11 gennaio 2018 14:29

Mentre in Belgio lo scandalo sul rimpatrio forzato di cento migranti in Sudan rischia di far cadere il governo, la Corte europea per i diritti umani (Cedu) ha accolto il ricorso presentato dall’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) per un caso simile avvenuto in Italia nel 2016.

Lo scandalo belga coinvolge il ministro per l’asilo e l’immigrazione Theo Franken, del partito di estrema destra N-va (Nuova alleanza fiamminga), che avrebbe concesso ai funzionari sudanesi di esaminare i casi di alcune persone destinate al rimpatrio. Il sospetto è che il ministro belga abbia concesso al regime di Omar al Bashir (accusato dalla Corte penale internazionale dell’Aja di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità durante il conflitto nel Darfur) di individuare i suoi oppositori tra i migranti per arrestarli al loro rientro in Sudan.

La vicenda italiana del 2016 riguarda invece 48 persone fermate a Ventimiglia il 24 agosto di quell’anno e portate all’hotspot di Taranto per essere rimpatriate in Sudan. Alcune furono rinchiuse in una caserma tra Ventimiglia e Genova, altre trasferite a Taranto e da lì portate all’aeroporto Caselle di Torino e rimpatriate.

Alcuni ragazzi però protestarono in maniera talmente rumorosa che furono portati via dall’aereo e ottennero di chiedere la protezione internazionale, che gli fu riconosciuta. Per questo tra il 19 e il 22 dicembre 2016 a Khartoum cinque cittadini sudanesi rimpatriati dall’Italia avevano incontrato i rappresentanti dell’Asgi e dell’Arci e avevano affidato agli avvocati la delega per presentare un ricorso alla Corte europea per i diritti umani.

Molte violazioni
Entro il 30 marzo il governo italiano dovrà rispondere del suo operato davanti alla Corte di Strasburgo. “Tutti coloro che non furono rimpatriati hanno ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale in Italia, in quanto soggetti a persecuzioni e discriminazioni nel paese da cui provenivano”, scrive l’Asgi. I ragazzi incontrati a Khartoum erano tutti del Darfur, racconta Salvatore Fachile, avvocato dell’Asgi che ha fatto parte della delegazione nella capitale sudanese.

“Sia davanti al giudice di pace, sia nelle fasi d’imbarco tutti quanti hanno manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale, ma la polizia italiana non gli ha permesso di fare richiesta d’asilo”, aggiunge. “Non potevano essere espulsi perché rischiavano la persecuzione su base etnica nel loro paese”. Per l’Asgi ci sono state diverse violazioni sia della Convenzione di Ginevra sui rifugiati sia della Convenzione europea dei diritti umani. In primo luogo è stato violato il principio di non respingimento. Inoltre c’è stata una violazione dell’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che prevede che non siano espulsi coloro che rischiano qualche forma di persecuzione nel loro paese.

Inoltre sembra che le retate compiute dalla polizia a Ventimiglia abbiano riguardato esclusivamente i cittadini sudanesi,”una vera e propria discriminazione” su base razziale, afferma l’Asgi. Infine viene contestato il “rimpatrio collettivo”: nessuno dei cittadini sudanesi rimpatriati è stato ascoltato individualmente per valutare che rischi correva al suo rientro in patria, e a nessuno è stata garantita l’assistenza di un avvocato, violando così il diritto di difesa.

Il rimpatrio è avvenuto in base alla firma di un memorandum d’intesa stipulato il 3 agosto 2016 tra il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’interno italiano e la polizia nazionale sudanese. Questo rappresenta per l’Asgi un altro punto d’illegittimità, che però non è contestato per il momento davanti al tribunale. Sara Prestianni dell’ufficio immigrazione dell’Arci spiega che l’espulsione dei sudanesi e l’accordo tra le polizie è tanto più preoccupante perché s’inserisce nel quadro di una serie di misure di collaborazione tra l’Italia, l’Unione europea e il governo sudanese per il controllo dei flussi migratori.

“La collaborazione tra il governo italiano e il governo sudanese è all’origine delle politiche di controllo delle frontiere, messe in atto dai sudanesi, come l’invio delle rapid support forces nel sud del paese per blindare il confine con l’Eritrea e impedire ai rifugiati eritrei di entrare in Sudan. Le rapid support forces sono una forza paramilitare speciale formata in parte dai janjawid, milizie filogovernative che hanno commesso abusi in Darfur”, afferma Prestianni. Per l’Arci gli accordi europei che prevedono la formazione della polizia sudanese rischiano di finanziare milizie che già in passato si sono macchiate di crimini contro l’umanità.

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