Il prologo di Tempo di ritorno lascia intendere una capacità narrativa che tiene insieme la letteratura working class e la climate fiction. Poi in realtà la narrazione di questo esordio cambia, si svela nei suoi intenti e prende più le sembianze di un memoir, ma mantiene vivo il suo taglio originale: l’idea d’indagare l’inizio della crisi climatica attraverso la storia della propria famiglia, un antropocene familiare. Quella scrittura delle prime pagine torna nel ricordare il passato, avviluppa chi legge, non più spettatore di una scenografia, ma complice di un collasso. Questo esordio è una storia in cui la memoria della fabbrica di Bagnoli, ’o cantiere, s’intreccia con la storia dei combustibili fossili: il nonno Ferdinando, manovratore dell’Italsider morto prima di arrivare alla pensione; il padre Luigi, cresciuto nuotando all’ombra di quelle stesse gru, poi diventato camionista che macina chilometri e gasolio; la terza generazione, che dentro questa storia vuole almeno provare a riconoscersi, guardando al presente da Dubai e al futuro prossimo dalle isole Marshall. Cotugno, giornalista che scrive di ambiente e clima, ci racconta attraverso i ricordi di suo padre la nostra storia: di noi che, pur aggrappati agli scogli come ostriche, siamo finiti per essere divorati dal pesce vorace. Ci dice che la crisi climatica e il capitalismo sono cominciati, a Napoli come ovunque, così, con innocenza.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati