25 giugno 2015 11:01

Questo è l’articolo scritto da un bianco sulla storia di due ragazzi neri e con ogni probabilità sarà letto quasi esclusivamente da bianchi: racconta l’inizio della fine di questo genere di articoli e comincia a Palermo nel 2012.

Il filo della matassa parte dal Senegal, passa dal Gambia, arriva a Pittsburgh, tira dentro John Fante Martin Scorsese mia zia Sarina, e finisce in Padania per massimo scorno di leghisti e cattivisti e nuovi asini nazionalisti. Però bisogna cominciare da Palermo.

È luglio, ci sono trenta gradi e la città si scioglie e risolidifica in una nuova realtà fatta per l’ottanta per cento di umidità e per il venti per cento di canicola: molti, per comodità, definiscono questa realtà “estate siciliana”. Nell’estate siciliana succede che molte cose rallentino o si fermino del tutto, gli uffici vanno deserti. Chi ha bisogno deve arrangiarsi come può, ed è per arrangiare una soluzione che il comune telefona alla scuola di lingua italiana per stranieri dell’ateneo.

Il problema è che mentre anche i centri di accoglienza per migranti rallentano le loro attività, gli sbarchi non diminuiscono: 13.267 persone sono arrivate in Italia quell’anno, 8.488 sulle coste siciliane. Tra loro ci sono molti adolescenti. La professoressa Mari D’Agostino dice a Laura Purpura, dirigente dell’ufficio che si occupa della loro situazione, che un modo per non abbandonarli all’afa palermitana potrebbe essere quello di farli partecipare ai corsi estivi della scuola.

“Potete immaginare che cosa significhi avere avuto nella stessa classe una ragazza norvegese a Palermo per l’Erasmus e un diciassettenne senegalese, e cercare di insegnare a entrambi l’italiano”, racconta D’Agostino. “I percorsi che segue una persona che sta studiando per una laurea e una che non è quasi mai andata a scuola sono radicalmente diversi”.

Da quell’estate del 2012 a oggi, senza che per i loro progetti sia stato speso un euro, D’Agostino e il suo gruppo di lavoro si sono rimessi a studiare, hanno costruito programmi nuovi per i nuovi ragazzi che si sono trovati tra i banchi e alla fine, come raccontano nel libro Dai barconi all’università, sono riusciti a insegnare l’italiano a trecento di loro. Minori stranieri non accompagnati, come sono definiti con un’etichetta che costruisce una realtà. Tra loro, oltre all’inizio della fine di articoli come quello che state leggendo, c’è anche l’esplosione di queste etichette e la messa in discussione di una retorica a cui siamo abituati. Le storie di Ibrahima e Bakari aiutano a visualizzarla meglio.

Me le raccontano a casa della professoressa D’Agostino, dietro il teatro Massimo di Palermo. Con noi c’è uno dei suoi collaboratori, Marcello Amoruso, e a me viene da pensare che siamo in commissariato. Non per la scena, ma per la struttura della scena: tre borghesi occidentali, bianchi, appartenenti a due istituzioni, l’università e l’informazione, di fronte a due ragazzi neri, africani, che non hanno niente, se non le loro storie. In base a queste storie sono giudicati dalle istituzioni, e sulla base di questo giudizio possono trasformarsi da rifugiati in clandestini. Perciò all’inizio misurano sguardi e frasi, e c’è bisogno di ripetere molte volte che il loro racconto non sarà pesato sulla bilancia della legge infame che regola l’immigrazione in Italia.

Bevono una coca cola, si interrompono spesso, guardano la professoressa e Marcello, cercano rassicurazioni nei loro occhi, parlano.

Ibrahima è nato in Senegal e da piccolo aiuta il padre nel negozio di famiglia. Vendono stoffe e cuciono vestiti, le giornate sono semplici. Finché la madre non si ammala e il padre la porta in Gambia, dov’è nata e dove può curarsi meglio. A Ibrahima tocca occuparsi del negozio.

“Sono solo e a notte sento rumori dal negozio. Qualcuno veni per rubare la macchina da cucire. So, io sono fight. Questo è coltello, solo io, loro tre persone, tre ragazzi più grandi”.

Quando dice “questo è coltello” dice della cicatrice che ha sulla fronte e del taglio sul petto e della perdita dei sensi e del risveglio in una casa che non conosce, in un bosco che non conosce, assieme a ragazzi che non conosce, prigioniero per motivi che non conosce.

Dopo una settimana riesce a scappare e a raggiungere Kaolack, 189 chilometri a sud di Dakar. Dopo va in Mali, dopo il Mali il Niger, dopo il Niger, pausa: sono viaggi che raccontati così non significano molto, vederli su una mappa aiuta a farsi un’idea.

Il racconto quasi mai è lineare, è pieno di vuoti e omissioni. Un buco nero enorme è la Libia, come denuncia Save the children. Ibrahima non ne parla volentieri. Dice di esserci rimasto due anni, fino a un tentativo di rapina che finisce con lui mezzo morto per terra. È il 2013, ha sedici anni, mette insieme dei soldi e sale su una barca insieme a un altro centinaio di persone: ha più fortuna di altri. “Tanti muoiono, no?”.

Bakary ascolta, tiene gli occhi sulle punte delle scarpe e spesso annuisce con la testa. È più silenzioso, parla meno bene di Ibrahima. Arrivava anche lui dalla Libia, e prima ancora, a ritroso, Niger, Mali e Gambia, dov’è nato, diciassette anni fa. Il silenzio non è dovuto solo alle difficoltà con l’italiano, e non riguarda solo la Libia, in generale è qualcosa che riguarda la sua vita dopo lo sbarco, i suoi giorni qui a Palermo.

“È più introverso di altri”, dice Amoruso, “quest’anno a un certo punto non l’abbiamo più visto tra i banchi. Dopo una settimana telefono al centro d’accoglienza dove vive e chiedo spiegazioni: spiegazioni non ce n’erano. Bakary non si alzava dal letto la mattina, non gli andava, non vedeva un motivo per farlo. Abbiamo chiacchierato un po’, ha riacquistato fiducia e voglia, non ha più perso un giorno di lezione”.

Trascrivo una sua frase, che mi sembra tra le più belle annotate quel pomeriggio: “Mi piace il pallone, bello, mi piace il Palermo, ma anche studio è bello (pausa, risata) difficile però”. Questa difficoltà me la raccontano D’Agostino e Amoruso. “Dovresti vederli in classe, alcuni si piegano sul foglio, altri impazziscono a stare nelle righe, moltissimi non hanno mai tenuto una penna in mano”.

Una lezione al centro di lingua per stranieri, a Palermo. (Antonio Gervasi)

“Quando riescono a superare le difficoltà, allora emergono i pezzi di un racconto epico che si sta formando proprio sotto i nostri occhi, e a cui magari non prestiamo attenzione”, dice la professoressa, “ma si modella anche per alimentare il nostro bisogno di inquadrare la realtà in un certo modo”.

Un esempio può essere quello di uno dei ragazzi del corso che ricorre alla struttura del racconto collettivo che tutti conosciamo per non dover dare conto della sua storia personale. Dunque, la versione ufficiale suona così: Bangladesh, fame, miseria, viaggio verso l’Europa per trovare un lavoro e spedire qualche soldo a casa. Ma più probabilmente è vicina a: una famiglia media, senza troppi problemi di soldi, un’omosessualità da nascondere a tutti i costi, l’impossibilità di nasconderla a tutti i costi, l’Europa come speranza e salvezza.

“Non è più facile, in casi del genere, raccontarci quello che vogliamo sentirci raccontare? L’epica collettiva semplifica la realtà e la rende più semplice da capire”, osserva la professoressa. “Le singole storie verranno fuori più in là, e ci racconteranno più di quanto sappiamo e vogliamo sapere oggi, così come è stato per esempio per l’emigrazione italiana nel novecento”.

È a questo punto che la storia che è partita dal Senegal, è passata dal Gambia, finisce a Pittsburgh. Non è la prima volta che assistiamo a un flusso migratorio così massiccio come quello che in questi anni sta facendo arrivare in Europa milioni di persone dall’Africa e dall’oriente.

La faccenda ha riguardato anche italiani e europei, e quello che è successo, in termini di racconto della realtà, sta succedendo di nuovo.

In estrema sintesi: le storie di chi scappa da qualcosa (guerra, miseria, dittature) sono in prima battuta raccontate da chi li vede arrivare; si costruisce una retorica che si autoalimenta (spesso con pregiudizi e razzismo); pian piano chi arriva comincia ad appropriarsi di una lingua, la fa sua e comincia a raccontare la sua versione dei fatti; la retorica iniziale frana, lo stato delle cose inizia a mutare.

Durante il corso di teatro, a Palermo. (Antonio Gervasi)

Provo a tradurre quest’idea con qualcosa di pratico. Sono siciliano e da almeno tre generazioni la mia famiglia emigra. Mia nonna non ha mai conosciuto un fratello, emigrato in Argentina prima che nascesse e mai più tornato; mio padre negli anni sessanta ha lavorato in una fabbrica a Bonn; io e mio fratello ce ne siamo andati dopo la laurea a Roma e a Padova.

È cambiato tutto, da allora, sono cambiati i motivi che ci hanno spinto a lasciare la Sicilia, è cambiata la Sicilia, sono cambiati i viaggi, siamo cambiati noi: è rimasto uguale l’incrinarsi della voce di chi resta quando parla di chi se ne va. Il dolore per i figli i mariti i fratelli lontani, in molte famiglie siciliane, è un basso continuo e la mia non ha fatto eccezioni, dall’autobus preso da mio padre a diciassette anni per entrare illegalmente in Germania ai viaggi in treno da trenta ore di mio fratello fino al suo primo volo da novecentomila lire per Padova: non c’è stato spostamento che non abbia rotto voci e cuori.

Uno dei fratelli di mia nonna negli anni cinquanta è partito per gli Stati Uniti, la moglie lo ha raggiunto poco dopo, una delle loro figlie scriveva lettere a mia madre da Pittsburgh. In una risuonano molte disperazioni, e una di queste disperazioni ha a che fare con la lingua:

Carissima nipote Rosetta e Totò,
scusami del mio ritardo a scriverti come stai? Spero che la prisenti vi venga a trovari a tutti di una buona salute. I sono invecchiata ma riagisco bene, solo che mi sento troppo triste e sola li vicini non ci parlo non ci capiamo, in questa terra o subito troppo dispiacere e spero a Dio che che mi da un poco di conforto nel cuore. Parlami dei tuoi figli, facci studiare la lingua, la lingua passa lu mari. Tanti abbracci a tutti, a tua mamma e a tuo papà.
Sarina

La lettera è datata 1997, all’epoca mia zia aveva vissuto più negli Stati Uniti che in Italia. Quasi un secolo prima delle sue parole, la sua solitudine aveva i contorni di una vignetta pubblicata sul quotidiano di New Orleans, The Mascot, nel 1888.

Si intitola “Per quanto riguarda gli italiani” ed è una pratica guida su come sbarazzarsi degli immigrati italiani a New Orleans: buttandoli in mare o manganellandoli. Tre anni dopo, il 13 marzo 1891, sempre a New Orleans ci fu uno dei più feroci linciaggi della storia degli Stati Uniti. Undici italiani furono picchiati dalla folla, che li accusava di aver ucciso il capo della polizia: non era vero. Ma nel racconto collettivo degli statunitensi, gli italiani erano violenti sporchi cattivi nullafacenti ladri e pieni di malattie: vi ricorda niente, questa descrizione?

Per riscriverla ci sono volute almeno due generazioni e una lingua nuova. Figli e nipoti di linciati cresciuti negli Stati Uniti si sono presi l’inglese, a differenza di mia zia, e hanno iniziato a fare a pezzi la retorica che gli avevano appiccicato addosso. John Fante nel ciclo di romanzi con protagonista Arturo Bandini ha raccontato la vergogna di essere il figlio di un muratore italiano e il riscatto del figlio di un muratore italiano, mentre Martin Scorsese ha svelato le contraddizioni dei piccoli e dei grandi criminali italoamericani meglio di molti articoli di giornali.

Questa battaglia contro i luoghi comuni non ha riguardato solo gli italiani, e non solo gli Stati Uniti. Scrittrici come Toni Morrison e registi come Spike Lee hanno smontato le menzogne sui neri di Chicago, New York, Boston; Sergej Dovlatov ha raccontato cosa ha significato scappare dall’Unione Sovietica e vivere da spiantato oltreoceano; Hanif Kureishi ha scritto dei ragazzini indiani cresciuti nelle periferie di Londra negli anni settanta; Abdellatif Kechiche ha portato sullo schermo le giornate dei maghrebini che vivono in Francia.

I racconti della gente comune, le lettere e le telefonate dei migranti a casa, i pugni stretti e le depressioni, le gioie, gli arresti e le violenze, le vittorie: sono queste le cose che hanno riempito pagine di romanzi e scene di film, registi e scrittori sono stati antenne e hanno ritrasmesso questi segnali sparati nell’aria, rendendoli più chiari.

Oggi i segnali più forti trasmessi in Italia sui migranti riempiono l’aria e le nostre teste di rumore con parole tipo emergenza, scabbia, invasione.

Per sgonfiarle basterebbe citare qualche numero. Il Libano ha sei milioni di abitanti e oltre 1,2 milioni di rifugiati; la Germania ha 82 milioni di abitanti e l’anno scorso ha detto sì a 41mila richieste di asilo; l’Italia ha sessanta milioni di abitanti e nei centri d’accoglienza sono ospitati 73.705 migranti e richiedenti asilo. Dal 1 gennaio 2015 a oggi sono arrivati nel nostro paese 57.019 migranti. Aspettate che lo ripeto: sessanta milioni di abitanti, 73mila richiedenti asilo.

La scabbia: si cura con una pomatina.

In molti provano a ripetere queste semplici cose, ma la verità è che non sta funzionando, o almeno non abbastanza. Il rumore è ancora forte, gli spauracchi sono dappertutto. Siamo ancora dentro la versione bianca e spaventata (quando non aggressiva) della storia.

Tra chi sta imparando l’italiano a Palermo, o a Milano (come racconta Tullio De Mauro), c’è l’inizio della fine di questa versione. Molti ovviamente se ne andranno in giro per l’Europa, qualcuno andrà incontro a storie feroci di sfruttamento, come racconta Luca Muzi sul Guardian, qualcuno tornerà a casa, ma è ragionevole pensare che chi resterà imparerà una lingua e la trasmetterà a figli e nipoti, e che questi figli e nipoti faranno a pezzi le menzogne miserabili su chi ha avuto l’unico torto di nascere dall’altro lato del Mediterraneo.

Racconteranno la bassa padana senza gli urli e le menzogne della Lega su scabbia ed emergenza e violenza “di negri e zingari”. Renderanno migliori i giornali su cui scriviamo e ci faranno leggere tutta un’altra storia di quella che stiamo costruendo e raccontando nell’Italia di oggi.

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