18 ottobre 2017 16:34

Ha una sceneggiatura ridondante, per le troppe cose che vuol dire e i troppi modi in cui le dice, Gatta Cenerentola. Ciò nonostante è il film italiano più sorprendente di questa stagione, e non solo per la tecnica. Il gruppo (sottolineo “gruppo”, è importante insistere sui gruppi) di giovani e spericolati napoletani che lo ha realizzato – Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Dario Sansone e Marino Guarnieri assistiti da cento altri e altre con Luciano Stella alla produzione – ha infatti dimostrato come, in un ramo tra i più difficili e conformisti come quello del disegno animato, si può riuscire a dire cose molto importanti e necessarie, anche più – per la disponibilità della tecnica qualora la si sappia piegare a finalità serie – di quanto non succeda con il cinema documentario e con gli attori.


Gli esempi di una tecnologia piegata all’espressione e addirittura alla politica – intesa come responsabilizzazione dei singoli nei confronti del mondo in cui si vive, in cui si è cresciuti e che si intende contribuire a rendere migliore – non sono cosa di tutti i giorni, anche se è di tutti i giorni la spettacolarizzazione (in letteratura più ancora che in cinema), per esempio, dei mali di Napoli, la città dei nostri quattro registi.

Di tecnica capisco poco, e mi limiterò dunque a segnalare la scioltezza e vivacità del linguaggio, che mescola figure umane (disegnate, ma di personaggi vivi, presenti, attivi) e ologrammi (figure disegnate di morti, di non presenti alle concrete vicende raccontate) nel pieno svolgersi dell’azione; il movimento perfino a volte eccessivo che presiede alle inquadrature e alle scene, mimetico nei confronti di molti linguaggi spettacolari oggi in voga, da quello degli show televisivi – ma in tv serve a stordire e a evitare la noia, e più violentemente – a quello dei film a effetti speciali, costruiti come videogiochi per attrarre e stordire (rintronare, disabituare al pensiero e al giudizio) gli spettatori più giovani; la dimensione da acquario di tante scene e, negli esterni, l’ossessiva presenza di nugoli, bruscoli di sporco che vagano per l’aria della città avvelenandola; la frenesia dell’azione, le poche soste che servono a spiegarne gli episodi e il loro intreccio; la stilizzazione esatta di figure perfettamente riconoscibili, nel disordine dei movimenti.

Da Mergellina a Hollywood
Molte suggestioni vengono, è ovvio, dal cinema dei supereroi e dai fumetti alla Marvel, ma… Ma, per l’appunto, perché siamo a Napoli, ci si racconta Napoli, e si dispiega per farlo un immaginario fatto di ieri e di oggi e di domani, che mescola in modo ardito e sapiente le vecchie canzoni ultranote (quanto meno ai napoletani) e altre scritte ad hoc, un paesaggio riconoscibile e bensì violentato e mutato, la misera lingua italiana dell’oggi giornalistico e il dialetto dello sfogo affettivo o volgare.

Un grande lavoro di invenzione, riflessione, elaborazione e rielaborazione per affrontare, di fatto, con santa ambizione, i problemi di una città e di una identità (di una cultura, in senso antropologico) in mutazione, in crisi. Lo ieri e il postmoderno. Francesco Mastriani (il romanzo d’appendice dell’800) e Francesco Rosi (quello delle Mani sulla città, anche nella velleità riformatrice, qui ben più sconsolata rispetto a quella di allora). La scuola di Sergio Bruni e i neomelodici e la musica amerikana. Mergellina e Hollywood. Ma, grazie al cielo, senza più neorealismi lagnosi e ricattatori, con violenza, con motivata aggressività. Di napoletani scontenti e, per fortuna, combattivi.

La trama è, si è detto, troppo ricca, ma ha una sua chiara linearità nel rielaborare a suo modo la fiaba del Basile e nel trascurare la versione musical di De Simone, d’altra e alta retorica. Ruota attorno al progetto di una città “della scienza e della memoria” progettata da un capitalista-riformista – i due bisogni di oggi, per gli autori, non meno forte il secondo, la memoria, del primo, la scienza – e al suo idealizzato ideatore, fatto fuori per un misto di interessi e di umori dal rappresentante di un vecchio-nuovo criminale (oggi internazionale, globale). E ruota intorno all’ultima delle figlie del buon capitalista, male amata da una madre cinica e passionale come da stereotipo ma protetta da un “buono” che sa mettersi dalla parte della Legge. Due idealizzazioni del Bene e del Male, le cui forze confliggono eternamente, ma qui con la faticata vittoria dei Buoni.

Gli autori del film sanno di cosa parlano, hanno ben chiara la storia della loro città, ne apprezzano il lascito e ne sognano il riscatto. Giocano con i luoghi comuni e sanno usarli con aggressiva libertà. Non è poco. Non è poco per Napoli – la Napoli di oggi, con le sue pulsioni distruttive, autodistruttive. Non è poco per il cinema di animazione, che diventa finalmente anche cinema “politico”. Non è poco per un cinema italiano che ha bisogno di narrazioni non superficiali e compiacenti, sia di indagine realistica sia di spiegazione didascalica sia di messa in discussione di un’antropologia massicciamente manipolata e corrotta. Ma che ha anche bisogno di libertà d’invenzione e di sguardo, di stare adeguatamente nei dilemmi del nostro tempo senza subire il fascino imbecille di un nuovo ignobile che chi comanda ci impone.

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