◆ C’è un bel libro di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon (1983), dove a un certo punto il narratore dice: “… l’opinione più alta dello scrivere ce l’ha quasi sempre chi ha deciso di non farlo”. Il libro è una sorta di indagine intorno alle ragioni per cui un intellettuale di grande sensibilità letteraria, Bobi Bazlen, aveva finito per non pubblicare niente. E il punto d’approdo, forse, è proprio in quella battuta: per decidersi a scrivere e a pubblicare, bisogna in linea di massima esigere di meno dalla scrittura letteraria; cosa naturalmente dolorosa, forse inconcepibile, per chi, come Bazlen, al culto della letteratura era stato educato, aveva ricevuto una formazione alta, era studioso di testi letterari complessi, sapeva individuare il meglio del talento altrui e castigare il suo se non volava altissimo. Nel libro di Del Giudice – centrato sul dilemma: scrivere o no – il modello Bazlen di fatto è già tramontato, è il residuo di un’élite culturale franata insieme alle pratiche ascetiche del suo sacerdozio. Il desiderio di scrivere è al contrario dilagato al seguito dell’istruzione di massa e diventerà negli anni sempre più robusto, investirà tutti i ceti e tutte le professioni. La frase di Del Giudice oggi, forse, potremmo riscriverla così: per fare letteratura bisogna avere “quasi sempre” o un’altissima opinione di sé o una bassissima opinione della letteratura. O entrambe le cose.
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Questo articolo è uscito sul numero 1419 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati