Cultura Suoni
Microtonic
Bdrmm (Stew Baxter)

Il nuovo album dei Bdrmm rappresenta innanzitutto il superamento delle loro inclinazioni shoegaze, creando a partire da sperimentazioni elettroniche un paesaggio caleidoscopico in cui convergono riflessioni sul vivere dentro una distopia. Il primo pezzo, goit, è rinforzato dalla partecipazione dei Working Men’s Club e parla di questa epoca ansiosa, puntando su una melodia paranoica. La disillusione è il tema che attraversa Microtonic come un ronzio oscuro. Con toni esausti, The noose conclude questa odissea nella mancanza di speranza, nella dissociazione e di conseguenza nell’impotenza. Con questo disco il quartetto britannico non rinuncia al suono che avevamo conosciuto in precedenza, ma ne tira fuori gli elementi forti attraverso una lente elettronica. Non è solo la colonna sonora giusta per ballare aspettando la fine del mondo, ma anche un momento rivelatorio delle grandi potenzialità di questi musicisti.
Kayla Sandiford, Clash

Mayhem
Lady Gaga (Frank Lebon)

Il settimo album in studio di Lady Gaga è stato, secondo la stessa cantante, fortemente influenzato dalla musica dance industrial, suggerendo un ritorno allo stile di The fame monster e Born this way. Il singolo di lancio, Disease, mantiene quella promessa, con un ritmo meccanico e una linea di basso pulsante, perfetta per sostenere la performance esplosiva di Gaga. Oltre a questo pezzo e al successivo Abracadabra, però, Mayhem si sposta quasi interamente sul synth-pop anni 0ttanta, specialmente nella sua parte centrale. Dal groove di Killah, dal sapore bowiano, a Zombieboy, un omaggio al modello canadese Rick Genest (apparso nel video di Born this way), il disco sembra tradire le aspettative. Brani come Garden of Eden, prodotto insieme a Gesaffelstein, cercano di resuscitare l’attitudine da party-girl che aveva lanciato Gaga ai tempi di The fame, ma con risultati incerti. Perfect celebrity affronta il tema della disumanizzazione delle pop star, un argomento interessante che però risulta banale per un’artista che ha costruito la sua carriera sulla celebrazione della fama. Va meglio con How bad do u want me, che sfiora la perfezione esplorando il conflitto tra il pubblico e il privato. Allo stesso modo The beast rievoca Taylor Dayne e Michael Jackson, ma senza mordente, mentre Blade of grass aspira alla potenza di una ballata epica, fallendo dove invece riesce il duetto con Bruno Mars, Die with a smile. Mayhem non è un disastro, ma ha un solo, grande peccato: è noioso.
Alexa Camp, Slant

John Zorn: integrale dei quartetti per archi

La carriera di John Zorn come sassofonista, polistrumentista, bandleader e performer con gruppi di jazz free form e improvvisazione sperimentale ha allontanato l’attenzione dai suoi contributi altrettanto importanti a forme classiche più consolidate, come il quartetto d’archi: più di due ore di musica prodotta lungo tre decenni. Questo album del Jack Quartet ne è la prima registrazione integrale. Le cosiddette composizioni moment form come Cat o’ nine tails e The dead man hanno uno stile da cartone animato, dove piccoli pezzi di musica atonale d’avanguardia (si pensi a Carter, Xenakis o Messiaen) sono accostati a esplosioni altrettanto brevi di melodie per violino, minuetti o surf pop. Per eseguirle con precisione sono necessarie risposte nitide come rasoi e il Jack Quartet lo fa con un controllo assoluto. Gli esecutori sono perfetti anche nel secondo disco, dove il trattamento più evoluto e meno abrasivo dell’estetica a blocchi di Zorn si traduce in forme narrative più ampie. Che si tratti del frenetico Necronomicon o della tenerezza di Kol Nidre, il Jack Quartet naviga tra gli estremi con precisione, estro e passione. Questo è un album di riferimento e colloca saldamente i quartetti di Zorn nel canone delle opere per quartetto contemporanee.
Pwyll ap Siôn, Gramophone

Altro da questo numero
1605 - 14 marzo 2025
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