23 ottobre 2014 15:22

Un’economia basata sul saccheggio: è questo il futuro dell’Italia? Sempre più spesso mi pongo questa domanda, facendo il confronto con l’estero.

Un confronto che fa risaltare i costi spesso arbitrari imposti in Italia ai cittadini per servizi che altrove danno il risultato opposto: fanno risparmiare.

Prendiamo il caso di una persona che voglia andare al museo e comprare il biglietto online. Al museo Pergamon di Berlino ne sono ben contenti e vendono il biglietto online a un euro in meno rispetto al prezzo alla cassa del museo.

Invece alla Galleria Borghese di Roma succede il contrario: se acquisti in rete paghi due euro in più. Nell’elenco dei prezzi sul sito c’è una vera perla. “Gratuito sotto i 18 anni: due euro”.

Lo stesso discorso vale per i giornali. In edicola la Tageszeitung costa 1,80 euro, il sabato addirittura 3,20. Per 30 giorni fanno 52 euro. Il costo di un abbonamento mensile invece è di 42 euro.

Non solo trovo il quotidiano tutte le mattine sulla porta di casa, ma risparmio pure la bellezza di dieci euro. A Roma succede l’opposto.

Posso farmi arrivare la Repubblica o Il Messaggero a casa, ma l’azienda che gestisce il servizio fattura non solo il prezzo intero, ma anche 3,50 mensili per la fatica.

Come se non bastasse, da settembre addebitano altri otto euro sotto la misteriosa voce “servizio smile”. Non è un servizio, e non fa sorridere. Alla fine il giornale costa 11,50 in più al mese rispetto all’edicola.

In una banca di Berlino un bonifico costa 80 centesimi, a Roma fino a 4,50 euro. Meno male che da anni ci dicono che sarebbe meglio ridurre i pagamenti in contanti.

Per abituare anche i turisti alla logica del balzello, quasi tutte le città italiane hanno introdotto la tassa di soggiorno. A Roma sono quattro euro a persona in un albergo a tre stelle, che fa quasi 50 euro per una coppia con due figli che si ferma tre notti.

La logica è sempre la stessa: ti prendo i soldi perché posso. Una logica che si è estesa anche ai giornalisti. Dal 2014 tutti gli iscritti all’ordine sono obbligati alla “formazione professionale continua”.

Devono frequentare corsi, trovano offerte come “L’uso di Facebook e Twitter”, una conferenza con sette relatori in un’enorme sala, e devono pagare cento euro.

Chi organizza l’evento si porta a casa la bellezza di trenta o quarantamila euro per una giornata di lavoro, spesso pagati da giornalisti precari con stipendi minimi.

Questo sistema crea ulteriori rendite di posizione e non incoraggia certo le attività innovative, degne di un’economia che vuole tenere il passo del ventunesimo secolo.

Anzi, l’effetto è opposto: clienti e contribuenti sono gravati da balzelli che frenano lo sviluppo anziché stimolarlo, creano reddito per pochi a scapito di molti.

Purtroppo la logica della rendita di posizione vige anche nel settore pubblico. È difficile trovare un paese che eguagli l’Italia se esaminiamo gli stipendi delle “alte corti”.

Un giudice costituzionale italiano porta a casa quasi 500mila euro lordi all’anno, mentre un suo omologo tedesco deve accontentarsi di un terzo di quella cifra.

Potremmo continuare all’infinito, parlando di direttori generali dei ministeri, di manager, di dirigenti pubblici in tutti i settori. Certo, adesso è stato introdotto il tetto dei 240mila euro, ma i vertici della cosa pubblica italiana rimangono comunque i più ricchi d’Europa.

I gregari invece se la passano peggio. Ha fatto molto scalpore il caso del teatro dell’Opera di Roma, che ha deciso di cacciare coro e orchestra. Pochi si sono presi la briga di verificare quanto guadagnano gli artisti: la maggior parte ha uno stipendio mensile netto inferiore a duemila euro.

Il sovrintendente Carlo Fuortes lo dice chiaramente: era un patto implicito, siete pagati poco ma in compenso accettiamo che produciate poco. Adesso invece vige l’efficienza: chi è pagato poco sarà pagato ancora meno. E magari avrà pure l’obbligo della “formazione professionale continua”, a pagamento s’intende.

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