28 marzo 2018 18:27

Chi coordina la guardia costiera libica? Potrebbe essere la marina militare italiana a impartire gli ordini ai libici, secondo quanto emerge dal decreto del giudice per le indagini preliminari (gip) di Catania che il 27 marzo ha confermato il sequestro della nave umanitaria Open Arms, fermata nel porto di Pozzallo il 17 marzo con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere.

Il gip di Catania Nunzio Sarpietro ha escluso l’accusa di associazione a delinquere, ha fatto cadere le accuse sul terzo indagato Gerald Canals e ha dichiarato non validi gli interrogatori dei due indagati Marc Reig Creus, capitano della Open Arms, e Ana Isabel Montes Mier, coordinatore della missione, che si erano svolti nell’hotspot di Pozzallo il 16 marzo: gli interrogatori infatti non hanno rispettato le norme, cioè durante l’interrogatorio non erano presenti né gli avvocati né gli interpreti ufficiali.

Il coordinamento italiano dei guardacoste libici metterebbe in una posizione delicata la marina militare italiana

Il sequestro della nave è stato confermato, ma il fascicolo delle indagini – venuta a cadere l’accusa di associazione a delinquere – passa nelle mani della procura di Ragusa, competente al livello territoriale, che dovrà indicare un altro gip. Il nuovo giudice dovrà esprimersi entro venti giorni sulla conferma del sequestro della nave. Nella ricostruzione dei fatti condotta dal gip di Catania emergono però nuovi particolari sulla dinamica del salvataggio avvenuto al largo della Libia il 15 marzo.

Nel documento si dice infatti che il coordinamento della guardia costiera libica era di fatto allestito all’interno della nave militare italiana Capri ormeggiata nel porto di Tripoli, in Libia, nell’ambito della missione Nauras e conferma che le operazioni dei libici si sarebbero svolte “sotto l’egida delle autorità italiane”. Il decreto del gip riconosce una situazione di gravi violazioni dei diritti umani in Libia, ma sostiene che le ong non possano agire in autonomia “travalicando gli accordi e gli interessi degli stati coinvolti nel fenomeno migratorio”.

La notizia del coordinamento italiano dei guardacoste libici, se confermata, metterebbe in una posizione delicata la marina militare italiana che di fatto sarebbe responsabile di respingimenti collettivi in violazione dell’articolo 4 del quarto protocollo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come spiega il giornalista Andrea Palladino su Famiglia Cristiana.

Il segretario dei Radicali e deputato di Più Europa Riccardo Magi ha chiesto al governo italiano di fornire maggiori informazioni: “Nero su bianco emerge chiaramente che è la marina italiana a dare indicazioni alla guardia costiera libica sugli interventi in mare e il successivo rientro sulle coste libiche, d’intesa con l’Mrcc di Roma: il sospetto che l’Italia sia coinvolta in azioni di respingimento sembra quindi essere confermato”. L’Italia è già stata condannata nel 2011 dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) per un respingimento collettivo avvenuto nel 2009.

Le accuse ancora in piedi
Nella ricostruzione dei fatti – basata su una relazione della centrale operativa della guardia costiera di Roma (Imrcc) e sulle memorie depositate dagli avvocati degli indagati – emerge che è la marina militare italiana a coordinare le operazioni della guardia costiera libica, mentre a parlare con la centrale della guardia costiera di Roma è stato un funzionario della difesa italiana a Tripoli. Nel decreto di convalida del sequestro, inoltre, si conferma che i libici abbiano minacciato di usare le armi per ostacolare le operazioni di soccorso da parte dei gommoni della motonave Open Arms.

Il gip di Catania ha confermato la possibilità che gli indagati abbiano commesso il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, perché hanno effettuato il soccorso di migranti nonostante la centrale operativa di Roma gli avesse ordinato di non farlo; inoltre gli spagnoli avrebbero violato il codice di condotta firmato la scorsa estate con il ministero dell’interno italiano, perché hanno manifestato la precisa volontà di sbarcare i migranti in territorio italiano e non hanno chiesto alle autorità maltesi di attraccare alla Valletta.

Abbiamo agito secondo la legge, non potevamo riconsegnare i migranti ai libici

Il giudice ha negato che gli indagati abbiano agito in una situazione di necessità e cioè in una condizione di pericolo per la vita dei migranti, perché sul posto erano presenti i guardacoste libici. Inoltre il giudice ha rifiutato la motivazione umanitaria perché questo elemento, che farebbe decadere la punibilità del reato, varrebbe solo se fosse stato compiuto sul territorio italiano. Il giudice ritiene particolarmente grave il fatto che sia stato violato il codice di condotta, anche se non ha valore di legge ma è solo un regolamento amministrativo tra governo italiano e ong.

Anche se non costituisce reato, la violazione del codice rivelerebbe per il giudice che gli spagnoli non vogliono operare nel contesto di “precetti prefissati”. Il portavoce di Proactiva Open Arms Riccardo Gatti afferma che il decreto di sequestro del gip contiene molte inesattezze sulla ricostruzione dei fatti, che verranno smentite dai legali dell’organizzazione. “Abbiamo agito secondo la legge, non potevamo riconsegnare i migranti ai libici, avremmo violato le leggi internazionali, non si tratta di una motivazione umanitaria, ma di legalità”, aggiunge Gatti. I legali dell’ong spagnola hanno convocato una conferenza stampa a Pozzallo alle 12 di giovedì 29 marzo per spiegare le loro posizioni, dopo il trasferimento dell’inchiesta alla procura di Ragusa.

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