Rapine, inseguimenti, scontri tra gang e forze dell’ordine, la città di Los Santos è senza dubbio un luogo perfetto per dei documentaristi coraggiosi in cerca d’immagini forti. Il problema è che Los Santos esiste solo nel videogioco Grand theft auto V, e che i britannici Pinny Grylls e Sam Crane sono lì solo per filmare un lavoro teatrale. Il risultato di tutto ciò è il documentario Grand theft Hamlet, che si può vedere su Mubi.
La storia comincia nel 2021. Con i capelli blu elettrico, l’avatar di Crane va in giro in questa città ispirata a Los Angeles. L’attore, di cui vediamo il volto solo nei titoli di coda, è disoccupato: nel Regno Unito i teatri sono chiusi per il lockdown. Così si mette in testa di esercitare la sua professione all’interno del gioco della Rockstar Games e organizzare una messa in scena dell’Amleto di Shakespeare.
“In quel momento stavamo scoprendo il potenziale dei videogiochi online per possibili performance artistiche. Ci siamo subito detti: ‘Sarebbe bellissimo riuscire a farci anche un documentario’”, spiega Grylls, la regista, moglie di Crane. Così, accompagnando il marito nel gioco, ha registrato dal computer la maggior pare delle immagini del film.
Grand theft Hamlet è fedele allo spirito goliardico di Gta V. In questo contesto Sam Crane cerca di organizzare il suo spettacolo in un universo governato dalla violenza. I lunghi monologhi di Shakespeare sono interrotti regolarmente da colpi di fucile o da esplosioni. Morti violente di attori, inseguimenti o interventi della polizia si ripetono di frequente nel corso di provini e prove. Queste scene assurde mettono in evidenza il caos e l’intensità della vita online di Gta: “In quanto registi, ci sembrava importante mostrare questo mondo. Qui la gente fa amicizia, si diverte e fa cose incredibili. Volevamo raccontare queste storie prendendole sul serio”, ricorda l’autrice.
I paesaggi di Los Santos
Nel film ci sono anche alcune sequenze meditative. Grylls coglie le luci, i paesaggi e le abitudini degli abitanti di Los Santos, ma anche l’angoscia del marito che, non potendo tornare sul palcoscenico, si lancia a capofitto in un progetto che lo porterà a trascurare la famiglia.
Quattro anni dopo il loro film ha vinto numerosi premi importanti e ha fatto molto parlare di sé ai vari festival. Grand theft Hamlet è diventato una delle vetrine più note di un nuovo formato: il documentario in immersione in un videogioco, insieme a Hardly working di Total Refusal (nel 2022 in Red dead redemption 2), a Bac à sable di Charlotte Cherici e Lucas Azémar (nel 2023 in Gta V) e a Knit’s island. L’île sans fin di Ekiem Barbier, Guilhem Causse e Quentin L’Helgouac’h (nel 2024 in DayZ).

Anche se l’uso dei motori dei videogiochi per realizzare dei film – una tecnica chiamata machinima – risale agli anni duemila, fino a poco tempo fa era limitato principalmente alla videoarte o a opere di fiction. “I film composti a partire da immagini prese su uno schermo del computer sono di moda, ma i documentari nei videogiochi propongono qualcosa di diverso: mirano ad andare verso le persone attraverso il gioco”, sintetizza il regista e artista plastico Alain Della Negra.
Della Negra e Kaori Kinoshita sono tra i pionieri in questo settore; insieme hanno firmato Neighborhood (2007) e The Cat, the Reverend and the Slave (2009), rispettivamente realizzati attraverso The Sims e Second life, in cui dei giocatori raccontano la loro vita digitale.
Un altro precursore è l’artista e regista Chris Marker. Nel 2009 in Ouvroir, the movie (2009) filmava gli spostamenti del suo avatar felino all’interno della sua mostra allestita in Second life.
Bac à sable invece illustra la vita reale dietro i molteplici strati di finzione di un server di Gta in cui si svolgono dei giochi di ruolo (una pratica online vicina al teatro d’improvvisazione, chiamata Gta Rp, cioè role play). “C’è qualcosa di appassionante nelle persone che ‘recitano’ in questa replica di Los Angeles, che a sua volta nella realtà è una terra di cinema. Così sul nostro server sono dei francesi a interpretare gli americani parlando in francese”, spiega Charlotte Cherici.
Il trio di registi di Knit’s island si è diviso i compiti come in un documentario tradizionale: un intervistatore, un operatore e un tecnico. “Abbiamo teletrasportato una troupe nel videogioco DayZ”, dice Guilhem Causse. Questi appassionati di videogiochi passati per l’accademia delle belle arti hanno addirittura fatto indossare ai loro avatar dei giubbotti antiproiettile con la scritta “Press”, come se si trovassero in una zona di guerra. Il loro lungometraggio, uscito nei cinema nel 2024, è stato l’occasione per incontrare delle strane comunità con una prospettiva quasi antropologica: cannibali dal grilletto facile, un reverendo di una religione inventata o una coppia di intellettuali nottambuli.
Dietro le quinte
Nel film le dinamiche dello spietato gioco di sopravvivenza dei cechi della Bohemia Interactive sono ignorate. In DayZ bisogna alimentarsi e curarsi di continuo con una sola vita a disposizione. E dietro le quinte i documentaristi hanno dovuto tenere conto di numerosi vincoli. “Per non interrompere le interviste capitava di dover eliminare degli zombie”, racconta Guilhem Causse. “O uccidere una mucca a colpi di ascia per recuperare un po’ di carne e sfamare tutta la troupe”.
Altro rompicapo inevitabile nelle produzioni di questo genere di documentari è quello della proprietà intellettuale. Quando sono state adattate in un film le immagini del gioco appartengono ancora al suo editore? La questione è delicata. Le produzioni che fanno a meno del consenso dei creatori di un gioco rischiano di dover affrontare delle cause legali e così si limitano spesso a formati brevi o a una diffusione limitata. Questo timore è alimentato dallo squilibrato rapporto di forza economico tra il fragile settore del documentario e l’industria dei videogiochi.
Così per poter sfruttare commercialmente i loro documentari, i produttori di Grand theft Hamlet e di Knit’s island hanno dovuto ottenere l’autorizzazione degli editori dei giochi. Un accordo però che non garantisce il successo del progetto, ricorda Sam Crane: “Volevamo che la Rockstar Games fosse abbastanza presto al corrente di Grand theft Hamlet, ma non volevamo che ne fosse direttamente coinvolta. Volevamo mantenere la nostra indipendenza”.
Un punto di vista condiviso dagli autori di Knit’s Island, che hanno addirittura scelto di mettere in scena anche i bug di DayZ. Tuttavia la Bohemia Interactive non l’ha presa male e anzi gli ha dato il via libera per realizzare una serie di documentari per Arte che riguarderanno un altro gioco, ArmA III. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 81. Compra questo numero | Abbonati