Sulla tizita ne sapevo abbastanza per crederci: la prima volta che senti la tua tizita, te ne innamori. Il primo amore non si dimentica mai, la prima tizita nemmeno. Dov’eri quando fu ucciso J.M. Kariuki? O Ruth First, Lumumba, Kennedy o Malcolm X? Dov’eri la prima volta che hai sentito la tua tizita?
Nel mio caso ero a Boston, il 5 maggio 2001. Ero al Charles River pub, un bar dove si beveva per pochi soldi scoperto grazie al mio amico G., keniano come me, che all’epoca insegnava letteratura africana all’università di Boston. G. era un fumatore accanito e quando aveva un bicchiere in mano era un asso nello scovare ottimi affari: era stato lui a iniziarmi alla zuppa wonton con riso cinese, il tutto a tre dollari, “molto più economico e sano del menu Big Mac”, amava sottolineare.

Il Charles River pub – o Crp, come lo chiamavamo noi – era piuttosto deprimente, frequentato soprattutto da espatriati eritrei ed etiopi: insegnanti, studenti, ingegneri e dottori, alcuni già abbastanza attempati da stare in una casa di riposo, tutti giocatori di keno e slot machine. Il bancone sembrava un lungo abbeveratoio, con al centro gli spillatori della birra alla spina a forma di birilli, davanti ai quali gli assetati si mettevano in fila.
A conferma dell’abilità di G. nello scovare affari, la Budweiser alla spina o il bicchierino di whisky Jameson costavano molto meno rispetto ai soliti prezzi di Boston. Ma ad attirarci lì era anche il jukebox. Con un dollaro compravi cinque canzoni, e cinque dollari ti regalavano un viaggio nei ricordi lungo una vita: i Jackson Five, Michael Jackson, Whitney Houston, Millie Jackson, Miriam Makeba, il buon vecchio Hugh Masekela, Franco e i suoi dieci minuti di Mario, i migliori classici africani, oltre a una sana dose di canzoni eritree ed etiopi in amarico, tigrino e altre lingue che io e G. non parlavamo. Andavamo al Crp, prendevamo qualcosa da bere, facevamo partire il jukebox, cominciavamo a sbronzarci, poi proseguivamo verso i bar meno minimalisti ma anche più costosi.
Al Crp, chi doveva consolarsi per una perdita al gioco spesso metteva al jukebox una sofferta versione blues della sua tizita, cantandola fino a quando le risate non tornavano a riempire il locale. Non capivo il senso delle parole, sapevo solo che le persone del Corno d’Africa si facevano trasportare dalla tizita in un posto che era molto più infernale della loro vita e quando tornavano sembravano stare meglio. Proprio come mi era capitato con alcune canzoni in lingala o alcuni blues del Mali, che mi piacevano e sui quali avevo ballato e amoreggiato, non volevo conoscere il testo della tizita per non rischiare di essere deluso. Avevo imparato la lezione a mie spese il giorno in cui avevo scoperto che una delle mie canzoni preferite di Habib Koité parlava dei rischi legati al fumo (probabilmente era stata commissionata dal ministero maliano della salute o, peggio ancora, da una ong occidentale).
I clienti abituali del bar, notando il mio piacere disinteressato, mi dicevano: “Amico, trovare la tua tizita è come trovare l’amore. Là fuori c’è una tizita per ognuno di noi e, come in amore, devi essere pronto ad accoglierla”, e altre variazioni sul tema. Io ridevo e minacciavo di prendere la chitarra e suonare la mesta ma festosa Malaika, scritta e interpretata da Fadhili William, che sarebbe morto squattrinato in un quartiere degradato del New Jersey mentre altri diventavano miliardari grazie alla sua canzone (la sua era una storia perfetta per un tabloid). Da bambino devo aver sognato di diventare il nuovo Michael Jackson o il nuovo Fadhili William. Nel tentativo fallito di raggiungere quel traguardo, avevo imparato a suonare solo una canzone, Malaika. Alle feste prendevo la chitarra e, strimpellando, provavo a infilarmi nel letto di qualche invitata. Non aveva mai funzionato.
È al Crp che ho sentito la tizita di cui mi sarei innamorato, un amore così forte da segnare un prima e un dopo nella mia vita. Il 5 maggio 2001 il proprietario annunciò una nuova tizita: il locale s’infervorò, gli avventori chiesero chi fosse l’artista e il proprietario rispose che era una sorpresa. Quel pomeriggio il caldo era umido e soffocante, ma lui chiuse porta e finestre per mettere a tacere la frenetica attività del mondo esterno. Spense la televisione e le macchine da gioco e mentre nel bar calava il silenzio aprì con fare ieratico la cassa, prese un dollaro e si diresse verso il jukebox.
La banconota spiegazzata fu respinta dal jukebox, scatenando un brontolio generale. Il proprietario la lisciò passandola contro il lato del jukebox e fece altri tre tentativi, mentre alcuni clienti si avvicinavano agitando altre banconote più o meno nuove. Alla fine riuscì a farlo funzionare.
“Fratelli e sorelle, vi presento una nuova tizita della grandissima Aster Aweke”, annunciò solennemente. Ci fu un silenzio così profondo che sentimmo il lieve ronzio meccanico del jukebox che cercava il brano. Non avevo mai assistito a una scena simile. A Nakuru, la mia città di origine, amavamo tutti la musica, e nei bar ci capitava di cantare in coro un successo pop in kikuyu oppure una canzone country. Tanta ostentata solennità mi lasciava perplesso: era solo una canzone.
Poi, a un tratto, il mio mondo si trasformò.
All’inizio, ascoltando la voce levarsi dalle nubi di un coro sinfonico, sentii qualcosa dentro di me sciogliersi. Come la brusca e dolorosa distensione di un muscolo contratto, continuava a sciogliersi, a sciogliersi, finché il sollievo si trasformò in angoscia, e poi, quando la canzone finì, non provai altro che sollievo, perfino felicità. Qualunque cosa fosse, e dopo essere stata dentro di me per quella che sembrava una vita intera, ora era sparita.
Mi guardai intorno, e fu come vedere il mondo a colori per la prima volta. Notai che il mio amico G. era butterato, con il viso pieno di macchie marroni. Tra i clienti abituali vidi capelli grigi, mani raggrinzite, il lieve dilatarsi di narici; sentii colpi di tosse risuonarmi nelle orecchie, il sordo brusio della vita di strada inframmezzato dal rombo di una moto; colsi effluvi di acque di colonia – imitazioni di prodotti di marca – che si spandevano sopra l’odore di urina che veniva dal bagno. Qualcosa dentro di me era scattato e mi aveva abbandonato, e lo stesso mondo che abitavo da anni era diventato più nitido, più a fuoco.

Trattenni le lacrime e andai in bagno per ricompormi. Quando tornai in sala, era successo qualcosa di strano: nessuno parlava. Nessuno si guardava negli occhi. Da persone indurite dalla vita quali eravamo, immagino avessimo condiviso troppo. Il proprietario offrì un giro a tutti, l’incantesimo si spezzò, si ordinarono birre e whisky e fu come se non fosse successo niente.
Più tardi, leggendo che in punto di morte i nostri sensi si acuiscono, il giornalista in me pensò che forse avevo avuto un infarto, un attacco di panico o semplicemente la contrazione di un muscolo del petto, qualcosa di abbastanza fisico da indurre o simulare un’esperienza di pre-morte, proprio mentre ascoltavo quella tizita. Ma sapevo che mi stavo raccontando una storia.
Sviluppai un’ossessione. Supplicavo le persone perché mi traducessero il testo. Compravo birre e gratta e vinci per corrompere i presenti e, di solito, qualcuno riuscivo a coinvolgerlo. Mettevo la canzone nel jukebox ma poi, per qualche ragione, lei prendeva il sopravvento, il mio aspirante interprete si appoggiava allo schienale della sedia o al bancone del bar e, accennando un sorriso d’inebriata tristezza, si richiudeva in se stesso.
“Amico mio, non esiste una traduzione per questa canzone? Ci sono sicuramente canzoni così anche nella tua lingua, no?”, era l’inevitabile reazione.
“Ma di che parla? Anche a grandi linee?”.
“Amico mio, che vuoi che ti dica: non esistono le parole giuste in inglese. La tizita è la tizita”.
“Vuoi dire che sentiamo e conosciamo in modo diverso a seconda della nostra lingua? Dev’esserci un modo…”.
“Be’, amico mio, chiedi a qualcun altro. Non ho nessuna intenzione di deturpare questa splendida tizita”.
Andò avanti così finché una sera il proprietario mi fece avvicinare a un tavolo vuoto e mise una bottiglia di whisky a buon mercato tra noi.
“Proverò ad aiutarti. Cosa vuoi sapere?”, chiese.
Le persone si facevano trasportare dalla tizita in un posto che era molto più infernale della loro vita e quando tornavano sembravano stare meglio
“Da dove viene la tizita?”, dissi.
“Nessuno lo sa, amico mio… Forse dai nostri poeti… In Etiopia siamo pieni di sorprese. Mentre l’Africa veniva schiavizzata e il cristianesimo arrivava da voi a fucilate, noi avevamo ricevuto la parola direttamente dal Signore. La nostra chiesa ortodossa è arrivata direttamente da Cristo! La nostra tizita… chissà? Forse esiste da quei tempi, prima del blues americano, forse dall’inizio dei tempi”, rispose, aprendo il portafogli e facendo scivolare un dollaro verso di me.
“Perché non ci fai sentire il dono di Dio?”, suggerì con dolcezza.
Andai al jukebox e misi due dollari, in modo da poter ascoltare la canzone due volte. Tornai a sedermi e ci guardammo durante l’intro – un’infinita cascata di note di pianoforte e percussioni che delicatamente emergeva e s’immergeva nel silenzio – fino al momento in cui attaccò Aster, cantando la prima strofa.
“Nei primi due versi si rivolge al suo amore. Anzi alla perdita del suo amore. Le manca il dolore di quella perdita. È come una coperta calda. Provando quel dolore, riesce a vedere il viso del suo amato. Per cui non si tratta né di dolore né di perdita, piuttosto del ricordo di lui. Ma non è solo un ricordo, perché lei avverte il dolore di quella perdita. È di nuovo viva nel tempo presente, insieme a lui. La tizita riporta in vita il suo amore perduto, facendola sentire triste e felice al tempo stesso. Ricordare fa male, ma guarire è peggio. Non vuole guarire perché la ferita, ciò che racchiude, è l’amore che ha perso, ed è viva”, mi spiegò.
“E questi sono solo due versi?”.
“Sì, i primi due”.
“E il resto della canzone? Di che parla?”, chiesi ansiosamente.
“Questo è tutto quel che posso fare per te. Ti vogliamo bene, fratello keniano, ma alcune cose ci appartengono. Non posso condividere altro perché non potrei farlo in un modo che rispetti la tizita, quindi questo è tutto quello che posso fare per te. Ci sono state delle lamentele. Ora ti chiedo di lasciar perdere”, mi consigliò.
“Lamentele?”, chiesi, e per poco non risi dall’incredulità.
“La bottiglia la offre la casa”, disse, e la spinse verso di me.
“Puoi almeno dirmi un’ultima cosa?”, chiesi.
“Qualunque cosa, fratello, tranne ciò che non posso dirti”, rispose con voce compassionevole.
“Chi ha cantato per primo la tizita?”.
“In Etiopia abbiamo gli azmari, dei poeti che sono anche musicisti, un po’ come i griot sudanesi. Si spostano da un funerale all’altro, da un matrimonio all’altro, da una festa all’altra, elogiando, talvolta fustigando. La loro è una vita molto dura, ma vedono anche molta vita. Solo chi ha vissuto una vita di peregrinazioni può cantare una tizita”, spiegò, prima di tornare dai suoi clienti.
E così rimasi lì a bere fino allo stordimento. Di tanto in tanto, un cliente diretto in bagno mi posava una mano premurosa sulla spalla. Le avevo provate tutte. Yahoo e Google non avevano dato nulla: nel 2001 erano troppo giovani. All’epoca YouTube non esisteva, ma anche anni dopo, nei commenti, le sporadiche richieste di una traduzione in inglese ricevevano la stessa risposta: impossibile, è qualcosa che ha a che vedere con la memoria, con la nostalgia. Un professore aveva scritto un saggio sulla tizita, James Baldwin e il blues nero americano: lo lessi con avidità, ma nemmeno lì trovai il testo della canzone. All’università di Boston andai all’African studies centre in cerca di studenti etiopi, ma anche loro, spiantati com’erano, dopo aver ascoltato la canzone mi parlavano di tutto quello che c’era da sapere sull’Etiopia tranne che della canzone.
In preda allo sconforto, trovai un servizio di traduzione online, ma non ebbi il coraggio di usarlo: mi sembrava troppo freddo e meccanico. Ero disperato, ma non volevo distruggere la mia tizita pur di capirla. Decisi di aspettare. Nel frattempo ascoltai la canzone un centinaio di volte finché, come dopo ogni primo amore inappagato, riuscii in qualche modo a rifarmi una vita. A onor del vero, G., molto divertito dalla faccenda, mi aiutò a mangiare e a bere a poco prezzo per tutta la durata del mio crepacuore.
C’era una storia che avevo sentito innumerevoli volte al Crp: da un lato c’erano i rivoluzionari eritrei ed etiopi, dall’altro i soldati di Hailé Mengistu, una guerra di trincea in cui ondate su ondate di uomini si uccidevano a distanza ravvicinata. Poi un rivoluzionario cominciò a cantare la tizita, e uno dopo l’altro i fucili tacquero. Una dopo l’altra le salve di spari si fecero più distanti mentre erano sempre di più i soldati che si sforzavano di sentire la canzone e zittivano le loro armi, fino a quando sul campo di battaglia calò il silenzio, interrotto solo dal canto e dai gemiti dei feriti. Appena la tizita finì, i combattimenti ripresero. L’esercito di Mengistu subì una sconfitta devastante. “Tale era il potere della tizita”, diceva il finale della storia.
Conoscevo abbastanza quella storia da sapere che quasi tutte le culture ne hanno una loro versione: la tregua di Natale durante la prima guerra mondiale, le tregue dichiarate per un matrimonio o per seppellire un eroe morto in combattimento. Ma ogni volta che la sentivo (con le variazioni del caso), mi sembrava molto vera. E anche se all’epoca non lo sapevo, ogni volta che la sentivo qualcosa dentro di me mi rendeva consapevole della mia stessa vita e di quanto poco ne avessi fatto. Mi spingeva a chiedermi se qualcuno, raccontando la storia della mia vita, mi avrebbe mai presentato come una persona che aveva almeno favorito una tregua nel mezzo di un qualche grande avvenimento o sacrificio. ◆ fs
Mũkoma wa Ngũgĩ è uno scrittore keniano. Insegna alla Cornell university, negli Stati Uniti. Questo racconto è uscito su Granta con il titolo Unbury our dead with song.
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Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati