Quando esce per andare a lavorare, Fatima si ferma ad abbracciare con lo sguardo l’intero golfo di Marsiglia. Abita in un quartiere popolare sulle colline a nord della città, da cui scende a piedi per andare a parc Kalliste. Lunghe file di edifici di cemento, allineati e belli ma rovinati dal tempo. I palazzi formano una sorta di muraglia intorno alla città. Nel cuore del quartiere, nascosta da pini centenari, c’è una casa elegante, villa Valcorme, un palazzetto dell’ottocento abbandonato da decenni.

Per anni Fatima ha lavorato al servizio di Protezione materna e infantile (Pmi) di parc Kalliste: faceva la mediatrice sanitaria e aiutava le madri a orientarsi. Aveva un ufficio nella struttura, accanto alla villa abbandonata. Un pomeriggio di dicembre alcuni giovani medici e infermieri sono andati a trovarla. Quel giorno il cielo era coperto e, per avere un po’ di luce, sono andati a parlare del loro progetto al primo piano. Volevano costruire un centro medico insieme agli abitanti, una struttura che prendesse in considerazione anche le loro condizioni di vita e di lavoro e tutto quello che favorisce le malattie, senza focalizzarsi solo sui sintomi. Fatima trovava il progetto molto bello, ma non ci credeva fino in fondo: “Mi sembrava impossibile che dei giovani medici volessero trasferirsi in un quartiere così difficile. Avevamo visto tanta gente arrivare e poi andarsene”.

Quando si sono alzati, dopo aver parlato per due ore, un’infermiera, Carole, ha visto la villa abbandonata dalla finestra. “E quella cos’è? Staremmo benissimo lì”. Fatima ha sorriso e ha detto che era impossibile: la villa era abbandonata da anni e gli abitanti ne avevano paura, si mormorava che fosse abitata da djinn, i folletti maligni citati nel Corano. “Ma abbiamo il diritto di sognare”, le hanno risposto. Qualche anno dopo ci si sono trasferiti e l’hanno chiamata Château en santé, castello in salute, che ricorda per assonanza château enchanté, castello incantato.

All’interno ci sono infissi eleganti, alte finestre, maioliche antiche; sui muri gli affreschi di un pittore venuto dall’Italia; all’ingresso una scala in legno massiccio. Valcorme era un’elegante residenza di villeggiatura. Nell’ottocento alcune grandi famiglie di commercianti e di armatori si costruirono le case di vacanza su queste colline, oggi costellate di imponenti palazzi popolari.

Fatima dice che la cura comincia dal modo in cui si ricevono i pazienti, che essere mediatrice sanitaria “significa dare fiducia, trasmettere alle persone i codici del Castello, e ai medici i codici del quartiere”. Fatima è calma, tranquillizza le persone agitate e le fa sedere in giardino o nella sala d’attesa, dove ci sono giochi e si può bere una tazza di caffè o di tè.

Una sala dello Château en santé, Marsiglia, giugno 2021 -
Una sala dello Château en santé, Marsiglia, giugno 2021

Parc Kalliste (che molti pronunciano Kallisté) è uno dei quartieri più poveri di Francia. Due famiglie su tre vivono al di sotto della soglia di povertà – alcune molto al di sotto – in appartamenti che non valgono ormai granché. Con il tempo i palazzi si sono rovinati, il quartiere si è impoverito. Impossibile rivendere, se non per poche decina di migliaia di euro a speculatori senza scrupoli che poi affitteranno a caro prezzo a famiglie che non possono andare altrove. Molte vengono dall’arcipelago delle Comore, come la famiglia di Fatima. “C’è disagio, miseria, disoccupazione. Giovani abbandonati a se stessi e allo spaccio”, sospira. Per Fatima una giornata al Castello equivale “a tre giorni di lavoro in un posto normale”. Per lungo tempo ha temuto che i giovani medici venuti dal centro della città non riuscissero a sopportare il lavoro.

Nella sala d’attesa Abdel, un omone grande e grosso, deve far visitare il figlio, che ha mal di gola. Ci indica la porta attraverso la quale il dottor Thomas Levaillant è appena scomparso: “Con quei capelli lunghi non somiglia per niente a un medico, ma non si faccia ingannare dalle apparenze, è molto bravo. Sono venuto un giorno perché avevo dei dolori insopportabili all’orecchio. Nessuno capiva cosa avessi, né il mio medico di famiglia né l’ospedale. Lui invece mi ha ascoltato, mi ha fatto delle domande e alla fine mi ha detto: ‘Penso che si tratti di un herpes, ma controlliamo insieme’”. All’epoca tutti lavoravano ancora in jeans e maglietta, ma con il covid i camici sono diventati obbligatori. Il Castello vuole demedicalizzare le cure, per fare in modo che i pazienti si sentano meno in soggezione. Abdel, in effetti, aveva un herpes. E così quello che non aveva fatto il suo medico di base l’ha fatto il Castello: qui non si parla di singoli dottori, ma del “Castello”. Le cartelle cliniche e il segreto professionale sono condivisi tra tutti i medici.

Sette anni di lotte

Cresciuto nei dintorni di Parigi, Thomas ha studiato medicina, come suo padre, che fa il radiologo. Voleva fare il dottore, ma in un struttura non verticale, senza infantilizzare i pazienti. Oggi li riceve in uno studio con un caminetto in marmo e alle pareti affreschi di alti trampolieri sulle rive di uno stagno. Un uomo sportivo si siede di fronte a lui. Aymane porta una tuta nera con lo stemma del Paris Saint-Germain, la squadra più odiata a Marsiglia. “È raro vedere nel quartiere qualcuno con la tuta del Psg”, osserva il medico. “La mia tuta è nera come il mio stato d’animo”, risponde il paziente senza sorridere. Thomas si raddrizza, si appoggia alla sedia e incrocia le braccia. Spesso negli studi medici il corpo dei dottori, il loro atteggiamento, il modo in cui si voltano verso il computer quando un paziente confida un problema che esula dai sintomi del malessere, hanno l’effetto di spingere le persone a non dilungarsi troppo sull’argomento. Al contrario nel Castello il tempo sembra spesso dilatato.

“Cos’è che non va?”. L’uomo in tuta fa un grande respiro. “Mi sento stanco, non ho più energia, non ho più voglia di fare nulla”. Aymane è educatore in un centro di accoglienza da un anno, ed è già il più anziano tra i dipendenti. Il lavoro è difficile. “Mi piace quello che faccio”, dice. “Mi piace lavorare in questo settore, ma non ce la faccio più”.

I palazzi di parc Kalliste, Marsiglia, giugno 2021 -
I palazzi di parc Kalliste, Marsiglia, giugno 2021

Thomas rispetta i suoi silenzi, poi riprende: “Le capita di sentirsi triste?”. “Sempre. Penso alla morte, ai miei cari che potrei perdere”.

Aymane racconta l’assassinio di un cugino in un regolamento di conti nel quartiere. Ha partecipato alla composizione religiosa della salma. “Non avrei mai creduto che un kalashnikov potesse fare tanti danni”. Parla con voce monocorde, come se elencasse dei problemi banali.

“Quelle che mi racconta non sono cose da poco…”.

“È la vita. Qui non sono l’unico ad aver vissuto situazioni del genere”.

All’interno dello Château en santé, giugno 2021 -
All’interno dello Château en santé, giugno 2021

“Le capita di piangere?”.

“Ne avrei voglia, ma non ci riesco. Non è una questione di virilità, ma è come se non avessi più lacrime”.

Aymane non ha pulsioni suicide, ma piuttosto una “voglia di vendetta” che non riesce a soddisfare. “Una parte di me vuole che sia fatta giustizia, ma so che non sarà possibile. I giudici hanno bisogno di prove, sono come la polizia, fanno quello che possono, ma non hanno i mezzi e non possono fare nulla per noi”. Il medico gli dà due settimane di riposo: “Vorrei rivederla quando si sarà riposato. Ci sono cose più profonde sulle quali forse si dovrà lavorare, decideremo insieme”.

Lo Château en santé, giugno 2021 -
Lo Château en santé, giugno 2021

Thomas si è avvicinato al Castello nella primavera del 2017; oltre a medicina studiava antropologia, voleva osservare come un’équipe multidisciplinare riesce a risolvere problemi che sono al tempo stesso medici e sociali, a valutare l’influenza degli elementi sociali sulla salute. Dopo sette anni di lotte, il Castello stava per aprire.

L’idea del progetto è nata nel 2011, quando Ségolène e Irène erano ancora all’università. Ségolène ha deciso di studiare medicina una sera che sua madre era tornata triste da una visita dal dottore. L’altra figlia, la più piccola, aveva problemi mentali. Il medico le aveva detto che era inutile stimolare troppo la bambina. All’università Ségolène è diventata amica di Irène, nata in una famiglia “indignata dalle disuguaglianze in materia di salute”. Le due studenti non volevano praticare “una medicina che s’interessa alla malattia ma mai a quello che porta le persone ad ammalarsi”. Più tardi si è unita al gruppo anche Carole, e poi Christophe, un infermiere che aveva già sperimentato un approccio alla cura “comunitario”.

In Francia questa parola è guardata con sospetto, ma rappresenta una delle chiavi di volta dell’attività del Castello. “Significa che alla cura partecipano anche le persone che sono curate. Anche loro hanno diritto a esprimersi, sono i diretti interessati”. Per fare pratica, Irène ha fatto uno stage alla Case de santé di Tolosa. Da quel modello è arrivata l’ispirazione per le prime attività del progetto.

All’inizio le istituzioni non li hanno presi sul serio. Questo gruppo di utopisti piaceva all’amministrazione e ai rappresentati locali, da troppo tempo chiusi nei loro rigidi schemi. Le idee ai margini fanno sognare, e al tempo stesso sottolineano i limiti dell’establishment. A sbloccare la situazione, però, è stato un fatto di cronaca: nei quartieri più trascurati è spesso la violenza a dettare l’azione politica. Nel 2013, dopo l’ennesimo regolamento di conti, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault è andato a Marsiglia. Su sua richiesta, il prefetto ha cercato dei progetti innovativi da finanziare. Quello del centro sanitario era già pronto, ben strutturato e di grande portata simbolica. Era il progetto perfetto. Così, quando lo stato ha fornito i primi fondi, le amministrazioni locali non si sono tirate indietro e il comune ha comprato villa Valcorme, finanziando i lavori di ristrutturazione. Il Castello ha aperto nel gennaio 2018 e le donne dei quartieri vicini sono venute a cucinare per l’inaugurazione. “Può sembrare una cosa banale”, osservava all’epoca Jérôme, incaricato di gestire i fondi e i rapporti con la pubblica amministrazione. “Ma prepararci da mangiare è stato il loro modo di darci il benvenuto. Fatima ha fatto un lavoro straordinario per disinnescare con grande diplomazia tutte le potenziali rivalità interne”.

Apo, mediatore culturale e traduttore, giugno 2021   -
Apo, mediatore culturale e traduttore, giugno 2021

L’agenzia sanitaria regionale li ha sostenuti, ma temeva che il basso livello degli stipendi dei medici (duemila euro netti, per limitare le disuguaglianze all’interno del gruppo) avrebbe ostacolato l’assunzione del personale. Non aveva capito il loro modo di lavorare, che è orizzontale, non prevede capi e punta a far sentire tutti coinvolti nel progetto. “Allora, come vanno i lavori nel vostro piccolo kibbutz?”, ha chiesto una volta un funzionario pubblico. Molti erano convinti che il personale avrebbe mollato dopo le prime violenze.

Palazzina G

Davanti al Castello un ragazzo nero, molto magro, si protegge dal sole sotto un albero. Si è preso una coltellata alla coscia qualche giorno fa; il taglio è stato suturato, ma bisogna controllare i punti. Dice di chiamarsi John Fitzgerald, è nigeriano. Ha fatto domanda di asilo e vive in un appartamento occupato nella palazzina proprio davanti all’ambulatorio, la G. Una società pubblica sta comprando gli appartamenti per poi demolire il palazzo. Li compra a uno a uno (30mila euro in media per un appartamento di cento metri quadri) e non se ne occupa più. Così gli appartamenti vuoti vengono occupati e le risse si moltiplicano, con le due bande di spacciatori del quartiere e con gli abitanti, ormai esasperati. Il nuovo proprietario lascia che la situazione precipiti, costringendo di fatto gli ultimi proprietari a vendere. Gli inquilini non ne possono più delle urla nel cuore della notte e delle sparatorie.

Al Castello arrivano persone – uomini e qualche donna – che sono state ferite a pugni, con una sbarra di ferro o un coltello. Alcuni pazienti rimproverano i medici che li curano, e il personale risponde che è lì per aiutare tutti.

Il gruppo ha stretto rapporti con l’intero quartiere: insegnanti, assistenti sociali, educatori, il salumiere, il farmacista e così via. Ogni tanto qualcuno di loro porta il caffè e il tè all’ingresso della scuola materna per parlare con i genitori dei bambini.

Una stanza dello Château en santé, giugno 2021 -
Una stanza dello Château en santé, giugno 2021

I pionieri del progetto avevano pensato di abitare nel quartiere per condividere la vita dei pazienti. Ma alla fine hanno saggiamente deciso di rimanere nel centro di Marsiglia, per rifiatare un po’ e non dover essere sempre a disposizione. Solo Fatima, la mediatrice, e Habiba, molto coinvolta in un’associazione di donne del quartiere, vivono in zona. Quando si è saputo in giro che al Castello cercavano qualcuno per fare le pulizie, Habiba si è presentata subito. “All’inizio erano imbarazzati, ma io sognavo di poter lavorare con loro. Non ci dicevano di cosa avevamo bisogno e di come ci avrebbero curate, volevano deciderlo insieme a noi. Mi sembrava una cosa molto intelligente”. Habiba parla della solidarietà e delle amicizie che nascono a Kalliste, ma anche del sentimento di abbandono e della violenza che apparentemente contrastano con l’atmosfera rassicurante del Castello.

È scesa la notte. A casa di Ségolène, vicino alla Plaine, nel centro di Marsiglia, quasi tutta l’équipe del centro è seduta intorno a un tavolo. Carolina, l’assistente sociale, canta la canzone femminista cilena Vivir sin miedo (Vivere senza paura), uno degli inni del Castello. Si canta in coro e si balla fino a notte inoltrata. Negli sguardi, nei sorrisi, nel modo di abbracciarsi dopo una lunga discussione, si percepisce il legame, l’amicizia consolidata nel corso delle lotte, nelle difficoltà passate insieme, nei momenti di gioia e di rabbia, nei fallimenti e nei progressi.

All’alba Clémentine prende la macchina e lascia piazza Castellane, non lontano dal Prado; lungo la strada recupera Céline, ortofonista come lei, l’infermiera Carole e la ginecologa Irène. È di buon umore, e racconta della passeggiata che ha fatto il giorno prima con il suo ragazzo. Tutte ridono. Di solito in questa mezz’ora di viaggio parlano dei loro pazienti.

Mercoledì mattina il Castello somiglia a una colonia estiva. I bambini hanno appuntamento dagli ortofonisti, e spesso vengono con fratelli e sorelle. Si sentono a casa, lasciano la cartella alla reception e vanno a giocare nel parco. All’inizio il gruppo non aveva previsto un servizio di ortofonia, ma le riunioni con gli abitanti hanno messo in evidenza quest’esigenza. Meno specialisti nei quartieri settentrionali della città significa più ritardi cognitivi e problemi di linguaggio tra i bambini. A volte i problemi sono dovuti alla difficoltà di stimolare l’apprendimento in ambienti in cui non si parla bene il francese e si vive in più famiglie in un solo appartamento. Céline e Clémentine organizzano incontri con i genitori e i bambini per dare “assistenza”, per aiutarli a imparare – senza far nascere sensi di colpa – come il gioco può far crescere i bambini.

Fatima, che lavora allo Château en santé, giugno 2021 -
Fatima, che lavora allo Château en santé, giugno 2021

In cima alla lista

Una madre arriva con la figlia di nove anni che si sente molto stanca; ha un eczema al collo che copre con un fazzoletto. La madre non sembra preoccupata ma Elisa, consulente coniugale e familiare, decide comunque di aggiungerla alla lista degli appuntamenti, già completa. Arrivato il suo turno la bambina si alza, ma fatica a tenersi in piedi. Bénédicte, il medico di turno, si rende conto che ha i brividi, segno di un aggravamento dell’infezione. C’è il rischio di una setticemia, si chiama un’ambulanza.

Il giorno dopo è il momento della riunione settimanale in cui si passano in rassegna i problemi incontrati e si distribuiscono i compiti. Il Castello ha 16 dipendenti: se vogliono, tutti possono partecipare. Habiba, la donna che fa le pulizie, ha spesso informazioni utili sulla situazione delle famiglie. Si riparla della bambina con l’eczema. “Se Elisa non l’avesse inserita nella lista delle visite”, dice Bénédicte, “avrebbe rischiato di morire”. Al pensiero la consulente familiare rabbrividisce.

Il gruppo è attento a evitare che il progetto sia troppo focalizzato sugli aspetti medici, che i dottori accumulino troppo potere, che cannibalizzino il dibattito.

Da una finestra dello Château en santé, giugno 2021 -
Da una finestra dello Château en santé, giugno 2021

Questa mattina tutti si rendono conto della grande responsabilità che ha chi accoglie i pazienti senza aver fatto otto anni di medicina. “Se l’hai aggiunta in lista è perché avevi un dubbio”, continua il medico. “La prossima volta vieni a parlarci senza aspettare. Quando si tratta di bambini dobbiamo ridurre i rischi al minimo”. Edwige, medico generico, continua: “Non lo facciamo per caricare di responsabilità chi accoglie i pazienti, ma è importante condividere quello che ci stressa, che non ci fa dormire, parlare di quest’inquietudine, del tabù della morte”. Elisa la rassicura: trova la discussione “utile e positiva”.

Poi, come ogni giovedì, si parla di un caso clinico: si analizzano le pratiche a partire da una determinata situazione e si cerca una soluzione insieme. Tutti, medici o meno, dicono la loro su un caso particolarmente difficile. Il figlio di una paziente è stato “massacrato di botte” da una delle due bande di spacciatori. Andava in giro senza casco su un motorino e dei poliziotti hanno cominciato a inseguirlo. Per sfuggirgli si è rifugiato in un punto di spaccio. Così, quando i poliziotti se ne sono andati, sono arrivati gli spacciatori.

Edwige e Thomas lo hanno visitato: nessuna ferita grave, ma il ragazzo è terrorizzato, dice di temere per la sua vita, non ha fratelli o cugini che lo possano proteggere. L’anno scorso aveva già avuto dei problemi con una banda; Carolina, l’assistente sociale, gli aveva proposto di andare in “un convitto tanto carino”, ma lui aveva rifiutato. Habiba conosce bene la madre, allegra quando è con altre donne ma stressata dalla vita di famiglia. Ségolène le ha proposto una cura, “per farla rifiatare”. Thomas chiamerà un educatore per capire se il ragazzo è davvero in pericolo.

Un alleato prezioso

L’autunno avanza. Un sole mite illumina le colline. Vegetazione bassa, odori di timo, sentieri che si snodano sinuosi come in un libro di Marcel Pagnol. Una quindicina di donne, tra pazienti e personale medico, passeggiano sulle colline del quartiere, come ogni martedì. Senza uomini, per poter parlare in libertà. Malika raccoglie delle erbe, passano vicino alle rovine di una fattoria. Marsiglia sembra lontana.

I pionieri del progetto avevano pensato di abitare nel quartiere per condividere la vita dei pazienti. Ma alla fine sono rimasti nel centro di Marsiglia

Quando sono arrivati a Kalliste, i medici hanno scoperto che quello che pesa di più sulle spalle delle madri sono i lavori di casa, i pasti, i figli, vivere in appartamenti troppo piccoli, con la paura di non arrivare alla fine del mese. Un esaurimento fisico ed emotivo lento e invisibile, a cui il Castello risponde con corsi, passeggiate e terapie di gruppo, che permettono alle donne di emanciparsi passo dopo passo.

Una macchina fa schizzare il brecciolino davanti al Castello. Quando è di buonumore Bénédicte parcheggia tirando il freno a mano. Allegra e impertinente, non riesce a stare ferma, cucina durante le riunioni, lancia noccioli di ciliegia ai colleghi. Le sue emozioni – dalla gioia ai malumori più cupi – si diffondono per tutto il centro. Spesso si spinge fino allo stremo delle forze. Per lei curare è come una sfida fisica.

La ragazza davanti a lei vorrebbe diventare hostess di terra, ma deve trovare una compagnia aerea che le finanzi la formazione. Nel frattempo vende scarpe nel negozio di un grande marchio che, a causa della pandemia, non ha abbastanza personale. Katuma è sfinita. Bénédicte le tocca la spalla e scopre una schiena molto tesa, le dà qualche giorno di malattia, le consiglia di praticare il tai-chi chuan e le dà il nome del suo insegnante.

Un uomo di 62 anni ha bisogno di un certificato per essere esentato dal portare carichi pesanti. Ha trovato lavoro come magazziniere, è stato riconosciuto parzialmente invalido, ma la sua cartella clinica non è aggiornata e non ha più la tessera di invalidità. Quando Edwige si volta per prendere il documento nella stampante, l’uomo legge la frase “Non sono il tuo eroe” stampata sul camice. Edwige gli dice di andare da Carolina, l’assistente sociale: perché non approfittare dell’occasione e fare un elettrocardiogramma? “No grazie, verrò un’altra volta. Per ora ho già abbastanza cose che non vanno”.

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I medici visitano corpi logorati dal lavoro. Pazienti che si alzano prima dell’alba, prendono il primo autobus per andare a fare le pulizie dall’altra parte della città; che puliscono parcheggi fino allo sfinimento; che a sessant’anni trasportano pneumatici, consapevoli che continueranno a farlo fino a 67, per raggiungere il massimo di pensione, una cifra che sarà comunque troppo bassa. L’assistente sociale cerca di risolvere alcuni casi, ma molti pazienti non hanno i requisiti per ricevere il sussidio: serve l’80 per cento d’invalidità, e loro arrivano al 75-78 per cento. Il Castello vuole organizzare un corso per riflettere insieme agli abitanti sul rapporto tra lavoro e salute.

Grazie al passaparola la gente del quartiere ha capito che il Castello è un alleato, che qui si può trovare un aiuto quando non si riesce a parlare con le strutture pubbliche. Una famiglia che non riesce a rinnovare l’assicurazione sanitaria. Una donna senza permesso di soggiorno con un figlio piccolo che esce disperata da un centro locale per la solidarietà, dicendo: “Alla reception mi hanno detto: ‘Non serve a niente venire, torna nel tuo paese, qui non avrai nulla’”. Ogni appuntamento nell’ufficio di Carolina è il risultato di un fallimento dei servizi sociali. Persone abbandonate al loro destino, a cui poi si rimprovera di essersi isolate. “Cerco di dare delle chiavi di lettura, di spiegare quello che succede, per permettere a queste persone di essere autonome”, dice l’assistente sociale. “La maggior parte delle domande è disponibile online, molti hanno internet, ma non capiscono cosa gli viene chiesto”.

Quando entrano nel suo ufficio, molti pazienti hanno abbandonato l’idea di occuparsi della propria salute, relegata in secondo piano dalle altre preoccupazioni. Carolina cerca di fagli capire che hanno ancora dei diritti, che il Castello può curarli, può far sospendere le bollette da pagare. A volte Fatima o Apo, mediatore e traduttore dal curdo e dal turco, accompagnano personalmente le persone più isolate dagli specialisti, per eliminare ogni barriera nell’accesso alle cure.

Questo modo di affrontare i problemi medici e sociali si è affermato in Canada a partire dagli anni settanta ed è chiamato “salute globale”: significa interessarsi alle persone nella loro totalità. Un approccio simile esiste anche in Belgio, nelle cosiddette Maisons médicales (Case mediche) e nei collettivi sanitari. In Francia la soppressione delle Ddass (Direzioni dipartimentali degli affari sanitari e sociali, cioè le amministrazioni sanitarie locali) ha creato una separazione netta tra la sanità e la coesione sociale. Nel Castello le due dimensioni sono di nuovo riunite.

Prima dell’apertura, Fatima lo ripeteva sempre: bisogna fare le cose con calma. Non cercare di risolvere i problemi in un colpo solo. Ce ne sono troppi

Era un gioco

Il personale medico scopre spesso dei corpi coperti di punture di insetti. Uno degli edifici del quartiere è infestato da cimici, e molti pazienti si vergognano a parlarne perché non hanno i soldi per la disinfestazione. L’agenzia sanitaria regionale afferma che non è un problema di salute pubblica. Un giorno Christophe è riuscito a recuperare dei prodotti chimici presso un’altra associazione, i Compagnons bâtisseurs (Amici costruttori), ed è andato a disinfestare l’appartamento di Marie, che aveva cinque figli ricoperti di punture. La casa era molto umida, condizione che favorisce l’asma e la tosse.

Il Castello segnala alle autorità pubbliche i casi più gravi, anche se la cosa non ha mai dato risultati concreti. Sul problema degli alloggi non ha alcun potere.

Tra una visita e l’altra, Bénédicte prepara uno sformato con le verdure rimaste nel frigorifero. Sui muri della cucina un affresco rappresenta dei piccoli topi che mangiano i resti di un pranzo accanto una caraffa piena di vino. Un odore delizioso si diffonde nel Castello. Una delle pazienti, Nazia, che partecipa spesso alle camminate collettive, porta dei dolci che ha preparato. Più tardi passerà a prendere il caffè. Il Castello chiude tra le 13 e le 14, i dipendenti cucinano e mangiano insieme, un momento prezioso e spesso gioioso. Si ripromettono di non parlare di lavoro, ma non ci riescono mai. Julien arriva in ritardo, il volto tirato. È rimasto un’ora con un uomo depresso, nervoso: lavorava in nero, ha perso il lavoro dopo il primo lockdown e ha paura di “fare una stupidaggine”, di finire in prigione. Non ha più da mangiare.

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Julien è arrivato a Marsiglia quando il progetto cominciava a prendere forma. Prima ha lavorato alla piattaforma di accesso alle cure dell’ospedale La Timone, poi ha coordinato gli incontri con gli abitanti. Mangia rapidamente, perché davanti al Castello i pazienti sono già molti. Riceve una ragazza che da qualche giorno ha le vertigini. Ha un occhio nero, dice di essersi fatta male giocando con il fratello. E visto che il fratello ha 15 anni, Julien le chiede diverse volte: “È sicura che si trattava di un gioco?”. La ragazza ride. “Sì, sì era un gioco, non si preoccupi”.

“Prima di aprire il centro non ci rendevamo conto del livello di violenza, fisica e psicologica, vissuta dalle donne”, dice Irène. Edwige, anche lei ginecologa, cerca di relativizzare: “Non so se sia molto diverso negli altri quartieri o in altri ambienti sociali. Forse oggi siamo più attente e facciamo più domande”. Spesso, osserva Edwige, le confidenze arrivano alla fine della visita. La ginecologa parla della cosiddetta storia della maniglia. Al momento di andare via, la paziente mette la mano sulla maniglia, si volta e dice: “A proposito…”. In quel momento comincia la vera visita. Bisogna ascoltare senza essere aggressivi, mantenere il contatto ed essere presenti quando una donna chiede aiuto.

Un venerdì una ragazza si è ritrovata in pericolo con il figlio piccolo. Al Castello gli hanno trovato un alloggio. La sera Edwige e Christophe li hanno fatti traslocare, senza dare nell’occhio. Una delle particolarità del centro, osserva Edwige, è che accoglie vittime e aggressori. A volte si trovano degli stratagemmi per allontanare i mariti violenti, quando cercano di essere presenti alle visite con il pretesto che le mogli parlano male il francese.

Stanchezza e frustrazione

L’équipe è riunita in cerchio nel giardino. Laurent, psicologo, interviene ogni mese per una “supervisione”: un’occasione per tornare su una situazione vissuta con difficoltà, consentendo a tutti di liberare emozioni, rabbia e lacrime. Nel rumore del quartiere si mischiano le grida dei bambini, il canto del gallo e i segnali delle vedette delle bande di spacciatori. I dipendenti del centro parlano del secondo lockdown. Il primo, in primavera, gli aveva permesso di misurare la forza del collettivo insieme agli abitanti del quartiere. Sempre nel rispetto del principio fondante del Castello: “Facciamo quello che possiamo, ma lo facciamo insieme”.

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Stavolta, però, sono tutti più stanchi. Il gruppo è una spugna che assorbe le violenze. “Avete un nemico invisibile”, dice Laurent con voce calma. “È la voglia di salvare il mondo. È un compito immane, e questo genera frustrazione. Avete costruito questo progetto per rispondere a un sentimento di rabbia, ma altre rabbie nascono continuamente e non trovano uno sfogo”. Fatima annuisce a lungo. Prima dell’apertura lo ripeteva sempre: bisogna fare le cose con calma. Non cercare di risolvere tutti i problemi in un colpo solo. Ce ne sono troppi. E troppe istituzioni “vi lasciano da soli al fronte”.

Nella sala d’attesa una paziente brontola: “È mezz’ora che la signora prima di me è con il dottore. Non è possibile! Quando la gente comincia a raccontare la propria vita è il medico che deve fermarli”. Ségolène arriva proprio in quel momento, sente le ultime parole e si appoggia sul mobile del caffè: “Ma per noi è importante che i pazienti ci raccontino la loro vita”. La donna si tranquillizza, ma non cambia parere. Quando arriva il suo turno, rimane per mezz’ora a parlare con Ségolène.

Un nodo in gola

All’inizio al Castello venivano i bambini, poi sono arrivate le donne. Oggi anche gli uomini vengono a farsi visitare. E i tempi di attesa si allungano. Carole propone ai più impazienti di lasciare il numero di telefono: vogliono riunire pazienti e dipendenti per cercare insieme delle soluzioni. Incontri del genere vengono organizzati anche per discutere di farmaci, alimentazione, rapporti tra malato e medico.

Servono più medici? “Se aggiungiamo un dottore, poi ce ne vorranno due”, dice Jérôme. “Se assumiamo due ortofonisti, poi ne serviranno dodici. E così ne risentirà la qualità dell’accoglienza”. Jérôme preferirebbe che arrivassero altri medici, con progetti nuovi. Nel 2020 il ministro della sanità ha annunciato la creazione di una sessantina di “centri di medicina partecipativa” (la parola “comunitaria” fa ancora paura) nei quartieri popolari. Si sta preparando un protocollo con i requisiti necessari e al Castello è stato chiesto di dare un contributo. Il piccolo kibbutz ha cominciato a farsi conoscere.

La pandemia ha messo in luce l’utilità di progetti come questo. In una situazione di emergenza il Castello si è mobilitato per organizzare i primi test, per seguire i malati di covid senza trascurare le famiglie più fragili, per contattare le donne più esposte alle violenze. Con la crisi sanitaria la miseria e l’assenza di risposte pubbliche sono diventate ancora più evidenti. In compenso le reti associative e i volontari si sono impegnati parecchio. Al Castello il personale medico ha distribuito pacchi alimentari, anche se con qualche imbarazzo, per il rischio di creare con i pazienti un rapporto verticale.

Fatima rientra a casa, la notte scende su Marsiglia. Non è mai stata così contenta al lavoro, ma si sente un nodo in gola: la paura che un giorno i suoi colleghi se ne andranno. Sono tre anni che tengono duro. Forse perché fanno quello che possono. O perché lo fanno insieme. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati