L’Islanda è la patria dei ghiacciai e ora anche di un nuovo ritmo del lavoro. Tra il 2015 e il 2019 il paese ha condotto una grande sperimentazione sulla settimana lavorativa di quattro giorni. Il progetto ha coinvolto l’1 per cento della forza lavoro del paese. I risultati, presentati il 5 luglio, parlano di un “successo straordinario”, che ha ridotto lo stress mantenendo o migliorando i livelli di produttività. Questi dati hanno incoraggiato i sindacati islandesi a rinegoziare i contratti, e ora l’86 per cento della forza lavoro islandese potrebbe ottenere il diritto di chiedere una settimana di quattro giorni.
Nel Regno Unito la proposta di una settimana lavorativa di quattro giorni è stata tacciata di ingenuo idealismo di sinistra. In realtà se si considerano le tendenze di lungo periodo negli orari di lavoro, negli ultimi 150 anni si rileva un calo costante. Nel 1870 un operaio medio occidentale lavorava circa tremila ore all’anno. Secondo gli ultimi dati disponibili (2017), quella cifra si è pressoché dimezzata, calando di poco sotto le 1.600 ore. E grazie all’aumento della produttività, nello stesso periodo il reddito reale è più o meno sestuplicato. Anche solo proiettando queste tendenze nel futuro, dopo il 2030 potremmo avere una settimana lavorativa media di quattro giorni. E allora questa è un’utopia o è una scelta inevitabile?
Nelle prime fasi del movimento dei lavoratori il tempo libero era una priorità
Nel corso della storia moderna c’è stato un costante flusso di innovazioni – dall’istruzione gratuita al sistema fognario pubblico – che da puro idealismo sono diventate banale senso comune. Per capire come la questione della settimana di quattro giorni rientri in questo schema si può prendere in considerazione la storia della sua antesignana: la settimana di cinque giorni. All’inizio dell’ottocento la vita lavorativa nel Regno Unito fu stravolta dalla tecnologia. In un primo momento gli imprenditori erano determinati a far sgobbare gli operai nelle loro nuove fabbriche meccanizzate, tanto che gli orari di lavoro cominciarono ad allungarsi. Le pause erano considerate tempo perso, in alcuni paesi europei fu ridotto il tempo libero con giornate lavorative obbligatorie di dodici ore e si cercò anche di ridurre le vacanze tradizionali.
Negli anni trenta era ormai evidente che questa politica stava fallendo. Gli operai erano esausti, faticavano a essere produttivi e cominciarono a protestare prendendosi i cosiddetti saint mondays (lunedì del santo) per smaltire la sbronza della domenica. Così all’inizio della settimana i costosi macchinari delle fabbriche rimanevano spesso fermi. A quel punto alcuni imprenditori cominciarono a sperimentare una riduzione dell’orario di lavoro per capire se in questo modo aumentava la produttività dei lavoratori. Le loro esperienze furono riassunte in un libro, Eight hours for work, pubblicato nel 1894 dal giornalista scozzese John Rae. La Salford Iron Works, che aveva ridotto l’orario settimanale da 53 a 48 ore, scoprì che “gli uomini producevano di più nell’orario più corto che in quello più lungo”. Sempre più spesso gli imprenditori si rendevano conto che in seguito alla riduzione dell’orario di lavoro gli operai erano “più vivaci e presenti a se stessi”.
Tuttavia sarebbe stato impensabile che un cambiamento epocale fosse guidato solo da pochi uomini d’affari illuminati. Nei 150 anni successivi sono entrati in gioco altri due fattori: il governo e i sindacati. Oggi ce ne siamo quasi dimenticati, perché da sempre i sindacati hanno pensato più alla disoccupazione e ai salari che alla riduzione dell’orario di lavoro. Tuttavia nelle prime fasi del movimento dei lavoratori il tempo libero era una priorità altrettanto importante. Nel 1919, quando l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) si riunì a Washington per il suo primo congresso, scelse si concentrarsi sull’orario di lavoro e non sui salari, concordando sul principio delle “otto ore al giorno e quarantotto ore a settimana” nel settore manifatturiero. Secondo l’Ilo sarebbe stata “una riforma senza uguali”, “l’opportunità per i lavoratori di partecipare alla distribuzione della nuova ricchezza creata dall’industria moderna e di riceverne una parte sotto forma di tempo libero”.
In parte a causa di queste pressioni, i governi imposero dei limiti agli orari settimanali. A volte la sola minaccia di una nuova legge fu sufficiente per spingere gli industriali ad accettare una settimana lavorativa più corta. Quando un numero sufficiente di persone cominciò a organizzare la propria vita al ritmo della settimana di cinque giorni, fiorirono il turismo, gli sport seguiti dal pubblico e il cinema.
Negli ultimi trent’anni, in seguito a una nuova ondata di cambiamenti tecnologici, gli studi hanno dimostrato enormi aumenti dell’intensità e dei ritmi di lavoro. In una delle ricerche più approfondite la quota di persone che sostiene di lavorare intensamente per la maggior parte del tempo è passata dal 32 per cento nel 1992 al 46 per cento nel 2017. Non lavoriamo più ore dei nostri antenati, ma la metà di noi oggi sostiene di essere “sempre” o “spesso” esausto alla fine di una giornata lavorativa. Inoltre, quest’aumento rilevante dell’intensità lavorativa non ci sta portando da nessuna parte. In molti paesi la crescita della produttività legata alla rivoluzione digitale è stata deludente. Nel 1987 l’economista premio Nobel Robert Solow diceva: “L’era del computer si vede dappertutto tranne che nei dati sulla produttività”. All’epoca si credeva che questa discrepanza fosse più probabilmente sintomo di statistiche sbagliate, ma a distanza di oltre una generazione appare più sostanziale. Secondo l’economista Alan Felstead, invece di lavorare in modo sereno e produttivo grazie alle tecnologie digitali, i lavoratori sembrano “correre sempre più in fretta solo per rimanere fermi”.
Livelli d’allarme
L’ultimo anno e mezzo ha rafforzato questa sensazione frenetica di essere sopraffatti, con la piena digitalizzazione della vita professionale. Ogni mattina ci connettiamo e ingurgitiamo un torrente inarrestabile di email, messaggi e chiamate su Zoom, poi la sera crolliamo. Il livello d’allarme per esaurimento nervoso è altissimo e alcune aziende stanno sperimentando settimane in cui non si lavora. Questo è solo uno dei tentativi che le aziende innovative stanno facendo per capire se lavorare in modo più intelligente invece che più intenso possa essere la chiave per produrre di più. Quando lo studio legale neozelandese Perpetual Guardian ha sperimentato la settimana di quattro giorni lavorativi, la produttività è salita del 20 per cento, compensando quasi completamente la riduzione di ore di lavoro. Alla Microsoft Japan, una sperimentazione sulla settimana di quattro giorni è stata condotta di pari passo con l’introduzione di nuove regole per ottenere di più dalla tecnologia: le riunioni sono state limitate a un massimo di cinque partecipanti e trenta minuti di durata. La produttività è aumentata del 40 per cento.
Ma per quanto incoraggianti possano essere le analisi storiche, non si può certo stare tranquilli ad aspettare l’arrivo della settimana lavorativa di quattro giorni. Oggi la società deve fare una serie di scelte importanti. All’inizio del novecento, quando comparvero le ferie pagate, i lavoratori della classe media furono i primi a ottenerle. Poi è subentrato lo stato, minacciando di pretendere ferie pagate da tutti i datori di lavoro, e a quel punto le hanno avute anche gli operai.
Il tempo in cui non si lavora, inoltre, può avere un valore maggiore quando è coordinato, perché gran parte del suo valore sta nel fatto di poter essere condiviso. I fine settimana sono speciali non solo perché non lavoriamo, ma anche perché spesso non lavorano neanche i nostri amici e familiari. Anzi, i dati sul benessere ci dicono che perfino le persone disoccupate si sentono molto meglio di sabato e domenica, al punto che gli economisti hanno stimato che la metà circa del “valore” del fine settimana sta nella sua sincronia.
La dimostrazione più evidente ci viene dall’unica volta in cui i fine settimana sono stati aboliti. Nel 1929 l’Unione Sovietica eliminò il fine settimana sostituendolo con la nepreryvka, un ciclo continuo di turni di riposo che avrebbe permesso alla produzione di non fermarsi mai. Alla Pravda arrivò una lettera di protesta: “Cosa possiamo fare a casa se le nostre mogli sono in fabbrica, i nostri figli a scuola e nessuno può venire a farci visita? Non è una vacanza se devi trascorrerla da solo”. Ovviamente, l’esperimento fallì.
E questo ci riporta all’Islanda, dove c’è la stessa collaborazione – tra aziende disposte a sperimentare, sindacati e governo – che in passato ha determinato una crescita del tempo libero. Ci sono buoni motivi per credere che la settimana lavorativa di quattro giorni possa essere una di quelle idee potenti che all’inizio sembrano utopistiche ma poi all’improvviso diventano realtà. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati