François Bayrou, il quarto primo ministro francese in un anno, sapeva che c’erano dei guai in vista. Nel suo discorso d’insediamento a dicembre ha ammesso che il paese sarebbe andato incontro a ogni tipo di difficoltà: una montagna di debiti, conflittualità politica e una società divisa. Finora Bayrou è riuscito almeno a tenere insieme un governo. Incaricato di ridurre il deficit, che oggi è più del 6 per cento del prodotto interno lordo, nei giorni scorsi il primo ministro ha superato un ostacolo importante. Dopo lunghe discussioni, ha ottenuto il sostegno del litigioso parlamento francese per approvare la legge di bilancio, sopravvivendo al voto di sfiducia. La sensazione di sollievo nel governo è palpabile.
Bayrou, però, fa bene a parlare di difficoltà. In Francia il malessere è ovunque: in un recente sondaggio l’87 per cento degli intervistati ha affermato che il paese è in declino. Spesso queste persone parlano di guerra culturale, un’idea amplificata dai recenti conflitti nei territori francesi d’oltremare. Alimentata dal successo di mezzi di informazione conservatori in stile Fox News, la triade insicurezza-immigrazione-islam sta alimentando i crescenti appelli alla difesa dell’identità francese assediata. Perfino il centrista Bayrou parla della sensazione di sentirsi “sommersi”.
Il tanto decantato modello sociale che combinava investimenti, tutele sociali e diritti dei lavoratori sta colando a picco
Questo malessere si deve anche a questioni economiche, dall’aumento dei prezzi dell’energia agli scarsi investimenti pubblici, fino alla crisi delle principali industrie. Ma ha una causa più profonda: il declino della fiducia dei cittadini nello stato. Il tanto decantato modello sociale francese nato nel dopoguerra, che combinava investimenti statali, tutele sociali e diritti dei lavoratori, sta colando a picco. Il suo lento naufragio ha gettato la Francia in una voragine da cui non c’è una via d’uscita facile e ha offerto un’opportunità all’estrema destra.
È stato un processo lungo. Durante la pandemia è cresciuta l’ammirazione per medici e infermieri, ma secondo i sondaggi la maggior parte dei francesi è convinta che i servizi pubblici, in particolare gli ospedali, funzionino male. Le istituzioni considerate più affidabili sono le piccole e medie imprese, l’esercito e la polizia. Tra servizi malandati e infrastrutture vittime d’investimenti insufficienti – per non parlare del mondo politico disfunzionale di Parigi – forse è facile capire il perché di questa situazione.
La colpa non va data solo al presidente Emmanuel Macron. Per decenni sia i governi di centrosinistra sia quelli di centrodestra hanno permesso il declino del modello sociale francese. La privatizzazione e la pressione sui servizi per una maggiore efficienza economica hanno creato dei deserti nell’offerta educativa e sanitaria, anche se i politici danno la colpa del sovraccarico dei servizi esistenti agli scansafatiche. E c’è chi chiede l’abolizione della settimana lavorativa di 35 ore, già una chimera per molti, soprattutto nel settore privato.
Alcuni leader hanno giustificato questo processo parlando di meritocrazia. Per dirla con le parole dell’ex presidente Nicolas Sarkozy, le persone dovrebbero “lavorare di più per guadagnare di più”. Tuttavia, anche se la maggior parte dei francesi è convinta che il lavoro debba essere ricompensato, la scarsa crescita degli stipendi e l’allungamento della vita lavorativa hanno reso irrealizzabile questa aspirazione. La promessa frustrata di meritocrazia alimenta altre recriminazioni, dall’ostilità verso gli immigrati alle proteste per la tassa sui carburanti.
Forse il paese non va verso il disastro. Nonostante tutto è lontano da una crisi del debito sovrano come quella greca è successo il 6 gennaio a Washington bisogna ricordare un’altra terribile giornata: l’11 settembre
Ed è qui che entra in gioco il partito di estrema destra Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen. Il voto al Rassemblement national spesso è descritto come una protesta degli operai trascurati e impoveriti, ma è molto di più. Mentre tra le persone con i redditi più bassi la sinistra resta in vantaggio, negli ultimi anni il supporto elettorale dell’Rn ha messo radici profonde tra le classi medie. Marine Le Pen ha ereditato la leadership da un padre multimilionario e il partito non sarebbe il difensore ideale della meritocrazia. Eppure la promessa di ridare valore all’impegno individuale oggi è il suo cavallo di battaglia. Le Pen è spesso descritta come una paladina del vecchio modello sociale francese, ed è vero che il suo partito si è opposto all’innalzamento dell’età pensionabile di Macron. Ma la sua posizione sul welfare in generale è più ambigua, come dimostra la preferenza per un sistema pensionistico più subordinato alla contribuzione del singolo lavoratore dipendente. Il partito convoglia l’insoddisfazione di molti lavoratori a fine carriera costretti a lavorare più a lungo, questo è vero, ma anche quella di elettori più giovani e scettici all’idea di dover contribuire a un sistema di cui potrebbero non beneficiare mai. Secondo la stessa logica di equilibrio, il Rassemblement national si oppone ai tagli di bilancio, schierandosi contro gli aumenti delle tasse per i consumatori e le famiglie.
Il marchio di fabbrica del partito consiste nell’identificare le minoranze etniche, gli immigrati e i poveri come un fardello che toglie risorse alle casse dello stato. I sostenitori di Le Pen hanno paura di questi gruppi demografici, ma curiosamente sono contrari a un ampliamento delle protezioni sociali, anche per le persone bianche. Anzi, aspirano sempre di più all’autosufficienza economica e alla casa di proprietà. Non si tratta tanto di una nostalgia romantica per l’epoca d’oro del dopoguerra, quanto di un’espressione dell’autonomia individuale tipica del ventunesimo secolo. Si pretende un duro richiamo all’ordine, ma sempre per qualcun altro.
L’ascesa di Le Pen invita di per sé al pessimismo. I sondaggi per le elezioni presidenziali del 2027 la danno intorno al 35 per cento. Considerato il sistema politico frammentato della Francia, è sulla buona strada per ottenere la più alta percentuale di un candidato al primo turno negli ultimi cinquant’anni. Alle elezioni parlamentari della scorsa estate, il cosiddetto fronte repubblicano formato dagli elettori di sinistra e di centro ha impedito la vittoria del Rassemblement national. Tuttavia gli allarmi sul pericolo dell’estrema destra funzionano sempre meno.
Forse la Francia non sta andando verso il disastro. Nonostante tutte le sue ansie, resta lontana da una crisi del debito sovrano come quella vissuta dalla Grecia. Anche se l’indebitamento è aumentato, il paese negli ultimi venticinque anni ha sistematicamente violato i limiti dell’Unione europea sul deficit senza rischiare il tracollo economico. La produttività e i redditi dei lavoratori sono decisamente migliori di quelli della vicina Italia. La mobilità sociale non è particolarmente alta, ma le disparità salariali si sono ridotte negli ultimi decenni. Anche il trionfo di Le Pen è tutt’altro che sicuro: un processo per appropriazione indebita potrebbe presto impedirle di candidarsi alle elezioni.
Il malessere della Francia, però, non è semplicemente il prodotto di un’eccessiva tendenza a lamentarsi o di una serie di errori politici, come la scelta avventata di Macron di convocare le elezioni anticipate la scorsa estate. Il Rassemblement national sta sfruttando una disaffezione più profonda verso la sfera pubblica, mentre gli elementi residui del contratto sociale nato nel dopoguerra si scontrano con un crescente orientamento favorevole alle privatizzazioni. In alcune regioni i sindacati e i movimenti stanno difendendo lo stato sociale e i diritti dei lavoratori. Ma non è chiaro se i partiti di sinistra, che oggi hanno dalla loro parte un terzo dell’elettorato, saranno in grado di ricostruire un consenso intorno a un modello collettivista.
Questo non è l’unico progetto incerto. All’inizio della sua presidenza Macron ha promesso di mobilitare sia la destra sia la sinistra su un programma moderno e liberale. Ma ha perso consenso dopo che ha approvato i tagli alle protezioni sociali senza avere sostegno sufficiente da parte dell’opinione pubblica e dopo che ha concesso agevolazioni fiscali ai ricchi senza ridurre il debito pubblico. La sua presidenza ha fatto perno su quello che alcuni hanno definito un blocco borghese, accattivante per una fetta degli elettori più benestanti, ma incapace di offrire molto alla maggioranza del paese. Il fatto che questa strategia si sia esaurita, e la frammentazione politica che ha causato, potrebbero portare a elezioni anticipate già la prossima estate.
Jean-Marie Le Pen, il patriarca dell’estrema destra francese, è morto il 7 gennaio. Ma mentre il suo cadavere giace sottoterra, parafrasando Victor Hugo, le sue idee sono ancora in piedi. La Francia è in un vicolo cieco. E il tempo per impedire agli eredi di Le Pen di prendere il sopravvento sta per esaurirsi. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati