C’è una domanda che una persona bianca dovrebbe porsi, in Italia, quando ascolta una persona non bianca che denuncia le modalità con cui è stata sottoposta a un controllo della polizia. A me è mai successo qualcosa di simile, in questi termini? La risposta, tendenzialmente, sarà no.
La profilazione razziale è un problema di lunga data per l’Italia. Un fenomeno sommerso, poco o mal indagato, ma su cui negli ultimi anni ha cominciato ad aprirsi un dibattito. La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza definisce la profilazione razziale come “l’uso da parte delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole”.
In paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Francia le persone non bianche sono fermate molto più di quelle bianche. Questi fermi possono essere brutali e in certi casi hanno fatto delle vittime, come nel caso di George Floyd a Minneapolis e Nahel Merzouk a Nanterre. Le istituzioni stanno provando a fare qualcosa per affrontare il problema. Nel Regno Unito, per esempio, è attiva una banca dati governativa in cui sono riportati i dati dei fermi di polizia delle persone non bianche. In California è stata creata una commissione indipendente. In Francia il consiglio di stato ha riconosciuto almeno a parole l’esistenza di un problema di profilazione razziale nelle forze dell’ordine.
In Italia manca una qualunque forma di riconoscimento istituzionale del fenomeno. Negli ultimi anni hanno avuto una certa eco storie di cronaca: il fermo di polizia piuttosto brutale subìto dall’ex calciatore del Milan Tiémoué Bakayoko, poi giustificato con il fatto che assomigliava a un ladro: il controllo violento di un gruppo di ragazzi e ragazze afrodiscendenti fuori a un McDonald’s a Milano, fatto senza alcun motivo preciso; il sequestro della caserma levante di Piacenza; e l’inchiesta sulla questura di Verona, in cui si verificavano violenze e abusi che colpivano quasi esclusivamente persone straniere. La profilazione razziale ha riguardato anche i negozi etnici o gestiti da stranieri. In questo caso si parla di “vigilanza etnica”.
Nel 2023 l’agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha pubblicato il rapporto Essere neri nell’UE. Nel capitolo dedicato ai fermi di polizia in Italia il 40 per cento degli intervistati ritiene che il suo ultimo fermo sia stato dettato da un pregiudizio razziale. Nel settembre 2024 il gruppo di esperti indipendenti delle Nazioni Unite ha lanciato un monito sul tema della profilazione razziale nel paese, sottolineando che le politiche repressive contro le droghe colpiscono in modo sproporzionato minoranze e altri gruppi vulnerabili. Sempre l’Onu qualche mese prima aveva denunciato il numero sproporzionato di africani e di persone di discendenza africana incarcerati in Italia.
Infine, lo scorso ottobre la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza ha pubblicato un rapporto sull’Italia in cui è usata 17 volte l’espressione “profilazione razziale” e si sottolinea che le autorità ignorano il problema. La reazione politica contro il rapporto è stata molto dura e dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, agli esponenti del governo Meloni, fino ai sindacati di polizia, si è alzato un coro unanime di solidarietà alle forze dell’ordine. Una mobilitazione collettiva che nel negare l’esistenza del problema lo ha confermato, dando ragione alle conclusioni della Commissione.
In assenza di commissioni, raccolte dati e studi nazionali sul tema della profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine, non restano che le storie.
Julia, 29 anni
Ho origini tanzaniane e già quand’ero più piccola le forze dell’ordine mi fermavano in strada mentre camminavo e mi chiedevano il permesso di soggiorno, nonostante io abbia la cittadinanza italiana. Nell’ultimo anno questa cosa è aumentata, sono stata fermata sei-sette volte in Emilia-Romagna, dove vivo.
Una sera ero in auto e una volante mi ha raggiunto e fatto accostare. La macchina era in leasing e hanno cominciato a chiedermi una valanga di documenti che io non ero nemmeno tenuta ad avere e mostrare, come ho scoperto dopo. Comunque, in quel momento non avevo tutto quello che chiedevano e così si sono rifiutati di ridarmi indietro i miei documenti d’identità, dicendo cose come “adesso diventi clandestina”, il tutto con un atteggiamento estremamente aggressivo. Siamo stati lì circa due ore, fino a quando i miei familiari sono arrivati con tutti i documenti dell’auto e mi hanno lasciato andare. È stata un’esperienza molto traumatica. Io ho la cittadinanza italiana ma questo mi ha fatto pensare a cosa può succedere a una persona che non ha i miei stessi privilegi.
Sono stata fermata altre volte in auto, da sola o con amici di origine straniera. Le persone bianche che mi circondano dicono che a loro non succedono queste cose, mi hanno fatto capire che tutto ciò non è normale. Il risultato è che io oggi cerco di guidare il meno possibile per non avere problemi.
Samuel, 31 anni
Ero in un supermercato in provincia di Modena quando io e il mio compagno siamo stati accusati di furto, un’accusa poi archiviata. Gli agenti ci hanno fermato e a me, tamil-srilankese con cittadinanza tedesca, hanno chiesto il permesso di soggiorno. Al mio compagno, italiano, la carta d’identità.
Mentre ci scortavano nel magazzino del supermercato, le differenze nel modo in cui eravamo trattati erano evidenti. Mentre lui camminava accanto a uno degli ufficiali senza essere toccato, io ero tenuto per un braccio con una forza non necessaria. Il mio fidanzato è stato trattato con dignità, mentre io come un sospettato solo per il mio aspetto.
Una volta arrivati alla stazione di polizia, uno degli agenti ha continuato a parlarmi in modo autorevole e irrispettoso, nonostante sapesse che non parlavo italiano. Poi siamo stati messi in celle di detenzione separate per qualche ora e lì sono stato sottoposto a ulteriori umiliazioni. Sono stato malmenato, trascinato per un braccio, spogliato con la forza e umiliato con una perquisizione rettale. Il mio compagno non ha ricevuto lo stesso trattamento degradante.
L’impatto psicologico di questa esperienza è stato profondo e duraturo. L’aggressione fisica e il peso emotivo di essere stato trattato come un criminale solo a causa della mia etnia mi hanno lasciato delle cicatrici profonde. Il disprezzo nei miei confronti mentre ero in custodia ha rafforzato l’idea che la mia umanità fosse secondaria rispetto ai pregiudizi degli agenti.
Shahzeb, 27 anni
Ero sceso sotto casa per buttare la spazzatura quando è arrivata una volante dei carabinieri. Uno mi ha intimato di fermarmi e di dargli un documento, un altro invece ha detto qualcosa tipo: “È solo un pakistano”, come se stessero cercando qualcun altro. Il primo carabiniere ha insistito, voleva i miei documenti altrimenti mi avrebbe portato in caserma. Gli ho spiegato che abitavo lì e che stavo solo buttando la spazzatura, non mi ero portato il portafoglio. La cosa è andata avanti per una decina di minuti, poi si è risolta. Da quella volta mi porto dietro il portafoglio qualunque cosa faccia.
Non è stata l’unica volta in cui mi sono sentito trattato in modo diverso per via delle mie origini. Un giorno, all’alba, sono stato fermato a Padova mentre andavo al lavoro in monopattino. Non hanno creduto che andassi al lavoro, contestando tra le altre cose che non avevo con me uno zaino o una borsa. Mi hanno ordinato di mettere le mani sulla volante dando loro le spalle e hanno cominciato una lunga perquisizione. È stata un’esperienza che mi ha disturbato, la sensazione di avere delle mani addosso, anche nelle parti intime. Un’altra volta mi ricordo che ero alla stazione di Padova, sulla banchina c’erano decine di persone e due agenti che facevano avanti e indietro. Poi sono venuti a chiedere i documenti a me, l’unica persona non bianca del gruppo.
Dopo queste e altre esperienze ora sto molto attento. Quando vado in monopattino o in bici, vedendo le forze dell’ordine in lontananza cambio strada per non avere problemi. I miei amici mi prendono in giro, di recente ero con loro quando la polizia mi ha fermato e sono andato nel panico. Non so mai cosa aspettarmi, potrebbe succedere qualsiasi cosa e soprattutto ora che ho fatto la domanda di cittadinanza italiana vorrei poter stare tranquillo.
Karima, 32 anni
Io ho la cittadinanza italiana, la carnagione chiara e non porto il velo, quindi sono meno presa di mira rispetto ad altre persone di origine tunisina. Nonostante questo a Milano, dove vivo, mi sono sentita più volte discriminata dalle forze dell’ordine, che forse hanno un occhio allenato per queste cose.
Mi capita soprattutto d’estate, quando sono più visibili i tatuaggi con le scritte in arabo, la collana al collo con il mio nome scritto in arabo o la carnagione è più scura per l’abbronzatura. La profilazione razziale però la percepisco soprattutto in aeroporto. Nel 90 per cento dei casi, dopo aver presentato passaporto e carta d’imbarco, sono selezionata per i classici controlli random e quindi a un certo punto ho cominciato a farmi delle domande.
Quando devo viaggiare vado in stazione o in aeroporto sempre parecchio in anticipo perché so che inevitabilmente qualche controllo in più me lo faranno e si andrà per le lunghe.
In generale evito di uscire di casa senza documenti, così da prevenire ogni problema. La profilazione razziale ha avuto un’influenza anche sul mio lavoro di giornalista. A volte ho paura a partecipare a certe manifestazioni o situazioni simili perché già i giornalisti sono presi di mira, i giornalisti razzializzati lo sono ancora di più. È una questione sicuramente psicologica, che nasce però da un vissuto che crea disagio.
Anna Brambilla, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)
Ho lavorato a Ventimiglia con alcuni colleghi e in stazione abbiamo potuto osservare in modo sistematico i controlli mirati da parte della polizia italiana nei confronti di persone con tratti tali da farli individuare come stranieri. La linea del colore si mischia a quella del genere: a essere fermati erano e sono quasi esclusivamente uomini neri, percepiti come migranti irregolari da sottoporre a controlli, che pur essendo di polizia si traducono di fatto in controlli di frontiera.
In altri contesti le cose cambiano. Nelle stazioni del foggiano e del barese per esempio gli uomini neri non sono fermati: è noto che lavorano nella zona. A essere fermati sono piuttosto chi si pensa che provenga da Pakistan, Afghanistan, Turchia o Iraq, presupponendo che possa essere arrivato irregolarmente via mare, attraverso la rotta adriatica.
Nelle aree vicine alle stazioni o nei quartieri in cui c’è un’alta percentuale di abitanti con background migratorio, spesso alla linea del colore e del genere si associa anche la linea dell’età. Il fermo riguarda soprattutto i ragazzi non bianchi. Anche le attività commerciali sono spesso sottoposte a maggiori controlli da parte della polizia municipale o finiscono nel mirino di ordinanze sindacali che impongono orari di chiusura diversi da quelli previsti in altre zone, per ragioni pretestuose e discriminatorie.
Il senso di mortificazione e la violenza percepiti da coloro che subiscono questi controlli emerge solo in occasione di eventi specifici: fermi particolarmente violenti, contestazioni di resistenza a pubblico ufficiale o, nei casi più drammatici, morti.
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