In mezzo all’erba alta e alle piante di manioca la scena sembra ancora più improbabile: un razzo arrugginito appoggiato a una struttura metallica alta almeno quattro metri. “È una delle vecchie rampe di lancio”, indica con orgoglio
Jean-Patrice Kéka, che porta un paio di pantaloni della tuta con lo stemma della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Da questo campo vicino a Menkao, a un centinaio di chilometri da Kinshasa, l’ingegner Kéka è diventato una celebrità in tutto il suo paese e su internet per il suo programma spaziale sperimentale, Troposphère (troposfera, la strato più basso dell’atmosfera terrestre, che può raggiungere un’altitudine di otto chilometri ai poli e diciotto chilometri all’equatore).

“Per tutta la vita mi sono sforzato di far capire ai congolesi l’importanza della ricerca spaziale. È un settore in crescita, che attira le persone!”, assicura lo scienziato con voce flebile, tradendo un certo disincanto. Nell’Rdc più della metà della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e ci sono decine di gruppi armati. Per questo il lavoro del prolifico inventore fatica a riscuotere interesse.

“Da piccolo passavo il tempo a costruire oggetti: alianti di rafia, trasmettitori radio fatti con i chiodi. Il primo razzo l’ho fatto partire con dei fiammiferi”, ricorda Kéka. “Quando ho cominciato l’università e ho parlato del programma spaziale ai miei professori, mi hanno risposto che nel nostro paese non si potevano fare quelle cose”. Ma nulla – né le battute di chi lo considera uno scienziato pazzo né l’enorme mancanza di risorse – sembra scoraggiarlo. Il suo sogno è diventare il primo africano a mandare un razzo nello spazio.

Abbiamo un problema

All’inizio c’è stato Troposphère 1, un metro di altezza per venti chili. Il suo lancio nel 2007 è fallito. “Non era ben isolato e l’acqua piovana è penetrata all’interno mescolandosi al carburante”, spiega l’inventore. Lo stesso anno, Troposphère 2, con una fusoliera formata da barattoli per il latte in polvere, è stato un successo: ha raggiunto un’altitudine di 1.500 metri. Nel 2008 Troposphère 4, molto più pesante dei modelli precedenti, è riuscito a viaggiare per un chilometro e mezzo nonostante i suoi 250 chili.

Jean-Patrice Kéka a Menkao, 5 novembre 2022 (Thomas Freteur)

“È stato fantastico! Avevamo chiamato un ministro del governo per schiacciare il pulsante di lancio”, ricorda Kéka. Sui video girati quel giorno, si vede il razzo scomparire nel cielo lasciando dietro di sé una scia di fumo, tra le grida e gli applausi dei presenti. Troposphère 5, invece, è stato una doccia fredda. Era più pesante, più grande, e secondo i piani doveva percorrere trentasei chilometri. Ma la camera di combustione è esplosa al momento del lancio, nel 2009, e il razzo ha deviato dalla traiettoria per andare a schiantarsi cinquecento metri più in là. L’incidente è stato immortalato dall’emittente tv France Ô. Il video ha circolato parecchio su internet ed è costato a Kéka molti commenti ironici e razzisti. “La scienza è anche questo: successi e fallimenti”, ammette l’ingegnere con filosofia.

I resti di questi prototipi si trovano ancora a Menkao, ammassati in una baracca di lamiera su un terreno di 123 ettari che l’ingegnere ha comprato per la sua impresa, la Développement tous azimuts (abbreviata con il nome di DTAzimuts, che in italiano si può tradurre con “sviluppo a 360 gradi”). Finora nessuno dei razzi ha raggiunto la troposfera, l’obiettivo che Kéka si era prefissato. Tuttavia lui e la sua squadra lavorano a un progetto molto più ambizioso: un razzo lungo quindici metri, che dovrebbe raggiungere i duecento chilometri di altezza. Nel 2018 il lavoro di Kéka ha attirato l’attenzione di due documentaristi svizzeri, Christian Denisart e Daniel Wyss, che hanno raccolto venticinquemila euro per sostenere il suo progetto. Nel 2019 l’ingegnere congolese è potuto andare a Ginevra per incontrare Claude Nicollier, il primo astronauta svizzero a essere andato nello spazio.

Dopo molti rinvii, Kéka è certo che Troposphère 6 decollerà da Menkao nel febbraio 2023. Al suo interno conterrà tre diversi esperimenti, tra cui quello ideato da un microbiologo svizzero che vuole testare la capacità di alcuni batteri di sopravvivere all’ingresso nell’atmosfera terrestre. Invece le richieste dell’organizzazione animalista Peta hanno spinto l’ingegnere a rinunciare a mettere nel razzo un topo, che aveva già preparato per un viaggio spaziale. Non poteva permettersi di ripetere l’insuccesso di Troposphère 5, che aveva causato la morte di un roditore imbarcato in una navicella fatta con scatole di Ovomaltina.

A sinistra: Menkao, 6 novembre 2022. A destra: Lo studente Isaac Bahogwerhe (Thomas Freteur)

Una squadra di appassionati lavora al nuovo razzo in un laboratorio dell’Istituto professionale della Gombe, a Kinshasa. Ci sono meccanici, dipendenti dell’aeroporto e studenti. Tutti vedono in Kéka un mentore e, soprattutto, un genio capace di dare vita ai loro sogni. “Mi sprona a mettere in pratica le mie conoscenze e a prendere iniziative. Mi mostra come applicare l’informatica alla costruzione del razzo. Ora, per esempio, stiamo cercando di programmare il distacco automatico delle varie parti”, spiega Nestor Kibuka, 19 anni, studente di elettronica e informatica.

Questo ragazzo timido è originario di Bukavu, nella provincia del Sud Kivu. Con alcuni amici si è trasferito nella capitale per partecipare al progetto Troposphère. “Il nostro professore di elettronica a Bukavu ci parlava spesso dell’ingegner Kéka”, spiega Kibuka. Oggi dedica al progetto almeno due ore al giorno dopo le lezioni, in compagnia del suo amico Isaac Bahogwerhe. “Nel nostro paese la vita non è facile. I giovani non hanno fiducia nella tecnologia e nella scienza. Ma noi pensiamo che la ricerca spaziale possa essere di aiuto, per esempio, per lottare contro l’instabilità e la malnutrizione”.

Dai primi anni duemila l’Africa cerca di recuperare il ritardo accumulato nella corsa allo spazio. Una decina di paesi del continente, tra cui il Sudafrica, l’Egitto, la Nigeria e il Marocco, hanno lanciato i loro satelliti nello spazio per sfruttare le possibilità che offrono nella cartografia, nelle telecomunicazioni e nell’osservazione del territorio. I satelliti permettono d’individuare terreni coltivabili, di sorvegliare le frontiere o i movimenti dei gruppi armati, di ottenere dati in caso di catastrofi naturali. Ma finora nessun paese africano ha potuto mandarli in orbita con mezzi propri, bensì usando vettori europei, statunitensi, cinesi o russi.

Da sapere
Un ritardo da recuperare

◆ Con il lancio del primo satellite sovietico Soyuz nel 1957, cominciò nel mondo la cosiddetta corsa allo spazio. Ma a quell’epoca, in Africa, solo il Ghana aveva ottenuto l’indipendenza, fa notare l’esperto spaziale nigeriano Etim Offiong in un’intervista al sito The Conversation. Le economie e le strutture create dai governi coloniali europei avevano tolto agli africani il controllo delle loro risorse naturali e umane, mentre nel settore dell’istruzione non si prestava alcuna attenzione alla ricerca sul nucleare, sullo spazio o sugli oceani. Offiong racconta che solo molto tempo dopo, verso la fine degli anni novanta, anche l’Africa ha fatto i primi passi nel settore aerospaziale. Nel 1998 le Nazioni Unite crearono nel continente due centri regionali per l’istruzione nelle scienze e tecnologie spaziali, uno in Marocco per i paesi francofoni e uno in Nigeria per quelli anglofoni (Offiong è l’ufficiale scientifico del centro nigeriano). Nello stesso periodo il Sudafrica stava sviluppando il satellite Sunsat, che nel 1999 fu il primo a essere lanciato da un paese africano. Da allora, altri quattordici paesi hanno fatto progressi in questo campo. Gli ultimi due a lanciare i loro satelliti sono stati, all’inizio di novembre del 2022, l’Uganda e lo Zimbabwe, che intendono sfruttarli per formulare previsioni del meteo più accurate, per monitorare i loro confini e per intervenire in caso di disastri naturali. Al momento sono 125 i progetti in corso per la fabbricazione di satelliti, in 23 diversi paesi africani. Il 9 gennaio 2023 il governo di Gibuti ha firmato un accordo preliminare con un’azienda privata di Hong Kong per costruire una base di lancio spaziale a uso commerciale nella regione settentrionale di Obock, sul mar Rosso.


Il sogno di Kéka riporta alla mente quello di un suo connazionale, il presidente Mobutu Sese Seko, che a metà degli anni settanta invitò l’azienda tedesca Otrag a sviluppare un programma spaziale a basso costo nell’allora Zaire. Mobutu voleva che il suo paese diventasse il primo in Africa a mandare in orbita un satellite. Per questo non aveva badato a spese e aveva messo a disposizione dell’Otrag un terreno di centomila chilometri quadrati, cioè grande come l’Islanda, nella provincia del Katanga. La concessione aveva una durata di cinquant’anni. Tra il 1977 e il 1978 furono fatti dei tentativi, ma l’ultimo fu un fallimento spettacolare: il razzo cambiò traiettoria dopo il decollo e si schiantò sotto gli occhi del presidente, che era presente alla cerimonia. Il programma fu rapidamente abbandonato sotto la pressione degli alleati occidentali. Trent’anni dopo, il paese non ha un’agenzia spaziale nazionale, con grande rammarico dell’ingegner Kéka e dei suoi collaboratori. “Ci arrangiamo come meglio possiamo. Ma la cosa più importante è formare i giovani per trasmettergli l’amore per la scienza. Così continueranno il lavoro quando noi non ci saremo più”, dice Jean-Jacques Diédika, un cinquantenne imponente e dallo sguardo dolce, che sostiene il progetto fin dall’inizio. “Per me è diventata una passione, non posso farne a meno. Quando abbiamo lanciato Troposphère 4, è stato meraviglioso. Ho provato un sentimento di esultanza, di gioia e di speranza. Sono sicuro che possiamo andare più lontano”, afferma Diédika. ◆ adr

Africa
In orbita
Satelliti lanciati dai paesi africani, 2022  (Fonte: Spacehubs Africa)

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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 53. Compra questo numero | Abbonati