Nell’estate del 1992 un ragazzo ungherese di 29 anni con ambizioni politiche andò per la prima volta negli Stati Uniti. Per sei settimane girò il paese con un gruppo di giovani europei. Tutto a spese del German Marshall fund, un centro studi che promuove la cooperazione transatlantica.
Viktor Orbán era affascinato dagli Stati Uniti già da tempo, ma la visita a una Los Angeles che portava ancora i segni della rivolta scatenata due mesi prima dal pestaggio di Rodney King non lo impressionò molto. Un giornalista olandese che partecipava al viaggio ricorda che gli europei dell’est preferivano spendere la loro diaria per “walkman e altri aggeggi elettronici” invece che in ristoranti o alberghi eleganti. Il libero mercato e le tecnologie d’avanguardia attiravano Orbán più dei dibattiti e delle lotte per l’uguaglianza, la giustizia e i diritti degli afroamericani.
L’indifferenza di Orbán per la sorte delle minoranze fu particolarmente evidente nella riserva dei nativi americani umatilla, in Oregon. Insieme a una compagna di viaggio, la giornalista polacca Małgorzata Bochenek, Orbán li ascoltò denunciare le ingiustizie economiche di cui erano vittime. Poi fece alcune domande sulla distribuzione della terra. E chiese perché non elaborassero una strategia per far fruttare i beni comuni della riserva. In fondo era quello che i piccoli proprietari ungheresi come i suoi genitori avevano fatto con le fattorie collettive dopo la fine del comunismo. Orbán cominciò ad abbozzare un progetto, ma quando si accorse che gli umatilla non erano troppo entusiasti perse subito interesse.
Per il resto del viaggio, quello che lo affascinò di più fu la grande politica. La visita si concluse a New York, dove Orbán poté assistere alla convention nazionale dei democratici al Madison square garden e alla nomination di Bill Clinton alle presidenziali dell’autunno, annunciata sulle note di Don’t stop dei Fleetwood Mac. Quell’atmosfera elettrizzante lo colpì profondamente. E l’esperienza statunitense rafforzò il suo desiderio di diventare primo ministro d’Ungheria.
In quel periodo il fascino esercitato dall’occidente sui giovani dell’Europa centrorientale stava assumendo altre caratteristiche. Nel 1989, quando Orbán era all’università di Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione di George Soros, il modello occidentale degli ultimi anni della guerra fredda – fondato su capitalismo senza regole, stabilità sociale e tradizioni nazionali – era ancora dominante. Erano questi i valori che il giovane ungherese voleva importare in Ungheria. Tre anni dopo, all’epoca del viaggio negli Stati Uniti, molte cose erano cambiate. Il libero mercato regnava supremo, ma la cultura europea e quella nordamericana erano entrate in una fase più introspettiva. A Orbán piaceva il “clintonismo” come sistema amministrativo ed economico, ma non gli interessavano i dibattiti sui diritti umani, le questioni di genere, il razzismo, il colonialismo, l’olocausto.

L’entusiasmo di Orbán per l’economia statunitense e la sua indifferenza alle preoccupazioni culturali del paese erano un segnale della direzione che l’Ungheria, e poi anche la Polonia, avrebbero preso nei decenni seguenti. Negli anni novanta Varsavia e Budapest furono le più convinte sostenitrici della “terapia shock” in economia e approvarono riforme perfino più radicali di quelle suggerite dai consulenti occidentali. Ma in termini culturali scelsero una strada molto più conservatrice. Il risultato è che in tutti questi anni entrambi i paesi hanno continuato a considerarsi profondamente europei, anche se si sono allontanati molto dal liberalismo che contraddistingue l’Unione europea.
Dieci anni dopo la visita alla riserva degli umatilla, Małgorzata Bochenek diventò consigliera del presidente polacco Lech Kaczyński, che insieme al fratello Jarosław era stato il fondatore del partito nazionalista e conservatore Diritto e giustizia (Pis), oggi sostenuto da quasi il 45 per cento dei polacchi. In Ungheria, invece, Fidesz, la formazione di Orbán, può contare su una supermaggioranza di due terzi dei seggi in parlamento. I due partiti hanno attuato politiche simili: hanno messo persone di fiducia nei tribunali e alla guida dei mezzi d’informazione, hanno soffocato ong, istituzioni culturali e università progressiste e hanno calpestato la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, negando l’accesso all’interruzione di gravidanza legale e il riconoscimento giuridico delle persone transgender. E, infine, hanno ignorato gli inviti delle istituzioni europee a rendere conto di queste numerose provocazioni. In Polonia e Ungheria, tuttavia, quattro cittadini su cinque restano convinti che il loro paese debba far parte dell’Unione europea. Per gli illiberali di Budapest e Varsavia, l’obiettivo è avere più autonomia all’interno dell’Unione, non uscirne.
L’imperativo dell’imitazione
Com’è possibile che i rivoluzionari del 1989 siano diventati i sovranisti di oggi? È una domanda a cui si può rispondere in molti modi. Questa trasformazione può essere raccontata come un graduale allontanamento, come un ritorno forzato all’interesse nazionale provocato da un trauma esterno, oppure come una ribellione degli allievi contro i loro ex maestri.

Nel libro del 2019 La rivolta antiliberale il politologo bulgaro Ivan Krastev e il professore di diritto statunitense Stephen Holmes sposano l’ipotesi della ribellione. Sostengono che la transizione dal comunismo alla democrazia capitalista sia stata plasmata da un “liberalismo imitativo”. Gli europei dell’est si fecero carico di adottare i costumi, le norme e le istituzioni del mondo occidentale, di cui desideravano la ricchezza e le libertà. Il problema, secondo Krastev e Holmes, è che sottoporsi a questo “imperativo dell’imitazione” risultò “stressante” ed “emotivamente gravoso”. Così, quando l’esito del processo non si è dimostrato all’altezza delle aspettative, la scelta d’inseguire un ideale esterno ha finito per alimentare risentimento e frustrazione. Costretti a misurarsi con l’umiliazione di una perpetua inferiorità, Orbán e i fratelli Kaczyński hanno usato la crisi economica del 2008 e quella migratoria del 2015 come alibi per respingere il liberalismo occidentale e promuovere un’alternativa illiberale.
Per Krastev e Holmes, l’emigrazione dall’Europa centrorientale è un elemento cruciale del successo della politica nazionalista. Un esodo durato decenni ha scatenato un panico demografico che, suggeriscono i due studiosi, accentua le paure legate all’arrivo dei migranti mediorientali e africani. In effetti, soprattutto in Ungheria, le misure contro l’immigrazione sono andate a braccetto con iniziative per arrestare il calo della popolazione dovuto ai bassi tassi di natalità e all’emigrazione. Orbán ha adottato un’ambiziosa politica familiare che prevede la nazionalizzazione delle cliniche per la fecondazione assistita, oltre a prestiti generosi e agevolazioni fiscali per le coppie e le famiglie numerose. E ha anche concesso la cittadinanza ungherese a più di un milione di persone delle comunità magiare in Slovacchia, Romania, Croazia, Serbia e Ucraina, creando così una “società civile della diaspora”, fedele al partito Fidesz, in quell’area che i nazionalisti ungheresi considerano ancora la “Grande Ungheria”.
Anche altri paesi, tuttavia, hanno visto emigrare milioni di cittadini e non hanno imboccato la strada della democrazia illiberale. Tra il 1989 e il 2017, la Lettonia ha perso il 27 per cento della sua popolazione, la Lituania il 22,5, la Croazia il 22 e la Bulgaria il 21. Ma gli stati del Baltico e dei Balcani non hanno seguito l’esempio di Polonia e Ungheria. In questi paesi il sovranismo esiste, ma non è diventato l’attore principale della politica nazionale. In Bulgaria, un movimento di protesta europeista ha dato vita al partito che è arrivato secondo alle elezioni della primavera 2021, e il primo ministro uscente, Boyko Borisov, ha affermato che “l’orientamento euro-atlantico del paese dev’essere chiaro”. La Romania, che dal 1990 ha perso un quinto degli abitanti, non è caduta vittima della politica dell’uomo forte, ma ha vissuto diverse ondate di proteste contro la corruzione e a favore di una maggiore integrazione europea. La Polonia e l’Ungheria, i paesi che hanno adottato il modello della democrazia illiberale, hanno tassi di emigrazione netta, cioè il saldo tra chi parte e chi arriva, tra i più bassi della regione.

Le migrazioni influenzano la politica sovranista, ma non bastano a spiegare la più ampia crisi del liberalismo. Oggi gran parte dei paesi europei ha politiche di esclusione verso i migranti. Eppure, nonostante questa generale ostilità, solo i governi nazionalisti di Regno Unito, Polonia e Ungheria si sono allontanati dall’Unione europea o hanno voltato le spalle ai suoi valori. E solo Budapest e Varsavia hanno dichiarato guerra alla società civile progressista e allo stato di diritto. Tra i nazionalisti europei, Kaczyński e Orbán si distinguono non per il loro sciovinismo, ma per l’autoritarismo con cui combattono gli oppositori interni e sfidano le istituzioni europee e internazionali. I partiti al governo in Polonia e Ungheria inseguono una rottura con il passato più autentica rispetto alla transizione del 1989. Il loro nazionalismo antiliberale non è solo un’esplosione d’incontrollabili passioni. Entrambi i paesi sono convinti di avere un compito storico, e ritengono che la fine del comunismo sia stata solo l’inizio del cammino verso la liberazione nazionale. Il fatto che queste idee abbiano preso corpo durante il decennio della transizione suggerisce anche che la democrazia illiberale è un progetto politico vero e proprio, non semplicemente una reazione, e ha precisi obiettivi ideologici.
Alla resa dei conti
La rivolta contro il liberalismo cominciò a farsi strada tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila, quando una parte sempre più consistente della destra polacca e ungherese cominciò a esigere una rottura più netta con il passato. Nel suo primo mandato da capo del governo, dal 1998 al 2002, Orbán incoraggiò il revisionismo sulla shoah e il razzismo contro i rom, e appoggiò – unico paese in Europa – il governo di estrema destra di Jörg Haider nella vicina Austria. Nonostante tutto, l’Ungheria continuò a registrare una solida crescita economica e nel 1999 entrò nella Nato. Nelle capitali occidentali le politiche di estrema destra di Orbán furono largamente ignorate.
La sconfitta elettorale di misura del 2002, per mano dei socialisti, convinse Orbán che i comunisti rimasti nella società ungherese avevano cospirato per interrompere la sua esperienza di governo. Nel 2004, quando l’Ungheria entrò nell’Unione europea, buona parte dei fondi comunitari finì nelle mani di un gruppo di politici vicini al primo ministro di centro-sinistra Ferenc Gyurcsány, un economista che negli anni ottanta aveva guidato la Lega dei giovani comunisti ungheresi. Durante la transizione, Gyurcsány e i suoi vecchi compagni avevano accumulato una piccola fortuna grazie a società di consulenza che avevano nomi tipo Eurocorp International Finance Inc. A metà degli anni duemila erano presenze fisse al forum di Davos. Trasformazioni di questo genere erano frequenti in tutta l’Europa centrale e orientale, e aiutarono Orbán a dipingere il comunismo sovietico e il liberalismo europeo come due forme di dominio esterno sull’Ungheria.
Come a Budapest, anche a Varsavia il ruolo degli ex comunisti nel facilitare la transizione alla democrazia liberale finì per radicalizzare la destra. Nel 1997 i conservatori cominciarono a invocare “una quarta repubblica polacca” che mettesse fine alla terza, nata con il 1989. Quattro anni dopo Lech e Jarosław Kaczyński fondarono Diritto e giustizia, promettendo agli elettori una “purificazione” profonda del paese e il rinnovamento politico della società polacca. L’obiettivo dei Kaczyński era usare tutti gli strumenti dei poteri esecutivo e legislativo per arrivare a una resa dei conti con quello che rimaneva del socialismo di stato. Per diversi anni la corte costituzionale polacca limitò i tentativi di escludere dalle istituzioni statali e dalla società civile chiunque avesse avuto rapporti con i comunisti, un processo noto come “lustrazione”. I giudici costituzionali agirono con l’appoggio delle norme europee, che tutelano la dignità e la privacy delle persone.

Quando arrivò al potere, nel 2005, Diritto e giustizia portò all’estremo questa logica punitiva. Fu presentata una proposta di legge per imporre a 350mila dipendenti pubblici, giornalisti, professori universitari, insegnanti e dirigenti di stato di rendere noto ogni dettaglio, anche il più insignificante, del loro passato politico. Non farlo avrebbe potuto significare il licenziamento. Le forti resistenze dell’élite progressista polacca contro questo tentativo di epurazione portò al cambio di governo del 2007, quando i Kaczyński furono sconfitti alle urne dal partito liberale ed europeista Piattaforma civica, guidato da Donald Tusk.
Qualche anno dopo il fallimento di quel primo tentativo di purificazione della società polacca, Diritto e giustizia ha lanciato nel 2015 una nuova offensiva contro l’indipendenza del potere giudiziario, iniziativa seguita con attenzione anche all’estero. A differenza di quanto sostengono Krastev e Holmes, la politica illiberale dei Kaczyński non era una semplice risposta all’imitazione dell’occidente. I conservatori del Pis hanno attaccato la società civile e hanno riempito i tribunali dei loro fedelissimi per tutt’altro motivo: cancellare radicalmente il passato comunista.
Come in Ungheria, anche in Polonia il fattore che aveva garantito una transizione pacifica – cioè il suo carattere negoziato – ha permesso alla destra nazionalista di denunciare l’esistenza di una sorta di “peccato originale” alla base del cambiamento. Secondo quest’interpretazione, il 1989 non è stato un ordinato cambio di regime, ma un semplice passaggio di consegne tra élite conniventi.

In gioco, quindi, non c’è l’identità occidentale del paese, sulla quale i polacchi non hanno mai avuto dubbi, ma la possibilità di scegliere chi può far parte del nuovo stato nazionale finalmente depurato.
In Polonia e Ungheria l’ostilità alle norme e ai princìpi dell’Unione europea non ha prodotto – com’è invece successo nel Regno Unito della Brexit – un parallelo desiderio di sovranità economica. Per questi paesi i fondi europei sono semplicemente troppo importanti. Orbán ha smantellato le istituzioni liberali in Ungheria, ma ha usato i finanziamenti dell’Unione per arricchire un’oligarchia di imprenditori agricoli fedeli a Fidesz. Anche in Polonia i nazional-conservatori hanno ampiamente beneficiato del sostegno finanziario dell’Unione, continuando però ad attaccare le istituzioni europee.
Se tutto questo può succedere è a causa delle modalità con cui l’Europa assegna i fondi ai paesi membri. Il denaro è versato in grandi tranche e secondo piani d’investimento fissati in anticipo; eventuali contrasti politici tra i governi nazionali e Bruxelles non influiscono sull’erogazione dei sussidi. Tra il 2007 e il 2020 gli stati dell’Europa centrorientale hanno ricevuto 395 miliardi di euro. La metà è andata a Polonia e Ungheria.
L’obiettivo dei fratelli Kaczyński era cancellare il passato comunista
Fermare questa deriva illiberale è diventato molto difficile. Si è visto alla fine del 2020, quando Budapest e Varsavia hanno fatto quasi saltare i negoziati sul bilancio dell’Unione europea e sul pacchetto di aiuti per rilanciare l’economia dopo la pandemia, un impegno da 1.800 miliardi di euro. Contrarie a un meccanismo che avrebbe vincolato i finanziamenti al rispetto dello stato di diritto (il cosiddetto meccanismo di condizionalità), Polonia e Ungheria hanno minacciato di mettere il veto, sostenendo di avere pieno diritto alla loro quota di risorse in quanto stati membri. Quando vogliono, i governi illiberali padroneggiano perfettamente il linguaggio della legge e dei trattati europei. Lo stallo è stato scongiurato all’ultimo momento con un compromesso: i paesi possono fare ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che deve decidere se il meccanismo è in contrasto con i trattati europei.
Per il momento, i finanziamenti continueranno a essere elargiti senza troppi vincoli. E la lotta tra liberali e illiberali continuerà a essere combattuta sul solito terreno: quello delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali. Come hanno dimostrato le proteste delle donne contro il divieto d’interruzione di gravidanza introdotto in Polonia nell’ottobre 2020, è una battaglia molto dura. Quello che non è in discussione è il modello economico della regione. Liberali e illiberali sono d’accordo: l’unico sistema possibile è quello capitalista.
Un modello intoccabile
Se Krastev e Holmes considerano il rifiuto del liberalismo occidentale una reazione di tipo psicologico, lo storico tedesco Philipp Ther suggerisce una spiegazione diversa. A suo modo di vedere, il nuovo nazionalismo ungherese e polacco è soprattutto la reazione di società intere che per decenni sono state esposte agli sbalzi del mercato globale. Nel libro Das andere ende der geschichte (L’altra fine della storia), Ther scrive che la destra sovranista ha “una visione del mondo coerente”, costruita sulle “promesse di protezione e sicurezza”. La rapida transizione dal socialismo al capitalismo, sostiene, ha innescato una tendenza alla ricerca di protezione.
In molti paesi ex comunisti, i primi segnali del disagio popolare si manifestarono nelle elezioni del 1993 e del 1994. Gli elettori polacchi e ungheresi scelsero governi di centrosinistra con diversi esponenti ex comunisti. Ma le tutele sociali rimasero deboli. In Polonia le privatizzazioni rallentarono ma non si fermarono. In Ungheria il nuovo esecutivo introdusse subito severe misure di austerità. Una strada diversa fu imboccata in Cecoslovacchia, dove il primo ministro della repubblica federata slovacca Vladímir Mečiar non si limitò a rompere con il neoliberismo del suo omologo ceco Václav Klaus, ma spaccò in due lo stato unitario. La Slovacchia indipendente di Mečiar degli anni novanta anticipò sotto diversi aspetti le democrazie illiberali di oggi, coniugando populismo, nazionalismo e uno stato sociale molto attento alla protezione dei cittadini con un forte autoritarismo. Fu proprio per questo che nel 1999 la Slovacchia non fu ritenuta pronta a entrare nella Nato. Il paese aderì all’organizzazione nel 2004, cinque anni dopo i suoi vicini centroeuropei.
La transizione dell’Europa dell’est al libero mercato negli anni novanta fu complicata anche dalla debolezza del soggetto sociale che, secondo i liberali, è essenziale per la trasformazione capitalistica: la borghesia. I sociologi Iván Szelényi, Gill Eyal ed Eleanor Townsley hanno parlato di “costruzione del capitalismo senza i capitalisti”. In effetti, nella prima fase della transizione gli aiuti dell’Europa occidentale si concentrarono sull’espansione del mercato più che sulla democratizzazione: dal 1990 al 1996 solo l’1 per cento dei sussidi europei servì a finanziare partiti, mezzi d’informazione indipendenti e organizzazioni civiche. Così, mentre il mercato cresceva, la classe media restava debole. Trent’anni dopo si può dire che le ricchezze del capitalismo sono state distribuite in modo diseguale: il divario di reddito tra città e campagna è più ampio in Europa dell’est che in qualsiasi altra parte del continente. Eppure nella regione l’ideologia del libero mercato regna sovrana. Nel famoso discorso del luglio 2014 in cui sosteneva che l’Ungheria doveva adottare il modello della “democrazia illiberale”, Orbán ha predetto che “le società fondate sui princìpi liberali per l’organizzazione dello stato non riusciranno a restare competitive e probabilmente andranno incontro a una crisi”. Poi ha aggiunto: “Noi stiamo cercando di organizzare una comunità che sia in grado di renderci competitivi nella grande corsa globale”. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che questa conversione al capitalismo globale dei paesi ex comunisti sia stata il frutto esclusivo dell’occidentalizzazione. Nel libro 1989: A global history of Eastern Europe, James Mark, Bogdan Iacob,Tobias Rupprecht e Ljubica Spaskovska dimostrano che l’interesse delle élite dell’Europa orientale per il capitalismo ha preceduto il loro entusiasmo per la democrazia. I burocrati riformisti degli ultimi anni del socialismo guardarono soprattutto a oriente. Negli anni ottanta la Cina di Deng Xiaoping ispirò le riforme economiche del leader sovietico Michail Gorbačëv. E l’apertura al mercato di Polonia e Ungheria fu modellata in parte sulla Corea del Sud, che con il suo capitalismo autoritario aveva un’economia in forte crescita.
◆ Il 2 luglio 2021 sedici partiti di destra ed estrema destra di quindici paesi dell’Unione europea hanno siglato un appello per chiedere una radicale riforma dell’Europa in senso nazionalista e sovranista. Tra i partiti coinvolti ci sono: il francese Rassemblement national di Marine Le Pen; la Lega e Fratelli d’Italia; l’ungherese Fidesz; il polacco Diritto e giustizia; lo spagnolo Vox. Gli altri paesi rappresentati sono Austria, Belgio, Danimarca, Bulgaria, Estonia, Finlandia, Grecia, Paesi Bassi, Lituania e Romania. Secondo il documento, “la cooperazione delle nazioni europee dovrebbe essere basata sulle tradizioni, il rispetto della cultura e della storia degli stati europei, sul rispetto dell’eredità giudaico-cristiana dell’Europa”. L’obiettivo dei partiti firmatari è anche creare un raggruppamento sovranista unitario al parlamento europeo. Al momento quasi tutte le forze politiche che hanno sottoscritto l’appello aderiscono a due gruppi: Identità e democrazia (Id) e Conservatori e riformisti europei (Ecr). Dopo l’uscita dal Partito popolare europeo, Fidesz non è iscritto a nessun gruppo sovranazionale.
◆ Le ripetute violazioni dello stato di diritto da parte di Budapest e i contrasti politici su diversi temi – immigrazione, diritti, libertà di stampa – alimentano da anni tensioni e conflitti tra l’Ungheria e l’Unione europea. La situazione è particolarmente tesa nelle ultime settimane, dopo l’approvazione al parlamento ungherese di una legge che vieta la diffusione tra i minori di materiale che “promuove” l’omosessualità o il cambio di sesso. Diciassette paesi dell’Unione hanno firmato un documento in cui denunciano “la stigmatizzazione delle persone lgbt”. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha risposto affermando che le critiche sono l’espressione di un “approccio colonialista”. Il 5 luglio la portavoce della Commissione ha detto che le istituzioni europee stanno lavorando a una lettera di messa in mora, che aprirebbe una procedura d’infrazione contro l’Ungheria. Intanto, la Commissione sta valutando se bloccare l’approvazione del Recovery plan ungherese, congelando così i 7,2 miliardi di euro destinati a Budapest del piano di aiuti Next generation Eu.
Esportare l’ottantanove
L’Europa dell’est non si limitò a prendere esempio da altri paesi. La transizione degli anni novanta diventò rapidamente “un copione globale” per le nazioni africane, latinoamericane e asiatiche. La democratizzazione e la liberalizzazione economica dell’Europa centrorientale rappresentavano un modello per le classi dirigenti e le opposizioni dei paesi di mezzo mondo, dal Messico al Sudafrica. Nel 2003 l’architetto delle riforme neoliberiste in Polonia, Leszek Balcerowicz, andò a Washington per suggerire agli Stati Uniti di provare a rimettere in sesto l’economia irachena. Durante la primavera araba Lech Wałeśa visitò la Tunisia per spiegare “come abbiamo fatto noi in Polonia”, per usare le parole dell’allora ministro degli esteri polacco Radosław Sikorski. Il quale andò a Benghazi per dare consigli ai libici che avevano rovesciato Gheddafi.
Il fatto che gli europei dell’est agissero come ambasciatori dell’occidente rafforzò la convinzione che il 1989 era stato un ritorno, lungamente atteso, alla collocazione naturale di quella parte d’Europa. La svolta, però, era cominciata molto prima della fine del comunismo. Negli anni settanta e ottanta sia le élite sia i dissidenti cecoslovacchi, polacchi e ungheresi avevano gradualmente abbandonato la solidarietà socialista e anti-imperialista con il terzo mondo per sottolineare la loro “comune appartenenza europea”.

Quest’attenzione alla cultura europea aveva chiare implicazioni antiafricane e anti-islamiche. Nel 1985 il ministro della cultura ungherese dichiarò che “l’Europa possiede un suo patrimonio culturale, una specifica qualità intellettuale: il carattere europeo”. Durante una visita a Budapest, due anni dopo, il re spagnolo Juan Carlos fu accompagnato a vedere i bastioni che le truppe asburgiche avevano strappato agli ottomani durante l’assedio di Buda nel 1686: una celebrazione comunista della lotta dell’Europa cristiana contro l’islam. Osservando la ferocia dei mujaheddin afgani, il dittatore romeno Nicolae Ceaușescu ammonì che il mondo islamico aveva a disposizione “un miliardo di persone, tutti fanatici” e che prima o poi ci sarebbe stato “un lungo conflitto”. Nel frattempo gli esuli romeni accusavano Ceaușescu di aver imposto al paese un “dispotismo tropicale”. Nel 1987 il dissidente Ion Vianu scriveva: “Oggi la Romania somiglia più a un paese africano che europeo”. Vianu si scagliava contro “la disorganizzazione della vita pubblica, l’incapacità dell’amministrazione di mantenere un livello degno del vecchio continente, la diffusione delle mazzette, l’arbitrio della polizia”. Tutto questo gli ricordava Haiti.
Già prima del crollo dei regimi comunisti, in molti europei dell’est si era radicato un nuovo senso di appartenenza culturale. Questa crescente identificazione dei propri paesi come europei e cristiani spiega perché nell’ultimo decennio la retorica contro l’immigrazione abbia trovato terreno fertile nella regione.
Globalisti a metà
A conti fatti, nel 1989 l’Europa dell’est chiuse la porta alle vecchie influenze per aprirsi a nuove idee. La pianificazione socialista e la solidarietà internazionale con gli stati in via di sviluppo furono sostituite da una netta identificazione con la civiltà europea, intesa in senso molto ristretto, e dall’integrazione nel capitalismo globale. Ancora oggi i paesi dell’Europa centrorientale mostrano la stessa combinazione di apertura e chiusura. L’Ungheria è l’esempio migliore di questo approccio ibrido: con Orbán ha ripudiato l’idea di una società aperta, ma è rimasta strettamente legata all’industria automobilistica transnazionale europea e alle reti dell’atlantismo, attraverso la partecipazione all’Unione europea e alla Nato. Orbán ha ulteriormente complicato il posizionamento internazionale del suo paese mantenendo stretti legami con Mosca e Pechino. La Russia fornisce energia all’Ungheria, mentre i capitalisti di stato cinesi hanno fatto del paese il fulcro delle attività della Huawei per l’espansione della tecnologia 5G in tutta Europa. Budapest è anche la stazione di arrivo della nuova ferrovia dei Balcani, che fa parte della cosiddetta nuova via della seta, il colossale piano d’infrastrutture voluto dalla Cina per espandere le sue rotte commerciali.
A metà marzo del 2020, mentre il covid-19 si diffondeva in tutta Europa, l’Ungheria ha chiuso le frontiere. Gli unici stranieri autorizzati a entrare nel paese sono stati trecento tecnici sudcoreani incaricati di completare l’apertura del secondo impianto del paese per la produzione di batterie destinate alle auto elettriche. Negli ultimi mesi, poi, diverse grandi aziende sudcoreane si sono stabilite in Ungheria e Polonia, che sono così diventate le principali produttrici di batterie per l’industria automobilistica europea. Durante la pandemia, anche il governo polacco ha introdotto una deroga alle norme del lockdown per consentire agli specialisti dell’industria chimica coreana Lg Chem di continuare a lavorare alla costruzione di un grande impianto nei pressi di Wrocław, un progetto da 2,8 miliardi di euro. Trentacinque anni fa gli economisti dell’Europa orientale socialista consideravano Seoul un modello di capitalismo autoritario. Oggi i giganti industriali della coreani penetrano in forze nella regione.
Dall’inizio della pandemia i commentatori liberali denunciano spesso il rischio che il nazionalismo e i conflitti tra grandi potenze provochino un crollo dell’ordine politico ed economico internazionale. Ma difficilmente assisteremo a una radicale “deglobalizzazione”. È più probabile, invece, che i leader nazionalisti di tutto il mondo costruiscano società politicamente chiuse sostenute da economie aperte: una globalizzazione senza globalisti. ◆ gc
Nicholas Mulder _ è uno storico olandese, specialista in storia dell’Europa moderna. Insegna alla Cornell university, negli Stati Uniti. _
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Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati