Tensioni e ostruzionismo, poi concessioni e passi avanti. E all’improvviso, dopo due giorni di negoziati frenetici, tra il 30 giugno e il 1 luglio 130 paesi hanno raggiunto un accordo globale su una riforma del fisco che ha l’obiettivo di tassare di più e meglio le cento multinazionali più grandi e redditizie, tra cui i colossi tecnologici statunitensi raggruppati nel famigerato acronimo Gafa: Google, Apple, Facebook e Amazon.

I rappresentanti di 139 stati erano riuniti a Parigi per preparare la versione finale di un progetto di riforma fiscale che sarà sottoposto ai ministri delle finanze del G20 (i 19 paesi più ricchi del mondo più l’Unione europea) il 9 e 10 luglio a Venezia. La riunione faceva parte del Quadro inclusivo sull’erosione della base imponibile e sul trasferimento degli utili (Beps), collegato all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), che comprende paesi ricchi ed emergenti. L’obiettivo è stato raggiunto: trovare un compromesso sui dettagli della riforma.

La concorrenza fiscale si sposterà dall’aliquota alle esenzioni

“Le multinazionali non potranno più mettere i paesi gli uni contro gli altri per farsi abbassare le tasse e proteggere i loro utili penalizzando le entrate dei governi”, ha commentato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in un comunicato. Le aliquote medie globali delle imposte sugli utili societari sono passate dal 40 per cento del 1980 al 25 per cento di oggi. Il ministro delle finanze tedesco Olaf Scholz ha parlato di un “colossale passo in avanti in direzione di una maggiore giustizia sociale”. Il suo collega francese Bruno Le Maire l’ha definito “l’accordo fiscale internazionale più importante dell’ultimo secolo”. Il Regno Unito, dal canto suo, ha festeggiato il superamento di una “nuova tappa” in direzione di una riforma della fiscalità mondiale.

Il testo su cui si baserà questa riforma storica si regge sue due pilastri. Uno è l’aliquota minima mondiale del 15 per cento, che neutralizzerà di fatto i paradisi fiscali a tasso zero (come le Isole Cayman, le Isole Vergini Britanniche o Jersey). L’altro è che una parte dei profitti in eccedenza delle multinazionali (cioè quelli che superano un margine di profitto ritenuto ragionevole, fissato al 10 per cento del fatturato) sarà ridistribuita agli stati in cui quelle aziende operano senza avere una sede. Tra questi ci sono molti paesi in via di sviluppo.

È davvero un accordo mondiale, dal momento che coinvolge 130 stati sui 139 del Quadro inclusivo. I pesi massimi del G20 hanno firmato tutti, compresi India e Cina, e gran parte dei paesi in via di sviluppo. L’Argentina ha cercato in un primo momento di tirarsi fuori, sollecitata dalle argomentazioni della Commissione indipendente per la riforma della tassazione delle multinazionali (Icrict), che è a favore di un accordo ancora più radicale basato su un’aliquota minima del 21 per cento – quella proposta inizialmente da Biden quando ha lanciato il dibattito – e su una ripartizione ancora più consistente delle imposte a favore delle economie più povere. Alla fine, però, hanno prevalso il pragmatismo e la necessità di trovare un compromesso per modificare una situazione che fa il gioco dei paradisi fiscali e delle grandi multinazionali a svantaggio delle finanze pubbliche mondiali. L’Ocse, quindi, può vantarsi di essere riuscita a coinvolgere nell’accordo del 1 luglio il nord e il sud del mondo.

Nove paesi hanno rifiutato l’accordo. Tra questi spicca il nome dell’Irlanda, che non ha intenzione di perdere il suo status di paradiso fiscale garantito dall’aliquota del 12,5 per cento dell’imposta sugli utili societari. Dublino, tuttavia, ha fatto sapere che continuerà a partecipare ai negoziati internazionali, di certo in attesa di capire se l’impegno degli Stati Uniti per un’aliquota almeno del 15 per cento sarà premiato dal congresso di Washington. Gli altri otto paesi che hanno detto no sono: le Barbados e Saint Vincent e Granadine, gli ultimi due paradisi fiscali dei Caraibi; l’Ungheria e l’Estonia, desiderose di conservare i loro regimi di esenzione fiscale per attirare capitali stranieri; Kenya, Nigeria, Perù e Sri Lanka, che continuano a essere insoddisfatti.

Per portare a casa l’accordo, i paesi ricchi hanno fatto concessioni a quelli in via di sviluppo, che in alcuni casi non volevano cedere alla speranza di ottenere di più. L’accordo del Quadro inclusivo è in effetti un po’ più vantaggioso per loro e prevede in particolare un migliore sistema di ripartizione dei profitti “in eccedenza”: la ripartizione avverrà su un surplus di utili compreso tra il 20 e il 30 per cento e non più su un minimo del 20 per cento, come proposto in precedenza. La Svizzera, tuttavia, ha accettato di firmare solo a determinate condizioni. Come ha spiegato il suo dipartimento federale delle finanze, il governo elvetico ha chiesto “che nella formulazione finale delle regole siano tenuti nella dovuta considerazione gli interessi dei piccoli paesi innovatori e che quando la riforma sarà attuata siano rispettate le procedure legislative dei paesi interessati”.

Attenti all’imponibile

A livello globale, il quadro è destinato ad ampliarsi: la riforma fiscale sarà applicata prima alle cento multinazionali il cui volume d’affari annuale supera i venti miliardi di euro. Tra sette anni però la soglia si abbasserà a dieci miliardi. Per tutto il resto, il Quadro inclusivo sull’erosione della base imponibile e sul trasferimento degli utili ha confermato le esenzioni discusse all’inizio di giugno tra i paesi del G7 (Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Germania, Francia, Italia e Giappone): l’accordo non coinvolgerà i settori estrattivi e minerari, perché generano una rendita per i paesi in via di sviluppo, e i servizi finanziari, come chiesto dai paesi anglosassoni. Anche se è rilevante sul piano simbolico, secondo le previsioni dell’Ocse l’effetto di queste esenzioni sarà tuttavia limitato. La riforma è stata costruita per includere tutti i pesi massimi dell’economia e in particolare quelle multinazionali molto abili nello sfruttare i vantaggi dei vari sistemi fiscali nazionali per ridurre al minimo le tasse da pagare.

Se la riforma sarà approvata dai ministri delle finanze del G20, potrà far rientrare decine di miliardi di dollari di nuove tasse nelle casse degli stati. Soldi finora evaporati nei paradisi fiscali e la cui mancanza si avverte in modo ancora più evidente con la crisi economica mondiale provocata dalla pandemia. Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), nel 2020 i paesi ricchi hanno speso il 6 per cento del loro pil per aiutare l’economia. Un’aliquota minima mondiale, sia pure fissata al 15 per cento (invece del 21 per cento chiesto da molte ong che lottano contro l’evasione fiscale), potrebbe far rientrare fino a 150 miliardi di dollari (126 miliardi di euro) nelle casse degli stati. Spetterà ai paesi interessati recuperare la differenza tra questo 15 per cento (almeno) e l’aliquota fiscale realmente pagata all’estero dalle loro aziende nazionali. Secondo un rapporto del Conseil d’analyse économique (Cae, un organo di consulenza legato al governo francese) pubblicato il 29 giugno, un’aliquota minima mondiale del 15 per cento frutterebbe alla Francia 5,9 miliardi di euro nel breve periodo e 1,9 miliardi di euro nel lungo periodo. Questa differenza si spiega con il progressivo adattamento dei paradisi fiscali alla nuova aliquota minima mondiale.

Certo, in futuro le multinazionali eluderanno meno le tasse, ma se nel loro paese d’origine le imposte sui redditi societari resteranno alte, continueranno a trasferire i profitti all’estero, dove saranno tassati comunque di meno. “L’aliquota attira molta attenzione nel momento in cui una parte rilevante delle entrate fiscali proviene anche dall’imponibile su cui è calcolata”, ricorda Farid Toubal, professore di economia all’università Paris-Dauphine. Assicurando delle esenzioni al pagamento dell’imposta sui redditi societari, alcuni paesi potrebbero ridurre l’imponibile su cui viene calcolata. È il caso delle zone economiche speciali in Cina o del credito d’imposta per la ricerca e lo sviluppo in Francia. La concorrenza fiscale tra paesi si sposterà così dall’aliquota delle imposte alle esenzioni. Secondo l’Ocse, tuttavia, l’altro pilastro della riforma, cioè la suddivisione dei profitti “in eccedenza” delle cento maggiori multinazionali, rappresenterebbe una base imponibile annuale supplementare di 100 miliardi di dollari ripartiti in modo più equo.

Manca ormai solo un’approvazione politica, che dovrebbe arrivare senza grandi sorprese da Venezia dopo la forte spinta assicurata all’inizio di giugno dai paesi del G7, trascinati dall’amministrazione Biden. Se tutto va bene, la riforma sarà completata entro il 2022, mentre l’anno successivo questo big bang fiscale sarà attuato. Per la prima volta si adotterebbero così regole fiscali adeguate alla globalizzazione dell’economia e all’espansione delle tecnologie digitali. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati