21 maggio 2018 13:30

Prima, le facce. Quella di Zula (Joanna Kulig) nella bellissima epopea storico-romantica Zimna wojna (Guerra fredda) di Paweł Pawlikowski (premio migliore regia), personaggio capace di trasformarsi in un lampo da innocente madonnina folk a seduttrice sensuale.

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La terribile tristezza negli occhi dell’eterno ottimista Marcello (Marcello Fonte, premio miglior attore) verso la fine di Dogman, forse il miglior film di Matteo Garrone, un dramma della sopraffazione, del maschilismo come malattia infettiva.

La faccia tonda, tesa, di Ayka (Samal Yeslyamova, premio migliore attrice) nel film omonimo di Sergey Dvortsevoy, una coreografia dell’emarginazione che non dà tregua, incentrato su un’immigrata del Kirghizistan alla disperata ricerca di un lavoro in una Mosca fredda e insensibile.

Gli occhi supplicanti ma anche diffidenti della piccola Juri, bambina di cinque anni adottata (per non dire rapita) da una famiglia di ladruncoli in Manbiki kazoku (Shoplifters) del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, meritato vincitore della Palma d’oro in questa 71esima edizione del festival del cinema per antonomasia.

Oppure due facce che riassumono un abisso sociale: quella un po’ introversa, insicura, sincera, di Jongsu (Yoo Ah-in), un ragazzo squattrinato che lavoricchia come fattorino; e quella sorniona, che sprizza privilegi, del ricco Ben (Steven Yeun), il suo rivale in amore nell’imperscrutabile Burning del coreano Lee Chang-dong.

Basato su un racconto di Haruki Murakami, è un film di due ore e mezza che lascia con tante domande e poche risposte. Domande che riguardano anche la natura del film: comincia, forse, come commedia romantica; finisce, forse, come giallo. Ero un po’ irritato dalla sua impenetrabilità quando sono uscito dalla sala, ma Burning continua a seguirmi, segno che lo dovrei rivedere, sempre premesso che esca da qualche parte.

Quella italiana è stata la più convincente partecipazione nazionale di quest’anno, regalando due film forti e originali

È stato un anno di transizione a Cannes, con una selezione che dimostrava la voglia di premiare la qualità dei film più del nome dell’autore–regista. C’era un solo veterano: Jean-Luc Godard, con Le livre d’image, una specie di flusso di coscienza audiovisivo, un videodiario composto dai pensieri sparsi di un dio minore che si illumina per brevi tratti ma che per lo più è ermetico, rabbioso, la versione intellettuale del monologo di un vecchio pazzo sull’autobus. Non giudico i colleghi che l’hanno amato, dico solo che la storia della videoarte, per la quale molti critici cinematografici hanno un punto cieco, è piena di riflessioni su cinema e tv di maggiore spessore – pensiamo solo a 24 hour psycho di Douglas Gordon oppure a The clock di Christian Marclay.

Lazzaro felice e Dogman
L’Italia ha battuto la Francia in concorso (non a caso, nessuno dei quattro film francesi ha visto l’ombra di un premio). Infatti, quella italiana è stata la più convincente partecipazione nazionale di quest’anno, regalando due film forti e originali.

Con Lazzaro felice, Alice Rohrwacher realizza la sua opera più compiuta, attingendo al mondo delle fiabe, a una storia insieme ideale e amara dell’Italia rurale, al tema (presente anche in Corpo celeste e Le meraviglie) delle persone che non si adattano, e fanno forse bene a non adattarsi. Cala un po’ nel finale, ma rimane uno dei film più fuori dagli schemi passati a Cannes quest’anno.

Su Dogman aggiungo solo che, come Lazzaro felice, ambientato in una Sardegna divisa tra paesaggi arcaici e città anonime, usa la location in modo maestrale.

In questo caso è il Parco del Saraceno a Pinetamare (già visto in Gomorra), frazione balneare di Castel Volturno di una bruttezza unica, il cui abusivismo percola come un veleno in una storia di abusi.

Un ritorno pigro e compiacente
Che dire poi di BlacKkKlansman di Spike Lee, sessantuno anni, vincitore del premio della giuria? Basato su una storia vera, è una commedia drammatica su un poliziotto nero di Colorado Springs – l’unico all’epoca in quel distretto – che finge di essere un razzista per infiltrarsi nel Ku Klux Klan. Lo fa, chiaramente, al telefono, mandando poi un collega bianco che indossa una microspia agli incontri faccia a faccia.

La premessa è deliziosa e ci sono degli omaggi divertenti al genere blaxploitation degli anni settanta. Ma nel suo viaggio inesorabile verso la vittoria dei buoni sui cattivi, nelle macchiette che lo popolano, il film con cui Lee torna a Cannes ventinove anni dopo Do the right thing è anche un po’ troppo pigro e compiacente.

Prende volo solo nella parte finale, che punta il dito contro lo sdoganamento del razzismo del KKK nell’America di Donald Trump, ricordando i fatti di Charlottesville dell’agosto 2017, quando un suprematista bianco lanciò la sua auto contro la folla, uccidendo una donna che stava protestando contro la marcia organizzata dalla destra razzista.

L’intenzione di Lee è mostrare che equiparando due realtà diverse – il presidente statunitense ha twittato subito dopo l’attentato “c’era violenza da tutte e due le parti” – Trump rischia di mettere a repentaglio la sconfitta del Klan raccontata nel film. Ma ha un involontario effetto collaterale, quello di far sembrare banale la commedia che l’ha preceduto, confrontata con la forza esplosiva di questa coda documentaria.

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