All’inizio di giugno, l’autorità sanitaria di New York ha pubblicato una serie di linee guida per il covid-19 in cui dà allegramente via libera al sesso. Nonostante l’obbligo di portare la mascherina, i vari lockdown e la raccomandazione di mantenere una distanza di un metro e ottanta gli uni dagli altri, l’amministrazione della città ha detto che è permesso avere rapporti sessuali e che anzi, sarebbe meglio “aggiungere un po’ di pepe”. Mi è sembrato un incoraggiamento a fare orge in maschera nel parco.

È stato confortante vedere un organismo governativo americano rispondere con spirito pratico e lungimiranza ai bisogni erotici della popolazione: momenti del genere sono rari. È per questo che bisogna ricordare sempre Aleksandra Kollontaj, un’intellettuale politica russa dei primi del novecento che immaginò uno stato comunista in cui l’amore libero era la regola. Kollontaj non era perfetta: la sua idea di piacere, come vedremo, era molto eterosessuale e inseparabile dall’obiettivo di procreare sempre più cittadini comunisti (su questo secondo punto, pur considerando l’aborto un “diritto democratico fondamentale” non insiste mai troppo). Ma come ha detto recentemente la politologa Jodi Dean, “Aleksandra Kollontaj c’insegna a prendere atto del fatto che gli aspetti più intimi delle nostre vite sono collettivi”.

Nata nel 1872 da una famiglia aristocratica, Kollontaj si avvicinò a posizioni radicali in gioventù e passò gli anni prima della rivoluzione bolscevica del 1917 a organizzare le operaie nelle fabbriche che servivano l’industria tessile e del tabacco. Nel tempo libero studiò Karl Marx, Friedrich Engels, August Bebel, Lenin e Rosa Luxemburg, oltre a molti altri intellettuali oggi non altrettanto noti, come il menscevico Georgij Plekhanov, la femminista svedese Ellen Key, il poeta e critico letterario Nikolaj Dobroljubov e le femministe tedesche Lily Braun e Clara Zetkin. Kollontaj era conosciuta soprattutto per le sue idee politiche, ma come Alexandria Ocasio-Cortez, il cui rossetto preferito è andato esaurito dopo la sua elezione al congresso degli Stati Uniti nel 2018, era anche apprezzata per il suo stile: riuscì a intrufolarsi in Europa per affari del partito dopo aver convinto le guardie della frontiera che doveva fare compere per tenersi aggiornata sulle ultime tendenze della moda. Era famosa per i suoi cappelli appariscenti, ma a parte questo, la sua meticolosa biografa Cathy Porter sottolinea la “costosa semplicità” del suo senso estetico: abiti aderenti, tonalità sul grigio o sul marrone e l’ostentata assenza di corsetti con le stecche. Scrittrice molto apprezzata, era anche un’oratrice popolarissima tra gli operai e i contadini.

Come ministra del governo bolscevico, Kollontaj invitò i suoi colleghi maschi a sostenere le donne incinte e le madri, in un’epoca in cui gli orfanotrofi e perfino le strade traboccavano di bambini abbandonati. Si batté per gli asili nido gratis, il congedo di maternità retribuito, l’abolizione dei turni di notte per le madri, la parità di salario per le donne e la creazione di speciali agenzie pubbliche incaricate di supervisionare questi cambiamenti. Fu l’unica componente del gabinetto bolscevico originale a rimanere al governo – e a sopravvivere fino alla vecchiaia – ma alla lunga Stalin si stancò dei suoi continui dissensi. Nel 1923 la spedì in Norvegia come ambasciatrice, la prima donna al mondo a ricevere questo incarico, per poi spostarla nello stesso ruolo in Messico e in Svezia. Morì di morte naturale a ottant’anni, senza aver visto realizzata quasi nessuna delle sue idee rivoluzionarie.

Nonostante il titolo meravigliosamente sfacciato della sua Autobiografia di una donna comunista sessualmente emancipata, del 1926, Kollontaj non sentì mai di aver raggiunto l’ideale di amore comunista del quale scrisse per tutta la vita (non fatevi ingannare dal titolo: purtroppo le sue memorie sono prive di contenuti salaci o anche solo di buoni pettegolezzi comunisti). Come ricorda nell’Autobiografia:

Sorge la domanda se nel mezzo di tutti questi molteplici e appassionanti oneri e incarichi di partito io possa ancora trovare il tempo per le esperienze intime, per le gioie e i dolori dell’amore. Purtroppo sì! Dico purtroppo perché di solito queste esperienze comportano troppe preoccupazioni, delusioni e sofferenze, e perché attraverso di esse troppe energie sono consumate inutilmente.

Dopo la rivoluzione di ottobre, Kollontaj sparì brevemente mentre era ministra del nuovo governo. I suoi compagni bolscevichi scoprirono che era fuggita con il suo amante, il rivoluzionario Pavel Dybenko. La situazione era del tutto comprensibile: la passione, il desiderio e il “dramma” dell’emozione, nelle parole della stessa Kollontaj, possono facilmente distrarre anche dai lavori più importanti. Kollontaj, però, tendeva a mettere il comunismo sovietico prima della vita amorosa, forse per spirito di conservazione.

Bisogna ricordare sempre Aleksandra Kollontaj, un’intellettuale russa dei primi del novecento che immaginò uno stato comunista in cui l’amore libero era la regola

Oggi Kollontaj è al centro di un piccolo revival, parte di quello più ampio del femminismo socialista. Le sue opere sono ampiamente citate nel libro di Jodi Dean Comrade: an essay on political belonging (Compagna: saggio sull’appartenenza politica) del 2019 e le sue idee sono alla base del fortunato best seller di Kristen Ghodsee Why women have better sex under socialism: and other arguments for economic independence (Perché le donne hanno rapporti sessuali migliori sotto il socialismo e altre argomentazioni a favore dell’indipendenza economica) del 2018. Kollontaj è stata oggetto di Red love, una mostra del 2018 dell’artista Dora García, allestita in una galleria alla periferia di Stoccolma, che a sua volta ha dato vita a una vivace antologia di saggi dallo stesso nome.

Durante tutta la carriera di Kollontaj, i suoi avversari politici –comunisti delle fazioni opposte, compagni sessualmente conservatori, la stampa capitalista occidentale – hanno sempre frainteso e preso in giro le sue idee sulla liberazione sessuale e l’amore. Oggi, però, il suo pensiero sta diventando sempre più rilevante. “Nella battaglia per cambiare fondamentalmente le loro condizioni di vita”, scriveva a proposito delle donne comuniste, “sanno che contribuiscono anche a riformare le relazioni tra i sessi”.

Kollontaj non è stata certo l’unica autrice di epoca vittoriana a invocare la libertà sessuale delle donne e la fine del matrimonio convenzionale. Ma è stata una delle poche a capire che quella libertà doveva avere una base materiale.

Per alcune femministe, scrive nel 1909, “l’eroica battaglia individuale delle giovani donne del mondo borghese, che gettano il guanto di sfida e chiedono alla società il diritto di ‘osare amare’ senza ordini e senza catene, deve servire da esempio per tutte le donne che languono tra le catene della famiglia”. Per queste femministe, prosegue, la questione del matrimonio “si risolve indipendentemente dai cambiamenti della struttura economica della società. Gli sforzi isolati ed eroici dei singoli sono sufficienti. Lasciate che una donna semplicemente ‘osi’ e il problema del matrimonio è risolto”. Ma, afferma, l’amore libero non deve essere soltanto per gli “eroi”. Nella società del 1909, il rischio era che anziché liberare le donne dalla vita familiare, le avrebbe “gravate di un nuovo fardello: il compito di occuparsi, sole e senza aiuti, dei figli”.

Il comunismo, sostiene Kollontaj, può rendere possibile l’“amore libero” per le donne socializzando il lavoro domestico e la cura dei figli, oltre a creare condizioni più favorevoli per le donne incinte e per le balie. Kollontaj immaginava (e, quando era al governo, riuscì anche a realizzare) delle case di maternità in cui le donne fossero assistite durante la gravidanza e dopo il parto. Tutte le mamme devono avere del tempo libero garantito. Se lo stato le aiuta nel loro ruolo di madri e si prende cura dei loro figli, ragionava Kollontaj, le donne saranno molto più libere di dedicarsi al sesso e di godere dei suoi piaceri (oltre, ovviamente, a lavorare e a partecipare pienamente alla costruzione del comunismo).

