30 novembre 2017 19:02

Le foto e i video più diffusi in queste ore ci consegnano due frammenti di immaginario fascista che è impossibile ignorare. Un’associazione tra il gesto del suicida Slobodan Praljak e la ronda naziskin di Como è stata sottolineata da molti, per esempio da Gigi Riva su Repubblica. Ma altrettanto significative sono le differenze.

Nelle surreali immagini registrate al tribunale dell’Aja, quasi quanto l’orrore dell’autoavvelenamento dell’ex generale croato, colpisce lo straniante smarrimento dei giudici. Ignari, poi increduli e infine balbettanti di fronte a qualcosa che è evidentemente estraneo al loro orizzonte mentale – e comunque totalmente “fuori luogo”, nel senso più stretto e diretto della locuzione.

In questo modo, però, emergono tutti i limiti del processo giuridico che vorrebbe giudicare e chiudere il conflitto. Momento necessario, naturalmente, ma del tutto insufficiente. Così tanto da generare effetti perversi se non è accompagnato da un qualche cammino comune di riconsiderazione storica e morale, da una qualche condivisione del giudizio sul passato o almeno di impegno per il futuro. Mancando questo, come manca oggi in Bosnia e in tutta la ex Jugoslavia, ed essendo la comunità internazionale del tutto indifferente e inconsapevole verso le proprie responsabilità, lo spazio giuridico non può che balbettare le proprie giuste sentenze. E il feroce criminale Praljac (la cui formazione intellettuale è un’aggravante decisiva, letteralmente imperdonabile) può così conquistare con il suo gesto il centro della scena.

La vita dal lato sbagliato
Senza un’opinione pubblica capace in qualche modo di intervenire in quel processo, la lingua dei giudici, il loro grottesco abbigliamento, perfino la postura che assumevano, avevano qualcosa di astratto, come fosse privo di vita e di valori. Mentre invece – questo l’effetto perverso delle scene dall’Aja – il massacratore pareva assumere, nel carattere definitivo del suo gesto, qualcosa di umano o almeno di vitale.

È una falsa impressione, naturalmente, generata dalla natura a sua volta artificiale delle immagini di cui disponiamo. Se il gesto di Praljac ha qualche riferimento “valoriale” è nella penosa predilezione fascista per il gesto suicida, quando le proprie “ragioni” giungono ai loro esiti finali. Né vale la raccomandazione a rispettare comunque un atto così estremo, una volta compiuto pubblicamente e provocatoriamente. Ma l’effetto paradossale del video è quello di far vedere una voce, un volto, la vita dal lato sbagliato della corte.

Definizioni naziste
Nulla di simile è accaduto a Como. Qui le immagini ci consegnano qualcosa di limpido, impossibile da equivocare. Da un lato c’è il delirio inconsistente di frasi fatte, minacce roboanti, definizioni insultanti: chiamare qualcuno “non popolo” rimanda alla definizione nazista di sottouomini (Untermensch) e chiarisce bene quale soluzione (finale) costoro propongano al problema dell’emigrazione. Stronca pure alla radice ogni discussione sulla possibilità di intrattenere con queste idee e con queste persone una qualunque forma di conversazione, specie se pubblica e mediatica: non si può parlare, non si può far parlare qualcuno che non riconosca all’altro nemmeno la sua natura umana.

Tra le persone sequestrate e i confusi e agitati agitatori a Como non c’è confusione possibile. Da un lato c’è chi resta sobriamente seduto, dall’altro ci sono l’arroganza dell’invasione collettiva di uno spazio inerme e la vile incoerenza delle idee: se davvero il nemico fosse il globalismo, ha fatto notare qualcuno, dovrebbero assalire una multinazionale e non un centro di volontariato in ogni senso disarmato.

A fare davvero la differenza era quello che avveniva dall’altro lato della scena: la posizione, l’atteggiamento fisico e – per quel che si può supporre – mentale dei volontari. Le immagini sono equivoche per definizione ed è possibile che si scambi per scelta una necessità, per calma una tensione comprensibile, per tranquillità un timore legittimo. Ma il fatto che quegli uomini e quelle donne non sembrassero aspettare altro che riprendere il loro impegno, che da qualche parte nella scena si affacciassero frammenti di quello che è il loro importante lavoro, riduceva di colpo l’invasione con i suoi fanatici obiettivi a una recita di pagliacci che parlavano male e vestivano peggio.

Qualcosa di non meno pericoloso, ma senza alcun valore, nemmeno frainteso. Mentre Praljak sembrava incarnare qualcosa di orrendamente vitale, di caldo di fronte alla freddezza del giudizio, i nazisti di Como portavano con sé la banalità di un’idea di morte. Quella di chi vuole semplicemente impedire all’altro la parola, l’esistenza, l’umanità. E, ancora più banalmente, il movimento, la libertà. E più immediatamente, in quella stanza appartata e improvvisamente diventata il centro di un modo, l’esercizio della solidarietà (vale a dire altra, semplice o esorbitante, umanità).

Tutto appariva equivoco all’Aja, tutto limpido a Como. Non meno sconvolgente, ma nell’ordine delle cose. La cultura dei vari fascismi ha questa vocazione: esaltare e portare la morte ovunque, alle persone e ai valori ( e persino alla patria, com’è accaduto o stava per accadere nella nostra storia appena 74 o 75 anni fa). Ma almeno a Como da che parte è la vita, la convivenza, l’umanità era chiaro.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it