Dopo il fallimento delle transizioni democratiche cominciate all’inizio degli anni novanta e dei movimenti della società civile che da lì sono nati, in Africa si scontrano due grandi correnti di pensiero. La prima si basa sul progetto di una democrazia sostanziale, in cui non ci si limita a organizzare le elezioni, ma che ha l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita delle persone, liberare le donne, proteggere l’ambiente e garantire a tutta la popolazione un minimo di cure, giustizia e dignità. Più simile a una prospettiva o a una promessa che a una realtà, questo progetto è sostenuto da coalizioni formate da organizzazioni femministe, associazioni cittadine, movimenti urbani e collettivi di giovani, artisti, intellettuali e studiosi in cerca di alternative.
Aiutate dai cambiamenti demografici, oggi le nuove generazioni sono al centro della scena pubblica: di fronte a sistemi di potere che invecchiano, cercano di avere voce in capitolo nello sviluppo del continente. La loro convinzione è che i loro paesi non potranno raggiungere una decolonizzazione completa o la piena sovranità senza la democrazia e senza un impegno a favore della collettività. Per sostenere e mettere in rete queste iniziative locali sono state create istituzioni come la Fondazione dell’innovazione per la democrazia, con sede a Johannesburg, in Sudafrica, che ha propaggini in tutto il continente.
Panafricanismo illusorio
La seconda corrente, invece, fa leva su un panafricanismo illusorio e si presenta come la risposta alle sfide di un mondo ancora in gran parte condizionato dagli interessi delle grandi potenze mondiali. In realtà è preoccupato soprattutto dalle logiche di potere e dalle lotte interne per accaparrarsi le risorse nazionali. Convinti che siano i rapporti di forza a determinare le leggi, i seguaci di questa corrente non esitano a sostenere i colpi di stato e i regimi militari, purché siano visti come baluardi efficaci contro la predazione neocoloniale e imperialista. In nome della piena decolonizzazione e della sovranità, sostengono che l’Africa dovrebbe accettare la soppressione dei diritti civili e delle libertà individuali, perché ai loro occhi la democrazia liberale è una trappola, il cavallo di Troia del dominio occidentale.
Questa miscela di golpismo e sovranismo prende forma e s’istituzionalizza soprattutto in Africa occidentale e nel Sahel. Più che in altre parti del continente, la crescita della minaccia terroristica è andata di pari passo con quella del militarismo. I regimi di Mali, Burkina Faso, Guinea e Niger coltivano in diversa misura il sogno di costruire degli “stati caserma”, dove la vita politica, sociale ed economica è condizionata dagli imperativi di una triplice guerra: al terrorismo, antimperialista e contro i nemici interni.
Queste realtà sono caratterizzate dal predominio dei militari, dei servizi d’intelligence, delle istituzioni carcerarie e di polizia, e dalla scarsa considerazione per il dibattito pubblico e la ricerca del consenso. Quindi sono incompatibili non solo con i valori democratici, ma con il principio stesso di governo civile. A Bamako, Ouagadougou, Niamey e Conakry, l’esercito pretende di essere lo stato. E in linea con l’ideologia coloniale, questo stato regna su dei sudditi, non dei cittadini.

Invece di fermare la violenza e rendere più civili i costumi politici, il governo è assimilato al comando e la politica a una guerra latente. Non essendo responsabile nei confronti dei cittadini, il potere militare agisce esclusivamente sulla base del mandato eccezionale che gli conferisce la forza delle armi. Non è il custode di libertà civili frutto di un contratto sociale perché, in ultima analisi, la forza, la segretezza e la brutalità sottomettono il diritto. L’ondata di colpi di stato in Africa occidentale è stata accompagnata anche da un tentativo sistematico di precettare e dividere la società civile, un po’ come succedeva all’epoca dei partiti unici.
In assenza di reali contrappesi alla volontà di assoggettare totalmente le forze sociali, i regimi militari dell’Africa occidentale non sono capaci di superare le proprie tendenze all’imbarbarimento.
Tuttavia, nonostante la retorica, l’apparato militare di questi stati resta rudimentale e i loro strumenti di coercizione primitivi. Le agenzie di sicurezza, polizia e intelligence sono frammentate. Nella maggior parte dei casi operano isolate le une dalle altre o in bande, che prosperano grazie alle estorsioni. Le lotte tra fazioni all’interno degli apparati di controllo, sorveglianza e repressione fanno sì che le regole siano applicate in modo irregolare e discrezionale, nella totale arbitrarietà.
Inoltre questi stati non hanno il monopolio della violenza nei territori che dicono di controllare. Terrorismo, banditismo e altre forme di criminalità hanno creato un’enorme domanda di armi. Di conseguenza, aumenta anche la domanda di combattenti in un mercato regionale in rapida espansione. Soldati di professione, gendarmi e poliziotti sono solo un segmento della vasta gamma di soggetti formali e informali coinvolti nella nuova dinamica che, dalla metà degli anni novanta, lega strettamente guerra, prelievo fiscale forzoso, industria mineraria e atteggiamento predatorio.
La giunta militare non nasconde più la sua volontà di restare aggrappata al potere
Ovunque si fa ricorso ai mercenari. La crescente richiesta di compagnie militari private ha portato a un’esternalizzazione parziale dei servizi di sicurezza, affidati a una serie di entità e operatori privati, che forniscono servizi a numerose parti, compresi regimi ormai consolidati. Forniscono servizi anche a organizzazioni internazionali e ad aziende, in particolare a quelle del settore minerario.
Appoggiandosi a questo sistema predatorio allargato, i regimi militari possono usare la violenza per diversi scopi: acquisire ricchezze materiali, sfruttare le popolazioni o eliminare i loro presunti nemici. Da qui derivano il loro sforzo di neutralizzare i partiti e i movimenti di opposizione, e le minacce alla sicurezza dei civili in tutta la regione. Dietro gli orpelli del neosovranismo, i colpi di stato in Africa occidentale hanno favorito l’emergere e il consolidarsi di un sistema predatorio e liberticida, basato sulla violazione sistematica dei diritti umani, civili e politici.
Questo comporta rapimenti e arresti arbitrari, trattamenti disumani e degradanti di oppositori, prigionieri e detenuti, torture ed esecuzioni extragiudiziali, prepotenze di ogni tipo e un uso eccessivo della forza nelle interazioni quotidiane con la “plebaglia”.
Violenza esasperata
Tutti i regimi pretoriani dell’Africa occidentale sono affetti da questa sindrome, ma in Guinea la repressione violenta e la deriva liberticida hanno trovato il terreno più fertile. Fin dall’epoca di Ahmed Sékou Touré (primo presidente della Guinea indipendente, rimasto al potere dal 1958 fino alla sua morte nel 1984), questo paese ha conosciuto un modello di governo sanguinario, basato sul ricorso intermittente a una violenza esasperata. Non appena ottenuta l’indipendenza dalla Francia, la Guinea si è impantanata in un ciclo inarrestabile di brutalità. Secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra i 60mila e i 75mila guineani furono uccisi durante i regimi di Sékou Touré, del generale Lansana Conté (1984-2008) e della giunta militare guidata da Dadis Camara (2008-2010). Solo durante l’epoca di Conté, sono fuggite dal paese più di 1,5 milioni di persone, la maggior parte in Senegal.
Dopo aver preso il potere con la forza il 5 settembre 2021, Mamady Doumbouya si è rapidamente impossessato di tutte le leve del potere. Ha sostituito i prefetti civili con ufficiali militari e ha sciolto i 342 consigli comunali eletti nel paese. La sua macchina repressiva funziona a pieno regime. Chiunque sia sospettato di minacciare la sicurezza dello stato viene prelevato, preferibilmente di notte, e portato in un centro di detenzione. Spesso in quello di Kassa, un’isola al largo della capitale Conakry, dove i detenuti subiscono sistematicamente violenze fisiche e trattamenti degradanti. Altre persone sono condannate in processi lampo, parodie di giustizia che hanno solo una funzione politica. Le accuse sono sempre le stesse: “offesa al capo dello stato” o “minaccia alla sicurezza statale”.
◆ Il 30 gennaio 2025 un portavoce della giunta golpista guineana ha espresso dubbi sulla possibilità di organizzare le elezioni presidenziali entro l’anno, perché prima del voto dovrà svolgersi un referendum costituzionale. L’opposizione e la società civile guineane hanno più volte criticato la gestione autoritaria del potere del generale Mamady Doumbouya, autore del colpo di stato del 2021, chiedendo il ritorno a un governo guidato da civili.
◆ Il 29 gennaio era la data limite entro la quale 211 partiti politici guineani dovevano regolarizzarsi presso le nuove autorità, chiarendo le loro fonti di finanziamento. Secondo l’opposizione, in questo modo il regime cerca di sbarazzarsi degli avversari. Le Monde Afrique, Africanews, Rfi
La giunta militare non nasconde più la sua volontà di restare aggrappata a ogni costo al potere.
Gli impegni presi con la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale e con i partner internazionali non sono stati rispettati e non sono stati fatti progressi reali nel ripristino dell’ordine costituzionale e della democrazia. Il regime ha accelerato il dispiegamento di una macchina repressiva che non ha nulla da invidiare a quelle dei governi sanguinari del passato. Tutto ciò che rimaneva della sfera democratica è metodicamente distrutto: le organizzazioni della società civile vengono sciolte e i loro leader imprigionati; le manifestazioni pacifiche sono vietate; se lo ritengono necessario, le forze di sicurezza non esitano a sparare sui manifestanti che scendono in strada per protestare. La circolazione delle informazioni è limitata, l’accesso a internet è ridotto e sono frequenti le interferenze nelle trasmissioni radio.
Sotto il regime di Doumbouya, la vita dei guineani è peggiorata drasticamente e il costo dei beni di prima necessità continua a salire. I prezzi al consumo registrano spesso dei bruschi aumenti e quasi il 10 per cento dei guineani non ha più da mangiare a sufficienza.
Allo stesso tempo tra le varie fazioni dell’esercito s’inasprisce la lotta per il controllo dei mezzi di accaparramento delle risorse, in particolare per quanto riguarda il settore minerario.
Controllo totale
Poiché la giunta non sembra avere alcuna intenzione di lasciare il potere, si deve dedurre che la transizione non è più all’ordine del giorno e che il suo obiettivo è prendere il controllo totale dello stato. Per questo si prepara a organizzare delle elezioni farsa che cercherà di far approvare da una comunità internazionale avvezza all’arte del “ponzio-pilatismo”. Ha anche bisogno di neutralizzare figure politiche influenti, in particolare quelle che finora non è riuscita a costringere all’esilio, come Mamadou Aliou Bah (presidente del Movimento democratico liberale).
Questa strategia finirà inevitabilmente per aggravare le tensioni sociali, radicalizzare l’opposizione e far riemergere degli antagonismi etnici. Le élite al potere che fanno incetta delle risorse attraverso le attività estrattive e la pressione fiscale crescente esporranno la popolazione a rischi alimentari e a pericolose migrazioni. Per questo il governo militare della Guinea è una minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità regionale più di qualsiasi altro regime golpista-sovranista dell’Africa occidentale. ◆adg
Achille Mbembe è un filosofo e storico camerunese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La comunità della Terra (Marietti 1820, 2024).
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Questo articolo è uscito sul numero 1600 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati