Chi sono io? Tutti ci facciamo questa domanda. La mia identità è determinata dal dna o è il prodotto dell’educazione? Posso cambiare? E, se sì, fino a che punto? La mia identità è una sola o posso averne più di una? La filosofia è da sempre alle prese con questi interrogativi, che giocano un ruolo importante nelle scelte che facciamo e nel modo in cui interagiamo con il mondo circostante. Socrate pensava che capire chi siamo fosse essenziale per sapere come vivere bene con noi stessi e con gli altri. L’autodeterminazione dipende dalla conoscenza di sé, degli altri e del mondo che ci circonda. Ci sono perfino forme di governo che si fondano sull’idea che abbiamo di noi e della natura umana. Insomma, l’interrogativo “chi sono io?” ha vaste implicazioni.
Molti filosofi, almeno in occidente, hanno cercato di individuare le condizioni invariabili, o essenziali, per definire l’io. È molto diffusa la teoria dell’identità personale basata sulla continuità psicologica, in base alla quale l’io è una coscienza dotata di autoconsapevolezza e di ricordi personali. In alcuni casi queste impostazioni concepiscono l’io come una combinazione di mente e corpo – lo fa Cartesio – oppure principalmente o esclusivamente come coscienza.
L’esperimento mentale del principe e del povero proposto da John Locke, in cui la coscienza e tutti i ricordi di un principe sono trasferiti nel corpo di un ciabattino, illustra bene la tesi secondo cui l’identità personale dipende dall’avere una coscienza. In seguito diversi filosofi idearono altri esperimenti mentali (trasferimenti di personalità, divisione del cervello, teletrasporto) per indagare meglio la teoria psicologica.
Invece i filosofi contemporanei sostenitori dell’animalismo, inteso come dottrina filosofica secondo cui le persone umane sono identiche ad altri organismi, criticano la teoria psicologica e sostengono che l’io è essenzialmente un organismo biologico umano. Forse anche Aristotele condivideva questa visione, più che quella puramente psicologica. Ma sia la teoria psicologica sia quella animalista sono teorie-contenitore, secondo cui il corpo è un contenitore di funzioni psicologiche o corporali.
Tutte queste teorie rispecchiano l’interesse dei filosofi a comprendere quale sia la caratteristica distintiva dell’io o quella che lo definisce: qual è la cosa che caratterizza una persona e nessun’altra e che la identifica come io indipendentemente dalle differenze. In base alla concezione psicologica, l’io è una coscienza personale. In base a quella animalista, l’io è un organismo umano o animale. Tendenzialmente, questo ha condotto a una visione un po’ unidimensionale e semplificata di cos’è l’io, escludendo certi tratti sociali, culturali e interpersonali distintivi che spesso consideriamo centrali per la nostra identità. I soggetti hanno ricordi e autoconsapevolezza personali diversi, e allo stesso modo possono avere relazioni sociali e interpersonali, retroterra culturali e personalità diverse. Queste ultime sono variabili nella loro specificità, ma non sono meno importanti, nel definire l’identità, della biologia, della memoria e dell’autoconsapevolezza.
Alcuni pensatori che riconoscono l’influenza di questi fattori hanno respinto le teorie così riduttive, sostenendo una visione che riconosce la complessità e la multidimensionalità delle persone. Da questo filone di pensiero emerge la teoria del sé come rete, apparsa verso la fine del novecento e proseguita nel nuovo millennio, quando i filosofi hanno cominciato a spostarsi verso un’interpretazione più estesa dell’io. Alcuni pensatori propongono teorie del sé narrative e antropologiche. Filosofi e filosofe della comunità e del femminismo sostengono visioni relazionali, che riconoscono il radicamento (embeddedness) sociale, la relazionalità e l’intersezionalità del sé. Secondo le teorie relazionali, le relazioni e le identità sociali sono decisive per comprendere chi sono le persone.

Comunità e categorie
Le identità sociali sono tratti del sé in virtù dell’appartenenza a comunità (locale, professionale, etnica, religiosa, politica), in virtù di categorie sociali (come etnia, genere, classe, appartenenza politica) o di relazioni interpersonali (coniuge, fratello o sorella, genitore, amico, vicino). Queste concezioni implicano che il sé è definito non solo dall’incarnazione né solo dalla memoria o dalla coscienza delle relazioni sociali, ma dalle relazioni stesse. Quella che certi filosofi dei paesi anglofoni chiamano teoria della cognizione “delle 4 E” – embodied, embedded, enactive ed extended, cioè cognizione incarnata, incorporata, enattiva ed estesa – costituisce anche un passo verso una concezione del sé più relazionale e meno “contenitore”. Le teorie relazionali rappresentano un cambio di paradigma da un approccio riduttivo a un approccio che cerca di riconoscere la complessità dell’identità. La teoria del sé come rete sviluppa ulteriormente questo filone di pensiero e dice che il sé è relazionale in tutto e per tutto, in quanto consiste non solo di relazioni sociali, ma anche di relazioni fisiche, genetiche, psicologiche, emotive e biologiche, le quali insieme formano un sé-rete. Il sé inoltre si modifica nel tempo, pur continuando a essere quel dato sé, perché di volta in volta acquisisce e perde certe caratteristiche in virtù di nuovi luoghi e relazioni sociali.
Come ci definiamo noi umani? Probabilmente, avendo in noi tanti aspetti, ci opporremmo a essere ridotti o stereotipati a uno solo di questi aspetti. Però potremmo comunque definirci in termini di etnia, religione, retaggio (che sono spesso in primo piano nell’identità politica). O potremmo identificarci attraverso altre relazioni e caratteristiche sociali e personali: “Io sono la sorella di Mary”. “Io sono un amante della musica”. “Io sono la tutor della tesi di Emily”. “Io sono di Chicago”. Potremmo anche usare certe caratteristiche della personalità: “Io sono estroverso”; o certi impegni: “Mi sta a cuore l’ambiente”. Potremmo identificarci per comparazione: “Sono il più alto della mia famiglia”; o in base alle nostre convinzioni e affiliazioni politiche: “Io sono indipendente”; o temporalmente: “Io sono la persona che al college stava in fondo al tuo corridoio”, “Io mi sposo l’anno prossimo”.
Alcune di queste caratteristiche sono più importanti di altre, altre sono transitorie, passeggere. Il punto è che siamo qualcosa di più complesso di ognuna delle nostre numerose identità. Quindi pensare al sé come a una rete è un modo di concettualizzare questa complessità e fluidità.
Una pluralità di tratti
Facciamo un esempio concreto. Prendiamo Lindsey: è coniuge, madre, scrittrice, anglofona, cattolica irlandese, femminista, professoressa di filosofia, automobilista, organismo psicobiologico, introversa; soffre di vertigini, è mancina, è portatrice del morbo di Huntington, vive a New York. Questo non esaurisce tutti i suoi tratti o identità: è solo una selezione. Tutti i tratti sono collegati tra loro formando una rete. Quindi Lindsey è una rete inclusiva, una pluralità di tratti collegati tra loro. Il carattere complessivo – l’integralità – di un sé è costituito dall’interrelazione unica dei suoi particolari tratti relazionali, psicobiologici, sociali, politici, culturali, linguistici e fisici.
Nella complessa interrelazione fra i tratti di Lindsey, certi appaiono raggruppati, cioè più legati ad alcuni che ad altri. Proprio come il corpo è una rete altamente complessa e organizzata di sistemi organici e molecolari, così il sé è una rete altamente organizzata. Questi tratti possono organizzarsi in cluster (insiemi) o in hub: per esempio un cluster corporeo, un cluster familiare, un cluster sociale. Per esempio, un tratto genetico (“portatrice del morbo di Huntington”) è legato a tratti biologici, familiari e sociali. Se lo stato di portatore è noto, ci sono anche relazioni psicologiche e sociali con altri portatori e con le comunità familiari e mediche. I cluster o le sottoreti non sono isolati e potrebbero raggrupparsi via via che il sé si sviluppa.
Alcuni tratti potrebbero essere più dominanti di altri. Quello di coniuge potrebbe essere molto rilevante per Lindsey, mentre quello di zia potrebbe esserlo meno. Alcuni tratti potrebbero essere più salienti in certi contesti. Nel quartiere di Lindsey essere genitore potrebbe essere più significativo che essere filosofa, mentre all’università essere filosofa è più importante.
Lindsey può avere un’esperienza olistica della sua multiforme e interconnessa identità di rete. A volte, però, la sua esperienza potrebbe essere frammentata, per esempio quando qualcun altro interpreta una delle sue identità come se la definisse tutta. Supponiamo che, in un contesto lavorativo, non ottenga una promozione, percepisca uno stipendio più basso o per via del suo genere non sia presa in considerazione per un incarico. La discriminazione avviene quando un’identità – come l’appartenenza etnica o il genere – diventa il modo in cui la persona è identificata dagli altri e potrebbe quindi viversi come sminuita o ridotta a oggetto. La discriminazione è quindi la salienza inappropriata, arbitraria o ingiusta di un certo tratto in un dato contesto.