Molti altri socialisti della prima ora teorizzarono la possibilità di migliorare il sesso sbarazzandosi dell’individualismo capitalista. All’inizio dell’ottocento, per esempio, il socialista utopista Charles Fourier immaginò degli assurdi quanto deliziosi incontri sessuali “democratizzati” con un “esercito di amanti” itineranti pronti a far visita a chiunque ne avesse avuto bisogno. Ancora prima, il filantropo e riformatore sociale gallese Robert Owen aveva immaginato delle comuni organizzate intorno a una forma di matrimonio di gruppo. Rispetto a tutti questi intellettuali, Kollontaj ha avuto il merito di capire come il capitalismo rovina il sesso per le donne e soprattutto in che modo il comunismo può migliorarlo.

Francesca Ghermandi

Quale fu l’impatto delle sue idee? Pur riuscendo a raggiungere alcuni obiettivi come il congedo parentale e le case di maternità, Kollontaj fu derisa anche dai suoi compagni bolscevichi per le sue teorie sull’“amore libero”. Il regime bolscevico, osservava lei con una certa irritazione, non era sessualmente più progressista di molte democrazie liberali occidentali su temi come il divorzio, l’abolizione del concetto d’illegittimità dei figli e la legalizzazione dell’omosessualità (in particolare l’omofobia rimase intatta). E se nel 1920 i bolscevichi legalizzarono l’aborto, nel 1936 Stalin lo vietò di nuovo per tenere alto il tasso di natalità. Come molti suoi colleghi nel mondo capitalista, il leader sovietico doveva fare conti con la carenza di manodopera e considerava l’approccio di Kollontaj – rendere la maternità più semplice e più gioiosa – troppo costoso. Kollontaj contribuì ad alcune importanti riforme sociali, ma per certi versi la Russia sovietica fu per lei un anticlimax.

Tra le molte cose che Kollontaj non approvava del sesso borghese, è il fatto che secondo lei isolava “dalla collettività la coppia in amore”. Il suo timore era che le coppie si ritirassero nella loro dimensione privata, allontanandosi dalla ricerca del bene comune. L’amore sotto il capitalismo poteva essere una gioia privata, ma anche un inferno privato. Kollontaj era convinta che il comunismo avrebbe trasformato questa esperienza, ma non sapeva dire esattamente come. “Quale sarà la natura di questo Eros trasformato? Nemmeno la fantasia più audace riuscirebbe a fornire la risposta a questa domanda”.

Alcuni princìpi, però, le erano chiari. Il sesso comunista doveva essere guidato dalla parità di genere e dalla “fine dell’egoismo maschile e della soppressione schiavistica della personalità femminile”. Contrariamente a quanto insegnava la “cultura borghese”, gli esseri umani non erano proprietà privata: “L’uno non possiede il cuore e l’anima dell’altro”. Infine, invocava “la sensibilità tra compagni, la capacità di ascoltare e capire le dinamiche interiori della persona amata (secondo la cultura borghese tutto questo è compito esclusivo della donna)”. Il consenso non è mai citato nei suoi scritti, ma è implicito nella sua rabbia nei confronti dello stupro e della coercizione economica. Penso che lo avrebbe considerato una condizione necessaria, ma pateticamente insufficiente per il sesso.

Nel contesto di una società fondata su una “gioiosa unità e solidarietà tra compagni”, scrive Kollontaj, il sesso e l’amore dovrebbero essere molto migliori, ma allo stesso tempo contare meno:

Più forti sono i legami intellettuali ed emotivi della nuova umanità, meno spazio c’è per l’amore nella presente accezione della parola. Per quanto sia grande l’amore tra due persone, i vincoli che le legano alla collettività avranno sempre la precedenza, saranno più saldi, più complessi e organici. La morale borghese chiede tutto per la persona amata. La morale del proletariato chiede tutto per la collettività.

Kollontaj osserva che anche se l’amore borghese è per definizione una questione privata, favorisce comunque gli interessi di classe. Come sa bene chiunque abbia letto i romanzi dell’ottocento, l’amore e il sesso – e la loro regolamentazione – assicurano il passaggio ordinato della proprietà e il consolidamento della ricchezza. Nelle epoche precedenti, l’ideale dell’amor cortese aveva ispirato l’eroismo cavalleresco. Secondo Kollontaj, anche i proletari devono usare l’amore per promuovere i propri interessi di classe. Anziché sottrarre i compagni alla sfera pubblica, l’amore dovrebbe spingerli ad attingere a un eros collettivo per dedicarsi pienamente alle lotte della classe operaia. Se avete partecipato a un movimento – o a una manifestazione o a uno sciopero – conoscete bene questo eros.

Il film Ninotchka, diretto nel 1939 da Ernst Lu­bitsch, esplora le tensioni tra amore, collettività e solidarietà di classe con una vena da commedia degli anni trenta. La protagonista, interpretata da Greta Garbo, è un’agente sovietica a Parigi, un personaggio secondo qualcuno ispirato proprio ad Aleksandra Kollontaj o più probabilmente, come osserva Aaron Schuster nel suo saggio per la raccolta Red love, a una parodia dell’ideale sessuale comunista di Kollontaj. Superficialmente, il film può essere letto come un’opera di propaganda antisovietica: Ninotchka tradisce i suoi princìpi comunisti innamorandosi di Leon, un aristocratico europeo, e scopre i piaceri sensuali della biancheria pregiata. Per conquistarlo non deve fare altro che ricorrere al suo approccio comicamente clinico al sesso. “Chimicamente abbiamo già le affinità elettive”, dice al suo corteggiatore. Come ci si può aspettare da un film hollywoodiano, la relazione la trasforma. Innamorata di Leon, Ninotchka diventa più graziosa, più felice, più femminile. Compra un cappello ridicolmente vistoso – forse una strizzata d’occhio giocosa alla predilezione di Kollontaj per i cappelli – che diventa il simbolo del suo cedimento al capitalismo. Prima d’incontrare Leon, aveva riso dello stesso cappello additandolo come il segno dell’agonia del capitalismo.

Ma, come osserva Schuster, quella del trionfo del capitalismo non è l’unica lettura possibile della storia. Quando Ninotchka si ubriaca insieme al suo amante aristocratico – con lo champagne, per il quale scopre di avere una passione – parte con un’arringa sulla grandezza della Russia comunista e si nasconde in bagno per organizzare le inservienti. Come osserva Schuster, la scena capovolge scherzosamente il cliché del desiderio sessuale che si rivela attraverso l’alcol:

Mentre la protagonista è completamente ubriaca e fuori controllo, è l’amore collettivo a emergere in superficie. È questa la natura più profonda di Ninotchka, il suo inconscio, la sua passione più vera. Il messaggio nascosto del film è che se ti ubriachi e ti lasci andare, se superi le tue inibizioni, se lasci libero il tuo inconscio, scoprirai di essere comunista.

Nel film c’è una contrapposizione tra amore romantico e comunismo. È chiaro che Lubitsch, come Kollontaj, capisce che l’amore borghese esclusivo e privatizzato è in contraddizione con l’impegno collettivo. A un certo punto Leon comincia addirittura a parlare di sfruttamento, lasciando intendere che potrebbe diventare anche lui un compagno. Ninotchka torna per un po’ in Russia, ma le manca Leon. Alla fine del film sembra preferire l’amore al suo impegno verso la Russia sovietica (una scelta che Kollontaj non avrebbe mai fatto), ma vale la pena di notare che per farla tornare Leon deve cospirare con i suoi compagni per organizzare una falsa missione per conto del partito.

Il film ci lascia con un interrogativo: Ninotchka sarà felice senza il comunismo? Anche se si strugge per Leon, alla lunga non soffrirà ancora di più per la perdita dell’eros collettivo? Possiamo dire che ancora non lo sappiamo. O forse, dopo secoli di capitalismo, lo sappiamo fin troppo bene. ◆ fas

Liza Featherstone è una giornalista statunitense. Collabora con giornali come Jacobin e The Nation. Questo articolo è l’adattamento della sua prefazione a una raccolta dei saggi di Aleksandra Kollontaj, che uscirà quest’anno per OR Books e International Publishers. È uscito su Lux Magazine con il titolo Eros for the people.

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Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati