Non mancano i momenti sconvolgenti nel documentario Summer of soul. Il film-concerto di Ahmir Thompson si apre con uno Stevie Wonder di appena 19 anni, quando era ancora solo una grande pop star, che si siede dietro una batteria e si lascia trascinare: seduto, in piedi, scalciando, come posseduto. E verso la fine c’è Nina Simone che esegue _Backlash blues _ingaggiando un incontro di pugilato con i tasti del suo pianoforte, con i capelli indistinguibili dall’opera d’arte conica attaccata alla sua testa.

Nel film ci sono Sly & the Family Stone, B.B. King, Ray Barretto e Gladys Knight & the Pips in forma smagliante, elettrica. Ma nessuna iniezione d’adrenalina è paragonabile a quello che succede a metà di questo strano oggetto, un’opera costituita semplicemente – ma non certo banalmente – dalle immagini dell’edizione 1969 dell’Harlem cultural festival: immagini che Ahmir Thompson, meglio noto come Questlove, leader dei Roots, ha recuperato e assemblato in circa due ore e mezza di sconvolgente pathos. Tutto il film prepara questo momento travolgente e quando ci si arriva si concede piena fiducia alla strategia di Thompson.

Scoperta non casuale

Spesso i documentari costruiti con immagini d’archivio non capiscono il valore di quello che hanno a disposizione. A volte le immagini vengono ritrovate, ma il film è perso. Troppe deviazioni rispetto al suo vero valore; troppe parole su immagini che basterebbero da sole; e senza mai sapere – nei film concerto – cosa fare del pubblico. La scoperta confusa toglie tutto il piacere. Ma non in questo caso. Qui la scoperta diventa il piacere. Niente appare casuale.

Dopo gli energici commenti sul sincero sostegno del sindaco John Lindsay al festival e sulla sponsorizzazione della Maxwell House; dopo un vertiginoso montaggio degli abiti e del linguaggio scenico del carismatico e, giusto dirlo, affascinante ideatore del festival, Tony Lawrence; dopo uno struggente, illuminante passaggio sul trascurato e tanto bistrattato quintetto Fifth Dimension, Thompson ci trascina nel mezzo di un sostanzioso passaggio gospel.

Gli Edwin Hawkins Singers danno il via con la loro interpretazione di Oh happy day, che all’epoca fu un grande successo. Poi arrivano gli Staple Singers – Pops e le sue figlie Cleotha, Yvonne e Mavis – che reinterpretano Help me Jesus con venature rockabilly. Non lontano c’è la “derviscia” Clara Walker, i cui modi coinvolgenti, puntellati dalla melodia, si rafforzano a vicenda come possono fare forno e ventilatore.

Il palco dell’Harlem cultural festival - Searchlight pictures
Il palco dell’Harlem cultural festival (Searchlight pictures)

Questi concerti si sono svolti nel corso di sei domeniche estive. Non so davvero quale fosse la scaletta ufficiale e cronologica di ogni giornata, ma Thompson e il suo montatore, Joshua L. Pearson, hanno dovuto fare tagli piuttosto pesanti.

Pochi minuti dopo Walker e i suoi
Gospel Redeemers, appare il reverendo Jesse L. Jackson, con un aspetto beatificante e beatnik come non avrebbe mai più avuto in seguito. A sostenerlo c’è la Bread­basket Orchestra and Choir, e Jackson comincia a dire alla fitta folla di abitanti di Harlem lì stipati che le ultime parole del dottor Martin Luther King jr. furono rivolte al leader della Breadbasket, Ben Branch. Il reverendo King gli disse che voleva che lui suonasse Take my hand, precious lord, un pilastro della musica gospel. E lì, per esaudire quel desiderio, c’è Mahalia Jackson, che a sua volta l’ha cantata tante volte su richiesta di Martin Luther King.

È importante notare che, durante questo passaggio del film, Mavis Staples e il reverendo Jackson raccontano la scena anche ai giorni nostri. Parlando oggi, dalla sua veranda, Staples ricorda che Mahalia Jackson, il suo idolo, si chinò verso di lei chiedendole di accompagnarla. Mavis Staples aveva circa trent’anni; Mahalia Jackson ne aveva quasi sessanta e non si sentiva troppo bene.

Un duetto divino

Staples si fa avanti per prima, da sola e con foga. Jackson la segue con la stessa forza, incurante di qualunque fosse la cosa che la faceva stare male. Poi, insieme – Jackson è raggiante in un abito fucsia con un diamante dorato sistemato sotto il petto, Staples con un vestito bianco corto, di pizzo e con una cintura – si esibiscono nel duetto più stupefacente che abbia mai visto o sentito.

Nina Simone - Searchlight pictures
Nina Simone (Searchlight pictures)

Condividono il microfono. Se lo passano tra loro. Ululano, gemono, si lamentano, saltellano, ma comunque all’interno dei generosi contorni della canzone e, in qualche modo, mantenendo il controllo di se stesse. Non posso dire di essere scoppiato a piangere mentre guardavo il film. Semplicemente i miei condotti lacrimali hanno ceduto, e la mascherina che indossavo nel cinema dove ho visto il film alla fine era coperta di una patina salata e viscosa.

Jackson e Staples non stanno solo cantano per il pubblico del festival. Stanno piangendo tutti i morti: leader, credenti, soldati e civili. Il loro, per chi è disposto a vederla in questo modo, è un lamento per quella che è ovviamente una transizione generazionale da una fase dell’espressione politica nera a un’altra, dalla risolutezza alla rabbia, dalla grandiloquenza del mucchio di capelli di Jackson alla capigliatura afro più smussata di Staples. Cantano questo amato classico del lutto per piangere il presente e il passato.

Ascoltandole oggi, nell’estate del 2021, mentre scandagliano la terra e raschiano il cielo, si piange, non solo per la cruda bellezza delle loro voci ma perché sembra che questi due strumenti di dio stiano anche piangendo il futuro.

Immagini, musica, notizie, ricordi e commenti arrivano insieme. Ma grazie a Thompson non sono rumore e disordine. Il caos è un’idea

Non ricordo quanto duri questa esibizione. In realtà non ha nemmeno una fine, di per sé. Semplicemente si conclude, con entrambe le donne che tornano dal reverendo Jackson e si fondono nuovamente nel complesso. Ma quando è finita non sai bene cosa fare. A parte, naturalmente, non dimenticarla mai più. È un evento straordinario non solo della storia della musica. È un momento sconvolgente della storia degli Stati Uniti. Fa pensare che, per cinquant’anni, il filmato si sia nascosto in uno scantinato in attesa che qualcuno come Thompson gli desse il destino che meritava.

L’intero film è un omaggio. È vero che nulla eguaglia i vertici toccati da Mahalia Jackson e Mavis Staples. Eppure nulla di ciò che le circonda risulta esile o secondario. Thompson ha mostrato a molte persone i filmati del festival: partecipanti che erano bambini e altri che all’epoca erano adolescenti, artisti che erano lì, o gente come Sheila E., che ha imparato la sua arte da alcuni di questi grandi maestri. E sono rimasto quasi altrettanto sconvolto vedendo Marilyn McCoo che si mette le mani in faccia mentre guarda se stessa più giovane, insieme agli altri membri dei Fifth Dimension, e ricorda quanto si sentissero sospesi tra due dimensioni, essendo degli artisti neri che alcuni neri non consideravano abbastanza neri. Il loro suono era leggero e rotondo e si basava su archi e armonie, che erano commerciali per il 1969 ma non cool. In questo film, tra Nina Simone, Hugh Masekela e Max Roach, i Fifth Dimension non sembrano affatto degli outsider. Sembrano una famiglia.

In tutto il film, Thompson dissemina informazioni e materiale di montaggio che aggiunge ulteriori informazioni. Un passaggio sul clima che si respirava nel paese nel 1969, per esempio, si mescola all’esibizione dei Chambers Brothers al festival. E tu rimani seduto lì, sbalordito per il modo in cui il film non ti ha tradito. Ha un suo ritmo. Le immagini, la musica, le notizie, i ricordi, i commenti ti arrivano spesso insieme. Con un altro regista ti rimarrebbero solo rumore e disordine. È certamente in questo aspetto che risulta importante il fatto che Thompson sia il leader di una band, un batterista che guida una band e anche un dj. La carica è organizzata in modo particolare. Il caos è un’idea vera e propria.

Tempo e musica

Da un lato, si tratta semplicemente di cinema. Dall’altro, c’è qualcosa di speciale nel modo in cui il montaggio tiene il tempo con la musica, nel modo in cui i discorsi migliorano ciò che è in scena invece di relegarlo in secondo piano. In molti di questi passaggi, gli eventi, i balli, le battute e i momenti comici si sovrappongono l’uno all’altro ma restano in equilibrio. Quindi è cinema. Ma anche qualcosa di più raro: una sincope, una dissonanza.

Il festival si svolse la stessa estate in cui Neil Armstrong e Buzz Aldrin hanno camminato sulla Luna. Il film rende abilmente conto della dissonanza tra i due eventi. È la risposta al breve, interessante passaggio di _First man. Il primo uomo _di Damien Chazelle che intercala lo sbarco con _Whitey on the Moon _di Gil Scott-Heron. I due film, uno vicino all’altro, costituiscono una doppia proiezione cinematografica dello stesso momento di progresso nella storia statunitense, a terra e nello spazio. Naturalmente è difficile non uscire da questo film con la piena consapevolezza che, a quel punto, nel 1969, con il paese sconvolto dalla guerra, dal razzismo e da Richard Nixon, la potenza di quegli artisti riuniti a New York in quel momento faceva di Harlem un luogo diversissimo rispetto al resto degli Stati Uniti.

Ma il senso politico del film non è così triste. Thompson chiude Summer of soul _con Sly & the Family Stone che suonano _Higher. Una band maschile e femminile, nera e bianca. Strana, gommosa, estatica, ma compatta. Non proveniva da nessuna tradizione, ma ne inventava una nuova. È passato più di mezzo secolo, e ancora non so da dove saltassero fuori. Sembrano semplicemente inviati da un futuro statunitense che nessuno deve piangere. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati