Lo scopo è riuscire a dire “no” senza darne l’impressione. In questo gioco dalle implicazioni esistenziali, dove le regole sono fissate da Donald Trump, Volodymyr Zelenskyj è partito male, ma ora ha in mano qualcosa in più di Vladimir Putin.

Il 12 marzo il presidente ucraino ha risposto “sì”, senza condizioni, alla proposta statunitense per un cessate il fuoco di trenta giorni. La palla, a quel punto, è passata a Mosca. Il 13 marzo Putin ha reagito presentando condizioni talmente estreme che la sua risposta, per il momento, equivale a un rifiuto educato.

Senza dubbio, il presidente russo ha la percezione di essere in posizione di forza sul piano militare. Forte del sostegno dei suoi amici cinesi, nordcoreani e iraniani, il capo del Cremlino è convinto di potersi assumere il rischio di questo “no”. Zelenskyj, dal canto suo, aveva addosso la pressione della sospensione degli aiuti militari statunitensi e della condivisione delle informazioni d’intelligence con Washington, in un momento in cui l’esercito di Mosca continua ad avanzare: in sostanza, non aveva scelta.

Ora spetta a Trump trarre le dovute conclusioni. Il presidente statunitense è del tutto imprevedibile. Se decidesse di mettere in pratica le sue minacce passate, potrebbe incrementare la pressione su chi è contrario al suo piano imperiale, ovvero la Russia. È altrettanto possibile, però, che il temperamento e il suo entourage filoputiniano lo spingano a tentare di piegare l’Ucraina. Per il momento Trump si è accontentato di definire “promettente”, ma “incompleta”, la risposta del leader russo. Un po’ poco.

Il principale punto critico riguarda l’esercito ucraino. Il 13 marzo Putin ha escluso la possibilità di accettare che durante il cessate il fuoco l’esercito di Kiev possa ricevere materiale militare e reclutare nuovi soldati.

Si tratta di un elemento non negoziabile per l’Ucraina: per esperienza, infatti, Kiev sa che la Russia non ha mai rispettato il cessate il fuoco concordato in passato, nell’ambito degli accordi di Minsk, e che è quindi necessario essere pronti a ogni evenienza. Su questo punto il paese ha il sostegno degli europei, convinti che la solidità dell’esercito ucraino sia la prima garanzia di sicurezza.

Putin, intanto, non ha rinunciato alle sue richieste radicali sul riconoscimento da parte di Kiev della perdita dei territori annessi dalla Russia e sull’impegno a non entrare nella Nato. Anche in questo caso si tratta di una prospettiva inammissibile per l’Ucraina, nonostante per il momento non si parli di un ingresso del paese nell’alleanza atlantica (al contrario di quello nell’Unione europea).

E ora? Le trattative tra Russia e Stati Uniti proseguiranno, come dimostrato dalla presenza dell’inviato di Washington Steve Witkoff a Mosca, e forse coinvolgeranno direttamente Trump e Putin.

È qui che la situazione rischia di degenerare. Trump vede svanire una vittoria diplomatica che considerava facile – aveva promesso di risolvere il conflitto in 24 ore – e potrebbe essere tentato di fare troppe concessioni a Putin pur di salvare la faccia, a scapito dell’Ucraina.

Zelenskyj ha ripreso in mano la situazione e ha incassato l’appoggio del Regno Unito e della Francia dopo l’umiliazione subita alla Casa Bianca. Sul campo, però, sta perdendo le ultime posizioni occupate da mesi nella regione russa di Kursk, e vive sotto la minaccia costante di essere abbandonato da Washington.

Quella in corso è una strana guerra, in cui uno dei parametri sfugge a tutti i protagonisti: l’umore mutevole di un presidente statunitense che subordina ogni cosa ai suoi interessi personali.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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