Lindsey potrebbe avvertire un conflitto o una tensione tra le sue identità. Potrebbe non voler essere ridotta a una sola di queste. Potrebbe sentire il bisogno di dissimulare, rimuovere o nascondere qualche identità e con questa anche i sentimenti e le credenze che le sono associate. Potrebbe sentire che alcune identità non sono essenziali ai fini di chi è veramente. Ma anche se alcune sono meno importanti di altre e alcune sono fortemente rilevanti ai fini di chi è e di come si identifica, tutte restano i tanti modi interconnessi in cui Lindsey è.

E che dire della mutevolezza e fluidità del sé? E delle altre fasi della vita di Lindsey? La Lindsey di cinque anni non è coniuge né madre; le future fasi di Lindsey potrebbero includere anche tratti e relazioni diverse: potrebbe divorziare o cambiare lavoro o subire una trasformazione dell’identità di genere. Anche il sé-rete, quindi, è un processo.
Dapprima può sembrare strano pensarsi come un processo. Si potrebbe credere che un processo non sia che una serie di eventi, mentre il sé è qualcosa di più sostanziale. Una persona potrebbe pensarsi come entità distinta dalle sue relazioni, ritenere che il cambiamento sia qualcosa che succede a un nucleo immutabile che la definisce. E se così fosse, non sarebbe l’unica: c’è una lunga tradizione di pensiero filosofico, risalente ad Aristotele, che teorizza una distinzione tra la sostanza e le sue proprietà, tra la sostanza e le relazioni, e tra le entità e gli eventi.
Tuttavia, l’idea che il sé sia una rete e un processo è più plausibile di quanto sembri. Le sostanze paradigmatiche, come il corpo, sono sistemi di reti in costante mutamento anche quando non lo vediamo a livello macroscopico: nuove cellule sostituiscono le vecchie, i capelli e le unghie crescono, gli alimenti sono digeriti, i processi cellulari e molecolari sono in atto finché il corpo è vivo. La coscienza è in costante mutamento. Disposizioni o atteggiamenti psicologici possono essere soggetti a variazioni del modo di esprimersi o di verificarsi. Non sono fissi e invariabili neanche quando sono aspetti in qualche modo stabili del sé. I tratti sociali si evolvono. Per esempio, la Lindsey figlia cresce e cambia. La Lindsey madre non è solo legata ai suoi tratti attuali, ma anche al suo passato, a come ha vissuto l’essere figlia lei stessa. Il suo attuale modo di essere è stato plasmato da molte esperienze e relazioni passate.
Per giunta, nuove convinzioni e atteggiamenti possono essere acquisiti e quelli vecchi rivisti. E c’è anche una costanza, perché i tratti non cambiano tutti allo stesso ritmo, e alcuni forse non cambiano affatto. Ma la diffusione temporale, per così dire, del sé significa che il modo di essere complessivo di una persona in qualsiasi momento non è che il risultato cumulativo di quello che è stata e di come si sta proiettando in avanti.
Invece di una sostanza sottostante immutabile, che acquisisce e perde proprietà, nel nostro cambio di paradigma il sé è visto come un processo, come una rete cumulativa dall’integralità mutevole. Una rete cumulativa ha struttura e organizzazione, come molti processi naturali, che si tratti di processi biologici, fisici o sociali. Questa costanza e questa struttura vanno pensate come stadi del sé che si sovrappongono o s’intersecano l’uno all’altro.
La discriminazione è la rilevanza inappropriata, arbitraria o ingiusta attribuita a una nostra identità in un dato contesto
Per Lindsey essere sorella parte dalla Lindsey di sei anni e si ferma alla morte del fratello; essere coniuge parte dalla Lindsey di trent’anni e si ferma quando il matrimonio finisce. Inoltre, anche se il fratello muore o il suo stesso matrimonio si disfa, il fratello e il coniuge resterebbero comunque tratti della storia di Lindsey, storia che le appartiene e che modella la struttura della rete cumulativa.
Se il sé è la sua storia, significa che non può cambiare molto? Che dire di chi vuole liberarsi del suo passato o sfuggire al presente? Una persona che emigra o scappa dalla famiglia e dagli amici per cominciare una nuova vita o subisce una trasformazione radicale non smette di essere chi era. Le esperienze di conversione o trasformazione sono esperienze di quel sé, quello che si sta convertendo o trasformando o che sta emigrando. Analogamente, immaginate l’esperienza del rimpianto o della rinuncia. Hai fatto qualcosa di cui ora ti penti, che non faresti mai più, che senti che era un’espressione del te stesso di quando eri molto diverso da quello che sei ora. Tuttavia, il rimpianto ha senso solo se sei tu la persona che in passato ha agito in quel determinato modo. Quando ti penti, rinunci e chiedi scusa, riconosci il tuo sé cambiato come un sé in continuità con il sé passato autore dell’atto. Ancoraggio e trasformazione, continuità e liberazione, identità e cambiamento: la rete cumulativa è sia-sia, non o-o.
Mancata corrispondenza
La trasformazione può capitare a un sé o essere scelta. Può essere positiva o negativa. Può essere liberatoria o sminuente. Prendiamo una trasformazione scelta. Lindsey subisce una trasformazione di genere e diventa Paul. Paul non cessa di essere stato Lindsey, il soggetto che ha vissuto una mancata corrispondenza tra il genere assegnato e l’identità in cui si riconosce. Questo anche nel caso che Paul preferisse che la sua storia come Lindsey fosse una dimensione privata del suo sé. La rete cumulativa che ora è nota come Paul conserva ancora molti tratti biologici, genetici, familiari, sociali, psicologici, della sua precedente configurazione come Lindsey, ed è modellata dalla storia di essere stata Lindsey. Oppure, prendiamo il caso di un immigrato: non cessa di essere la persona la cui storia include l’essere stato residente e cittadino di un altro paese.
Il sé-rete è mutevole ma continuo, perché ogni volta passa a una nuova fase del sé. Alcuni tratti diventano rilevanti in nuovi modi. Alcuni potrebbero smettere di essere rilevanti nel presente anche se restano parte della storia dell’individuo. Non c’è un percorso prescritto per il sé: è una rete cumulativa, perché la sua storia persiste, anche se ci sono molti aspetti del suo passato che rinnega andando avanti, o anche se cambia il modo in cui la sua storia è rilevante. Riconoscere che il sé è una rete cumulativa ci permette di spiegare perché la trasformazione radicale è la trasformazione di un sé, non un sé diverso. Ora immaginate una trasformazione che non è scelta ma che succede a qualcuno: per esempio, a un genitore con il morbo di Alzheimer. Continua a essere genitore, cittadino, coniuge, ex professore. Continua a essere la sua storia; a essere quella persona che subisce un cambiamento debilitante. Lo stesso vale per la persona che vive un drammatico cambiamento fisico: per esempio l’attore Christopher Reeve, reso tetraplegico da un incidente, o il fisico Stephen Hawking, le cui capacità erano gravemente compromesse da una malattia neuromotoria, la sclerosi laterale amiotrofica. Ognuno dei due ha continuato a essere genitore, cittadino, coniuge, attore o scienziato, ex atleta. Il genitore con demenza subisce una perdita di memoria e di capacità psicologiche e cognitive, quindi una diminuzione di un sottoinsieme della sua rete. La persona tetraplegica subisce la perdita delle capacità motorie, quindi una menomazione fisica.
Nessuno di noi è completamente trasparente a se stesso. Non è certo un’idea nuova: anche Platone riconobbe che ci sono desideri inconsci
Ognuna di queste condizioni conduce indubbiamente a un’alterazione dei tratti sociali e chi ne soffre, per sostenersi come individuo, dipende molto dal sostegno degli altri.
Un racconto struggente
A volte si dice che la persona con demenza che non conosce più se stessa o gli altri non è veramente la stessa persona che era, o forse non è neanche una persona. Questo denota un’adesione alla teoria psicologica, secondo cui le persone sono essenzialmente coscienza. Ma vedere il sé come rete richiede una concezione diversa. L’integrità del sé è più estesa della memoria personale e della coscienza. Un sé menomato potrebbe conservare molti dei suoi tratti, indipendentemente da come la particolare storia della persona possa essere costituita.
Rispecchia questa prospettiva Still Gloria, lo struggente racconto che una bioeticista canadese, Françoise Baylis, ha fatto dell’alzheimer di sua madre Gloria. Quando visita sua madre, Baylis aiuta a sostenere l’integrità del sé di Gloria, anche quando quest’ultima non può più farlo da sola. Ma è ancora se stessa. Questo non significa certo che la conoscenza di sé non è importante. La menomazione delle capacità di Gloria è una contrazione della sua identità, e potrebbe essere una versione di quello che succede in qualche misura al sé che invecchiando subisce un indebolimento delle sue capacità. E qui c’è una lezione per ognuno: nessuno di noi è completamente trasparente a se stesso. Non è certo un’idea nuova: anche Platone, molto prima di Freud, riconobbe che ci sono desideri inconsci e che la conoscenza di sé è una conquista ardua e transitoria. Nella nostra vita il processo di interrogazione e scoperta di sé è continuo, perché non abbiamo identità fisse e immutabili: la nostra identità è multipla, complessa e fluida.
Questo significa che neppure gli altri ci conoscono perfettamente. Quando le persone cercano di fissare l’identità di qualcuno in una caratteristica particolare, questo può determinare incomprensioni, stereotipi e discriminazioni. La nostra attuale retorica polarizzata sembra fare proprio questo, incasellare le persone in categorie anguste: bianco, nero, cristiano, musulmano, conservatore, progressista. Ma le persone sono molto più complesse e ricche. Vedere noi stessi come una rete è un modo fecondo per capire la nostra complessità. Forse potrebbe anche aiutare a scardinare gli stereotipi rigidi e riduttivi che dominano l’attuale discorso culturale e politico, e a coltivare una comunicazione più efficace. Possiamo non capire perfettamente noi stessi o gli altri, ma spesso abbiamo identità e prospettive che si sovrappongono. Piuttosto che vedere le nostre molteplici identità come se ci separassero gli uni dagli altri, dovremmo vederle come basi per la comunicazione e la comprensione, anche se parziale.
Lindsey è donna, bianca e filosofa. Condivide la sua identità di filosofa con altri filosofi (uomini, donne, bianchi, non bianchi). Allo stesso tempo potrebbe condividere l’identità di filosofa con altre filosofe le cui esperienze come filosofe sono state modellate dall’essere donne. A volte la comunicazione è più difficile di altre, per esempio quando certe identità sono rifiutate ideologicamente o vissute come talmente diverse da impedire la comunicazione. Ma le molteplici identità del sé-rete offrono una base per trovare un possibile terreno comune.
In quale altro modo il sé-rete potrebbe aiutarci? Uno dei più importanti contributi al nostro senso di benessere è la sensazione di avere il controllo sulla nostra vita, di essere autodiretti. Ci potrebbe preoccupare che la molteplicità del sé-rete significa che è determinato da altri fattori e non può determinarsi da sé. Si potrebbe pensare che la libertà e l’autodeterminazione comincino da una tabula rasa, da un sé privo di caratteristiche, relazioni sociali, preferenze o capacità che lo predeterminano. Ma un io del genere non avrebbe le risorse per autodirigersi. Un essere simile verrebbe sballottato da forze esterne, invece di realizzare le sue potenzialità e fare le sue scelte. Questa sarebbe casualità, non autodeterminazione. La teoria del sé-rete, invece di limitare la persona, considera le molteplici identità come risorse per un io che si auto-orienta attivamente e che fa scelte in autonomia. Lindsey potrebbe, per un certo periodo di tempo, dare la priorità alla carriera rispetto alla genitorialità; potrebbe accantonare il suo lavoro di filosofa per dedicarsi a tempo pieno al suo romanzo. Niente, cioè, impedisce a un sé-rete di scegliere liberamente una direzione o di imboccarne di nuove. L’autodeterminazione esprime il sé. È radicata nell’autocomprensione.
La concezione del sé-rete prevede un sé arricchito e molteplici possibilità di autodeterminazione, invece di prescrivere un modo particolare in cui gli individui dovrebbero essere. Questo non significa che un individuo non abbia responsabilità verso e per gli altri. Certe responsabilità possono essere ereditate, ma molte sono scelte: questo fa parte del tessuto del vivere con gli altri. I sé non solo sono “in rete”, cioè inseriti in reti sociali, sono reti essi stessi. Abbracciando la complessità e la fluidità dei sé, arriviamo a capire meglio chi siamo e impariamo a vivere bene con noi stessi e con gli altri. ◆ ma
Kathleen Wallace insegna filosofia alla Hofstra university di Hempstead, New York. Si occupa di etica e metafisica dell’identità personale e nel 2019 ha pubblicato il saggio The network self: relation, process, and personal identity.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1424 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati