesserino, spiegandogli che stava organizzando la sua terza mostra per il Met, di cui quel dipinto avrebbe fatto parte.
Così Khalil ha detto a Tommasino di essere un artista e che realizzava sculture ispirate all’antico Egitto.
“Gli ho chiesto di mostrarmi qualcosa”, racconta il curatore e Khalil gli ha suggerito di dare un’occhiata al suo profilo Instagram. Tommasino è rimasto colpito da una foto di Khalil nel suo studio al Cairo, circondato da parecchie sculture straordinarie, tra cui una statua in legno del re Tutankhamon, e una riproduzione di un antico sarcofago egizio, entrambe a grandezza naturale. Khalil ha brevemente spiegato il suo metodo di lavoro, con l’uso di attrezzi realizzati da lui stesso, ispirati da quelli impiegati dagli scultori dell’antico Egitto. Tommasino è rimasto sbalordito: “Ho capito subito che aveva talento”.
L’opera di Khalil si adattava perfettamente a quello che Tommasino progettava d’inserire nella mostra, che avrebbe incluso anche artisti egiziani contemporanei che s’ispiravano alle opere d’arte egizie. “L’ho subito invitato a partecipare presentando un’opera”, racconta Tommasino. “Non avevo idea di cosa avrebbe realizzato”.
Dal modello alla mostra
Khalil aveva un’idea e un pezzo di legno, parte di un tronco che aveva trovato vicino a un parco a pochi isolati di distanza dal suo piccolo studio con affaccio sulla strada a Bayonne, nel New Jersey.
I sei mesi successivi li ha passati a realizzare la scultura. Prima ha creato un modello in gesso. Poi ha cominciato a intagliare il legno. Di giorno lavorava al museo. La sera si spostava a Bayonne, prendendo prima la metropolitana, poi un treno fino alla stazione di Hoboken, dove saliva a bordo della metropolitana leggera. Con grande cura ha plasmato il legno con seghe elettriche, asce, punteruoli e levigatrice.
Nel maggio 2024 l’opera era finita. La scultura è stata quindi fotografata per il catalogo della mostra e a ottobre i manipolatori d’arte del Met sono arrivati nel suo studio per impacchettarla e trasportarla al museo. “A quel punto era ufficiale”, dice Khalil.
L’opera è semplice ma sbalorditiva: un busto in legno intagliato, alto circa sessanta centimetri, di una figura femminile serena e calma. Una treccia le scende lungo la spalla e sulla testa è posato uno scarabeo, grande quanto un palmo.
La scultura s’intitola Hope. I am a morning scarab (Speranza. Sono uno scarabeo del mattino). Per gli antichi egizi lo scarabeo era un simbolo di speranza. “Osservavano gli scarabei, li vedevano ogni mattina venir fuori dal fango, li vedevano fare la stessa cosa ogni giorno, senza annoiarsi o stancarsi”, spiega Khalil. “Questa idea mi affascina molto”.
Prima che gli addetti del museo imballassero l’opera, Khalil ha posato le labbra sul volto che aveva scolpito. “È stata l’ultima occasione per toccarla”, dice. “L’ho salutata con un bacio. Anche se l’avrei rivista, ma in un modo diverso”. Una volta arrivata nel museo, infatti, nessuno avrebbe potuto più toccare l’opera, neppure lui.
La mostra, intitolata Flight into Egypt: black artists and ancient Egypt, 1876-now (Fuga in Egitto: gli artisti neri e l’antico Egitto, dal 1876 a oggi), è stata inaugurata a novembre. Al suo interno ospita lavori di artisti neri di tutto il mondo che si sono ispirati all’antico Egitto, tra cui nomi importanti come Jean-Michel Basquiat, Kara Walker e Aaron Douglas.
Una sala, la Heritage studies, è stata pensata per accogliere le prospettive degli egiziani moderni. È lì che i visitatori possono trovare la scultura di Khalil: “È stata una gran cosa per me”, dice. “A due gallerie di distanza da Van Gogh!”.
Ma Khalil non è l’unico a essere entusiasta. “Anche per me è un’esperienza unica, come la sua”, afferma Tommasino. Un incontro casuale come il loro, dice, “sembra un po’ magico, o qualcosa del genere”.
Se Khalil non si fosse trovato in quella galleria e se Tommasino non si fosse imbattuto in lui “alla mostra sarebbe mancato un elemento chiave”, dice il curatore. “È una scultura magistrale, e il suo posto è qui”.
Tommasino ha osservato che l’opera di Khalil, completata nel 2024, è la più recente tra quelle esposte, e questo dimostra quale sia la visione che anima la mostra, e cioè che l’antico Egitto continua a essere una fonte d’ispirazione. È una delle tante opere che mantiene la promessa della parola “oggi” inserita nel sottotitolo.
La lezione, afferma Tommasino, è che i curatori dovrebbero essere aperti a trovare l’arte in luoghi inaspettati.
Khalil, va detto, non è l’unico artista proveniente dal personale del Met. Ogni due anni i dipendenti organizzano delle mostre riservate allo staff per condividere le proprie opere.
A novembre una di queste esposizioni è stata aperta al pubblico, ed era la seconda volta nella storia del Met. Una portavoce del museo, però, ha dichiarato che quello della scultura di Khalil rappresenta il primo caso recente in cui un dipendente ha esposto un’opera in una delle mostre principali del museo.
Questo è un motivo di vanto anche per i colleghi di Khalil. “Tutto il dipartimento della sicurezza era entusiasta per il successo di Armia”, ha affermato Regina Lombardo, responsabile della sicurezza del museo. “È una gioia immensa poter vedere la sua opera nella mostra. È un riconoscimento meritato e una dimostrazione del suo talento”.
Non è chiaro cosa ne sarà della statua una volta chiusa la mostra. L’opera appartiene a Khalil ed è in prestito al museo. “Volevo semplicemente realizzare qualcosa di bello”, dice. “Qualcosa che dicesse ‘Non perdete la speranza. E continuate a sperare ogni giorno’”, commenta lui.
La direzione giusta
Un venerdì mattina di non molto tempo fa due visitatrici del museo, due donne che portavano occhiali dalla montatura nera e cappotti scuri, si sono fermate ad ammirare la scultura Hope. I am a morning scarab. Poi hanno guardato l’etichetta in basso, poi di nuovo la scultura. La targhetta spiega che l’artista è Armia Khalil, che ha cominciato a intagliare il legno al Cairo e che “continua a ispirarsi alle antiche sculture che incontra nel suo lavoro di addetto alla sicurezza al Met”. “Incredibile!”, ha commentato stupita una delle due.
Qualche istante dopo, all’altro capo del museo, Khalil, nella sua uniforme di custode, giacca e pantaloni blu, una cravatta vistosa, è stato avvicinato da un visitatore che stava cercando delle figurine di baseball d’epoca. Sorridendo, Khalil gli ha indicato dove andare. ◆ fdl
◆ 1980 Nasce a Qulusna, in Egitto.
◆ 2006 Dopo aver studiato all’accademia d’arte di Minya si trasferisce a New York, sognando di diventare uno scultore.
◆ 2012 Ottiene la cittadinanza statunitense e viene assunto come custode dell’ala egizia al Metropolitan museum of art (Met).
◆ 2023 Durante una giornata di lavoro conosce uno dei curatori del museo, Akili Tommasino, e gli mostra le sue opere.
◆ 2024 Una sua scultura in legno, intitolata Hope. I am a morning scarab, viene esposta al Met all’interno della mostra Flight into Egypt: black artists and ancient Egypt, 1876-now.
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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati