29 novembre 2016 13:44
François Fillon a Caen, in Francia, il 21 ottobre 2016. (Charly Triballeau, Afp)

L’elezione a sorpresa di Donald Trump negli Stati Uniti solo tre settimane fa è stata seguita sui mezzi d’informazione internazionali con analisi un po’ frettolose, secondo le quali stiamo assistendo a un’inarrestabile spinta populista, che continuerà anche in Francia nel 2017. Così i telespettatori della Bbc britannica o della rete statunitense Cnbc hanno potuto scoprire che Marine Le Pen è ormai la prossima sulla lista dopo la Brexit e Trump.

Ma la scelta, anche in questo caso inaspettata, di François Fillon come candidato dei Républicains francesi alle primarie della destra ha smentito questo scenario troppo semplicistico. Nonostante il loro comune conservatorismo, Fillon non è il Trump francese, anzi per certi aspetti ne è l’antitesi: si tratta di un politico tradizionale che ha preso il controllo del principale partito di destra e non di un Ufo arrivato dall’esterno, anche se talvolta ha strumentalizzato la moda populista “antiélite”.

Dotandosi di un nuovo capo indiscusso, il principale partito della destra francese mostra che il sistema politico, confrontato con la disaffezione dei cittadini e con la sfida populista, non ha ancora detto l’ultima parola. A tal punto che Fillon è diventato in pochissimo tempo il favorito delle elezioni presidenziali francesi del 2017 contro una sinistra riformista divisa e stanca, una sinistra radicale minoritaria e un’estrema destra che, nonostante i buoni risultati elettorali, rischia ancora una volta di dover fare i conti con quel “soffitto di vetro” che le impedisce di vincere.

Di fatto anche se c’è senza dubbio un elemento comune che spinge alla “rivolta” i cittadini dei paesi ex industriali, esistono delle storie politiche nazionali, delle motivazioni diverse a seconda dei paesi, che impediscono a fattori comuni di produrre gli stessi effetti. Questi elementi comuni sono le crescenti disuguaglianze sociali provocate da una globalizzazione sfrenata, il sentimento di sfiducia di una parte dei cittadini nei confronti degli stati in difficoltà, l’immensa frustrazione verso un sistema politico che gira a vuoto e di “élite fuori della realtà”.

In Europa orientale i conservatori radicali trattano Bruxelles come una nuova Mosca, erigono barriere contro lo straniero e riscrivono la storia

Questi fattori in un contesto internazionale minaccioso hanno provocato un po’ ovunque in Europa delle evoluzioni politiche che modificano i rapporti di forza. Così si è visto emergere in Europa centrale e orientale un “fronte del rifiuto” autoritario e revisionista, incarnato inizialmente dall’ungherese Viktor Orbán e poi dalla Polonia di Jarosław Kaczyński , l’uomo forte di Varsavia. Sostenitori di una democrazia “illiberale” basata sull’eliminazione dei contropoteri, questi conservatori radicali trattano Bruxelles come una nuova Mosca, erigono barriere contro lo straniero e riscrivono la storia. Altrove, nei paesi scandinavi (compresa la Norvegia che non fa parte dell’Ue), nei Paesi Bassi, in Austria, in Italia e in Francia sono i partiti populisti o di estrema destra che sovvertono il sistema politico tradizionale e sono alle porte del potere o ne fanno già parte.

Anche la Germania, che sembrava immune da questi tentativi, si è a sua volta confrontata con l’affermazione di un partito di estrema destra, l’Alternativa per la Germania (Afd), che in modo simile al Front national (Fn) francese denuncia i due grandi partiti di coalizione, la Cdu di Angela Merkel e l’Spd socialdemocratico, entrambi responsabili di una situazione che peraltro potrebbe essere invidiabile per molti altri europei.

Queste forze si basano sulla paura dello straniero, su un riflesso nazionalista contro una costruzione europea burocratica e troppo lontana e sempre di più – come nel caso dell’Fn in Francia – su un approccio sociale rivolto agli esclusi dalla globalizzazione che riprende certi discorsi della sinistra.

La sinistra può scegliere se rimanere fedele a se stessa, condannandosi però all’opposizione, o perdere la propria anima e le prossime elezioni

Di fatto è proprio quest’ultima la grande assente dalla ricomposizione politica del continente europeo, la sinistra in tutte le sue componenti. Basta vedere lo stato dei grandi partiti della sinistra riformista nell’Europa occidentale per constatare la portata del problema: debole o diviso come il Partito socialista francese, spezzettato come il Pasok greco, indebolito e sottoposto a una dura concorrenza da parte della sinistra radicale nel caso del Psoe spagnolo, eliminato dal secondo turno delle elezioni presidenziali in un paese di tradizioni socialdemocratiche come l’Austria. Anche in Germania l’Spd in coalizione con la Cdu di Angela Merkel si batte per riconquistare il suo ruolo di partito dominante.

Ovunque la sinistra riformista, socialdemocratica, è sulla difensiva, dopo aver regnato negli anni novanta e all’inizio degli anni 2000 con Tony Blair (1997-2007), Gerhard Schroeder (1998-2005), Felipe González (1982-1996), Lionel Jospin (1997-2002) e alcuni altri, che ne incarnavano le diverse sensibilità.

Questa sinistra è andata a sbattere contro il muro della gestione di economie globalizzate incapaci di offrire una visione alternativa a società divise dalle disuguaglianze sociali, dal declino dello stato sociale, dalle sfide dei cambiamenti tecnologici e climatici. Il quinquennio quasi finito di François Hollande è stato il riflesso, fino al grottesco, di questa situazione, suscitando disorientamento, divisione e infine disinteresse tra i suoi stessi militanti e nell’opinione pubblica. In diversi paesi europei la sinistra riformista deve fare i conti con una forza più radicale – Die Linke in Germania, Podemos in Spagna, Syriza in Grecia e il Partito di sinistra di Jean-Luc Mélenchon in Francia – che finora non è stata in grado di imporsi. In Grecia il partito di Alexis Tsipras ha travolto il Pasok per poi adottare a sua volta una politica di compromesso.

Il caso del Regno Unito è significativo: con Jeremy Corbin è uno dei pochi casi in cui la vecchia formazione socialdemocratica è passata sotto il controllo della sua ala sinistra, ma privandosi di fatto di qualunque possibilità di tornare al potere in un futuro prossimo.

Laboratorio francese
Per la sinistra la scelta è fra rimanere fedele a se stessa, condannandosi però all’opposizione, o perdere la propria anima e le prossime elezioni diventando un partito troppo burocratico. La socialdemocrazia è oggi una specie in via di estinzione in Europa, la sua culla storica, a meno di non riuscire a reinventarsi, a trovare il suo posto in un mondo nuovo nel quale i suoi “metodi” tradizionali non sono più adatti.

La sinistra riformista sarà capace di reinventarsi in Francia, di fronte a un Fillon che incarna un conservatorismo sociale unito a un liberismo economico, a una Marine Le Pen che combina i tratti tipici dell’estrema destra con un discorso populista che in alcuni casi prende spunto dal registro tradizionale della sinistra, e infine di fronte a un Mélenchon che può sperare di incarnare la prima forza di sinistra? Questa sarà la sfida dei prossimi mesi e probabilmente dei prossimi anni.

Il laboratorio francese sarà seguito con attenzione nel resto d’Europa e permetterà di provare la flessibilità del sistema politico tradizionale nei confronti di un’estrema destra potente e ormai ben radicata in tutto il paese, ma anche i rapporti di forza a sinistra e la capacità del suo ramo riformista nel superare la minaccia di una possibile estinzione.

Si è comunque lontani da quell’ondata “trumpista” annunciata solo tre settimane fa. La ricomposizione politica provocata da questi cambiamenti non è finita e ci riserverà sicuramente ben altre sorprese.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it