31 luglio 2017 09:51

Non so se a tutti è chiaro cosa significa per un terremotato ricevere la sua casetta di legno. Penso al governo, ai responsabili della protezione civile, agli operai che le stanno costruendo; ai dirigenti delle quattro regioni coinvolte; agli stessi terremotati. Non sono solo case e rappresentano solo in minima parte un “ritorno alla normalità”: le casette danno a chi le abita l’opportunità di stringere nuovamente un legame con la propria terra, con le proprie radici.

Da quando a marzo sono state consegnate le prime cento tra Amatrice e Norcia, due dei comuni colpiti dal sisma il 24 agosto del 2016, ogni tanto sono andato a visitarle. Agli abitanti spiegavo che non era mia intenzione cercare il pelo nell’uovo, che volevo solo sapere come si trovavano nelle loro nuove case e magari avere la possibilità di entrare.

Durante questi mesi, il loro atteggiamento è cambiato. All’iniziale entusiasmo per le casette, alla gratitudine per chi gliele aveva consegnate e al loro lasciarmi sulla porta, sono seguiti pareri più critici, spesso sarcastici, qualche volta un po’ sconsolati. E alla fine mi hanno anche fatto entrare.

Le casette di legno sono dignitose. Basta guardare il modello sul sito della protezione civile per farsene un’idea: fuori c’è il verde del prato e una piccola veranda; dentro sono previsti un ambiente giorno con angolo cottura, uno o due bagni, da una a tre camere da letto, a seconda dei componenti della famiglia. Le case sono ammobiliate e hanno il riscaldamento autonomo.

Entrarci però dà l’impressione di entrare in una dimensione provvisoria, anche se ormai le persone ci vivono. Non c’è mai quel tipico accumulo di oggetti che testimonia il trasloco di una vita intera da un casa all’altra: c’è il minimo indispensabile, c’è ordine, c’è il poco che ogni persona ha potuto salvare dalle macerie della sua vita precedente. Ma quella vita precedente non sembra amalgamarsi con la mobilia d’emergenza.

Le strutture viste da vicino
Ci sono poi delle cose che non vanno. Nei giardini l’erba non c’è, ci sono piante di alloro un po’ secche e cipressi secchi del tutto, ma non erba. C’è un ampio parcheggio in comune, ci sono steccati di legno fissati a terra con il cemento, panchine al sole, c’è uno spazio comune al centro del giardino che mette solitudine. Davanti ad alcune casette si trova qualche pianta coltivata, una recinzione per il cane: segnali del fatto che le persone hanno fatto loro quegli spazi.

Le verande sono tutte diverse; alcuni ci si siedono, leggono il giornale o parlano con i vicini. Sono i veri luoghi di socializzazione. A guardarle con più attenzione, però, danno un’altra impressione. Le assi di legno sono già storte e scrostate, non ci camminerei a piedi nudi; le travi che reggono il tetto hanno finiture imperfette, frettolose, perdono resina in più punti. “Speriamo che reggano”, mi dice sorridendo un ragazzo che fa l’operaio.

Ogni volta che entro in una casetta mi piace immaginare di trovarci un’anziana signora un po’ sorda che ammassa le fettuccine come in una delle prime in cui sono entrato, ma non c’è mai. Supero l’iniziale diffidenza dicendo che sono aquilano. Le persone ci mettono poco a sciogliersi. Riconoscono di essere tra le pochissime fortunate ad avere già la loro casetta, e lo dicono, ma davanti a un terremotato come loro non resistono, non possono, e le visite diventano subito altro.

Norcia, 9 giugno 2017. (Antonio Di Cecco per Internazionale, Contrasto)

Non c’è mai rabbia nei loro gesti, nelle loro parole, mentre mi fanno vedere le mostre attorno alle porte che già si vanno staccando, i battiscopa incollati male che hanno richiesto un nuovo intervento degli operai, le rasature imprecise degli intonaci, realizzate in fretta, i buchi delle prese della corrente elettrica lasciati vuoti e poi nascosti dietro ai mobili, oppure qualche pezzo della cucina che già si è smontato.

Con ironia mi fanno notare che se si salta in alcuni punti del pavimento, trema tutta la struttura. O che se premi l’interruttore all’ingresso, per via dell’impianto elettrico un po’ arronzato, si accendono tutte le luci senza possibilità di scelta; e quando la notte si va a dormire, bisogna tornare a quell’unico interruttore vicino l’ingresso per spegnerle. Mi raccontano anche di porte sostituite perché non si chiudevano e di bagni rifatti perché non funzionavano.

“È presto per capire davvero la qualità di queste strutture”, dico loro, forse incautamente, “bisognerà attendere anche i cambi di stagione”. Spero sempre di essere un po’ troppo prevenuto, ma purtroppo conosco la storia e i difetti delle casette costruite a L’Aquila, la mia città.

Le case consegnate finora sono circa 400 sulle 3.772 richieste

Un giorno, dopo aver visitato una casetta ad Amatrice, la signora che ci vive mi ha domandato: “Quanto credi che dureranno?”. Me lo ha chiesto come se fossi un tecnico, un esperto di edilizia. Nei suoi occhi ho percepito un po’ di smarrimento. “La domanda è quanto resisterete voi”, le ho risposto.

Seppur spiacevoli, questi difetti non sono un vero problema. Le casette sono decorose e le persone non sembrano viverci male. Il vero problema che dovrebbe preoccupare non solo i terremotati, ma anche ogni italiano, visto che è lui a pagarle, sono i ritardi nella costruzione dei villaggi d’emergenza. Ritardi difficili da spiegare all’esterno del cratere sismico e difficili da giustificare all’interno. Cerchiamo di capirci qualcosa.

Da dicembre a luglio
Il 22 dicembre 2016 avevo appuntamento con il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi per un’intervista nel pomeriggio. Sembrava stanco ma sereno. Le pareti del suo ufficio, arrangiato a sua volta in una struttura di legno, erano tappezzate di magliette con il suo nome scritto dietro, ricevute da diverse squadre di calcio, a terra c’era una marea di pacchi regalo ricevuti per Natale.

“La conoscenza è fondamentale”, aveva esordito. A impressionarmi è stata la sua conoscenza del sistema burocratico dietro la costruzione delle casette di legno, accompagnata da un’inesauribile fiducia nell’impegno dello stato a favore “della sua gente”. Sui tempi di realizzazione, si dichiarava ottimista: “Le prime cinque aree, tre ad Amatrice e le altre in due frazioni del comune sono partite. Per me il 20 per cento delle strutture sarà consegnato entro febbraio, poi a raffica arriveranno le altre. Per Pasqua il 70-80 per cento sarà pronto”. Disse che lui non doveva battere alcun record, che doveva aiutare la gente a stare bene.

È passato quasi un anno dal sisma del 24 agosto 2016. Le aree abitative consegnate ai terremotati, nei 500 chilometri quadrati di cratere sismico dell’Italia centrale, sono dieci. Le casette, o meglio le sae (soluzioni abitative di emergenza), sono circa 400 sulle 3.772 richieste. Eppure, a un mese dal sisma, governo e protezione civile avevano annunciato che le avrebbero finite in “sette mesi al massimo”. Anche ammettendo che a stravolgere i tempi abbiano inciso i successivi terremoti di fine ottobre, i tempi non tornano lo stesso. Perché? Cosa non sta funzionando?

Un passo indietro
Dobbiamo fare un passo indietro. Negli ultimi anni vari governi – prima quello guidato da Mario Monti, poi quello di Matteo Renzi – hanno provato a semplificare le procedure per affrontare situazioni di emergenza come quelle causate da un terremoto.

Per farlo si è puntato su trasparenza, risparmio e tempestività delle forniture. Tuttavia, le cose non sono andate subito così lisce. La prima gara per la fornitura, il trasporto e il montaggio delle sae, bandita nel 2012 dall’allora capo della protezione civile Franco Gabrielli, era andata deserta. Solo nel 2016 sono stati sottoscritti i contratti con la Consip.

Paradossalmente, però, i tempi di consegna rispetto al terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche si sono allungati. Come ha fatto notare Fabrizio Gatti su L’Espresso, la domanda che il sindaco Pirozzi avrebbe dovuto rivolgere alla protezione civile era semplice: “Perché nel 1997 bastarono quarantacinque giorni per dare un tetto provvisorio a oltre 3.400 persone, e oggi servono sette mesi per 2.304 sfollati?”. Ai primi di ottobre le altre scosse di terremoto non erano certo immaginabili, ma visti i ritardi accumulati in seguito, la domanda resta: perché ci è voluto e ci sta volendo così tanto tempo per dare una casa a chi l’ha persa?

Arquata del Tronto, 31 maggio 2017. (Antonio Di Cecco per Internazionale, Contrasto)

Per trovare una risposta bisogna tornare ad Amatrice e alle parole del sindaco Pirozzi. Per fare richiesta di una sae, mi ha spiegato, i cittadini devono essere residenti e le loro case devono essere inagibili per via di danni strutturali o “grave rischio esterno”. Per cui le richieste di casette di legno fatte da ogni sindaco del cratere hanno dovuto aspettare le verifiche di agibilità eseguite dai tecnici autorizzati.

Dal momento che le quattro forti scosse hanno aggravato i danni alle abitazioni, i ritardi si sono accumulati. Ad Amatrice, per esempio, le prime verifiche di agibilità si sono concluse intorno al 20 ottobre del 2016 e il primo ordine di sae è stato di 452 moduli. I terremoti successivi, quelli del 26 e del 30 ottobre, hanno costretto il comune e la protezione civile a effettuare una seconda verifica su tutto il territorio. A Natale i controlli erano ancora in corso, ma il sindaco prevedeva che si sarebbero conclusi a fine gennaio 2017. Il numero dei moduli richiesti era salito a 595. Bisogna sottolineare che una volta che il comune stabilisce il numero di sae e la metratura idonea per ogni singolo nucleo familiare, fare nuove modifiche comporta altri ritardi.

“Una volta fatta la richiesta, la ditta fa il progetto definitivo e non glielo puoi andare a cambiare un’altra volta, sennò si ricomincia da capo”. In alcuni casi però ci sono state disdette e così il comune di Amatrice è stato costretto a prorogare fino al 1 giugno i termini per la richiesta o la rinuncia alle sae. Ma vista l’estrema precarietà, anche emotiva, in cui si ritrovano a vivere gli sfollati, forse le loro incertezze si potevano prevedere. Oltre a loro, un regolamento così rigido ha penalizzato anche chi ha aspettato in regola per mesi. Forse sarebbe stato più opportuno cominciare la costruzione e integrare in un secondo momento le altre domande.

Undici passaggi burocratici
Il passaggio successivo portava all’individuazione delle aree dove costruirle: in primo momento erano 32, poi sono diventate più di 40. I criteri per la selezione di queste aree seguivano due logiche, mi ha spiegato Pirozzi: il numero di sae richieste e la facilità di accesso ai servizi di urbanizzazione.

Qui comincia il marasma burocratico. I dati dovevano essere trasmessi alla regione Lazio, la quale, verificata l’idoneità di ogni singola area, dava l’avvio all’iter di costruzione. Francesca Maffini, portavoce della protezione civile, mi ha spiegato che i controlli hanno richiesto diverso tempo perché bisognava valutare ogni singolo fattore di rischio delle stesse aree individuate.

Il sindaco doveva poi rintracciare i proprietari dei terreni e convocarli in comune. “Uno a uno sono stati invitati per firmare un contratto di esproprio a tempo determinato”, ha spiegato Pirozzi mostrandomi un grande faldone. Il tutto andava trasmesso alla regione Lazio una seconda volta. E non sono mancate lamentale e ricorsi dei proprietari al tribunale amministrativo regionale (Tar), come è successo per esempio a Norcia, il che ha causato altri ritardi.

Sembra che la burocrazia non tenga minimamente conto delle esigenze delle persone

I proprietari dovevano poi accompagnare i tecnici comunali e i testimoni a vedere lo stato dei terreni, “che saranno restituiti una volta che i moduli verranno smontati e restituiti alla protezione civile”, ha aggiunto Pirozzi. “Anche questi accertamenti vanno comunicati alla regione, che a sua volta dà il nulla osta alla ditta che ha vinto l’appalto di urbanizzazione”.

Ma la trafila non finisce qui. La ditta doveva consegnare un primo progetto entro sei giorni. Il progetto tornava al comune per l’approvazione, e dagli uffici dell’amministrazione veniva rimandato alla regione che, dopo ulteriori verifiche, sue e dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), dava il via libera definitivo all’impresa.

“Io devo solo dare le carte”, ha detto più volte il sindaco. “Sergio Pirozzi dà solo le carte.” A me, però, è parso immediatamente chiaro che il lavoro richiesto ad amministrazioni come la sua fosse troppo gravoso e complesso. Ho pensato soprattutto ai piccoli comuni che già prima del terremoto faticavano a gestire l’ordinario per mancanza di fondi e personale. Pirozzi ha confermato la mia impressione: “Ce sta da farsi un mazzo così!”.

Tra l’altro, i compiti dei sindaci non finiscono qui. È l’amministrazione locale che deve provvedere alla consegna delle case ai cittadini. Il problema è che mancano completamente i criteri per l’assegnazione. La protezione civile non li ha stabiliti, così come lo stato. Ecco quindi spiegati i singolari sorteggi a cui si è assistito fin dalla prima consegna di sae a gennaio a Norcia e le critiche che hanno accompagnato le altre.

A conti fatti, come scrive anche la Repubblica, i passaggi burocratici per la realizzazione delle casette di legno sono undici. Una follia, secondo alcuni sindaci del cratere. È sconfortante, ma sembra che la burocrazia non tenga minimamente conto delle esigenze delle persone.

Amatrice, 9 giugno 2017. (Antonio Di Cecco per Internazionale, Contrasto)

Le aree consegnate ai terremotati finora sono due ad Amatrice, quattro ad Accumoli, tre a Norcia e una a Pescara del Tronto. Molte sono state consegnate ai sindaci ma non agli sfollati: in 18 i lavori sono conclusi, 15 ad Amatrice e 3 ad Accumoli. Per capire meglio, sul sito della protezione civile c’è una mappa interattiva sullo stato dei lavori.

Osservandola, una cosa salta all’occhio: i tempi di avanzamento dei lavori tra le quattro regioni colpite sono diversi. I lavori ultimati e le chiavi consegnate ai sindaci sono concentrati attorno ad Amatrice e ad Accumoli nel Lazio, ad Arquata del Tronto nelle Marche e a Norcia in Umbria.

L’Abruzzo, il resto delle Marche e dell’Umbria appaiono invece ancora contrassegnati di simboli per lo più bianchi o gialli, colori che caratterizzano soltanto le aree individuate o quelle in cui la costruzione delle urbanizzazioni o dei moduli sono appena cominciate.

Un sistema da ripensare
Infine, una nota sui tempi previsti per la costruzione delle casette. Era stata fatta una stima di sette mesi, ma la protezione civile dice che va fatta una precisazione: “I sette mesi vanno considerati da quando l’area è messa a disposizione della ditta che deve costruire le sae”.

Ma i conti non tornano in ogni caso. Da contratto, le ditte devono consegnare il 50 per cento di ogni area sae “entro e non oltre 30 giorni naturali e consecutivi (compresi i festivi)” e il resto entro 60 giorni. Anche se a questi 60 giorni aggiungiamo i 90 previsti per le urbanizzazioni, non si arriva comunque ai sette mesi stimati al principio, a meno che per l’urbanizzazione finale, cioè per la cura dei giardini, non siano previsti altri 60 giorni.

In definitiva, si ha l’impressione che resti discutibile, se non ingiustificabile, l’enorme ritardo accumulato da tutti i soggetti coinvolti nel progetto di costruzione delle sae: stato, regioni, comuni e imprese. Da aquilano, è ancora più ingiustificabile se si pensa che nel 2009 i primi progetti Case (strutture in muratura e piastre antisismiche) furono costruiti e consegnati a soli cento giorni dall’inizio dei cantieri, mentre i circa tremila Moduli abitativi provvisori (Map) furono realizzati in tre-quattro mesi. Il confronto con quanto si fece all’Aquila è impietoso.

Il cuore del problema riguarda sia la politica sia il sistema nato per affrontare le situazioni dopo i terremoti. Se nel 2011 il governo decise di cambiarlo è perché probabilmente ne riconosceva i difetti. Il “modello Bertolaso” si era dimostrato tempestivo, ma ha rivelato anche tratti oscuri nella gestione, evidenziati dalle inchieste della magistratura; per non parlare dei crolli dei balconi e dei pilastri marci dei progetti Case o il sequestro di interi villaggi di Map.

Il tentativo di accorciare i tempi e dare il prima possibile i poteri alle istituzioni locali, nonché le forniture di beni e servizi tramite gara d’appalto, non ha prodotto i risultati sperati. Il processo è stato lento e macchinoso, e ha deresponsabilizzato i soggetti coinvolti.

Non resta che sperare che almeno non ci siano anche problemi con i terreni scelti e le urbanizzazioni, che non ci siano altri difetti nelle strutture o che col tempo ne spuntino fuori altri. Cose del genere farebbero perdere alle case e ai terremotati che le abiteranno la dignità che gli resta.

Da sapere

Alle 3.36 del 24 agosto 2016 un terremoto ha colpito l’Italia centrale, con epicentro tra Amatrice e Accumoli, in provincia di Rieti. Le vittime sono state 299. Due altre scosse – di magnitudo 5,4 e 5,9 – sono state registrate il 26 ottobre 2016, con epicentro vicino a Castelsantangelo sul Nera, in provincia di Macerata. Il 30 ottobre 2016 è stata registrata una scossa di magnitudo 6,5, con epicentro tra Norcia e Preci, in provincia di Perugia. Il 18 gennaio 2017 si sono verificate quattro altre scosse di magnitudo superiore a 5. Gli epicentri sono stati registrati in provincia dell’Aquila, a Montereale, Capitignano, Pizzoli e Campotosto.

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