08 settembre 2017 12:27

“Il papa? Quante divisioni ha?”, aveva chiesto Stalin nel 1935, battuta mitica e inevitabile quando ci si interessa al potere reale del Vaticano. Tuttavia ottant’anni dopo la Santa sede è sempre al suo posto mentre il sistema sostenuto da Stalin è scomparso definitivamente.

La questione si ripropone di nuovo con papa Francesco, che prende regolarmente delle posizioni scomode rispetto ai dogmi della sua chiesa, senza però che sia ancora possibile giudicarne l’impatto reale e duraturo. Come nel caso della dichiarazione netta, categorica, senza appello, contenuta in Politique et societé, il libro-intervista con il sociologo Dominique Wolton uscito in Francia il 6 settembre (edizioni L’Observatoire): “Nessuna guerra è giusta”. Una posizione che probabilmente gli sta molto a cuore nel suo lungo viaggio in Colombia. Un viaggio destinato a sostenere e consolidare la pace con la guerriglia delle Farc, l’ultima guerra d’America Latina che il Vaticano ha contribuito a risolvere.

Abbiamo imparato in filosofia politica che per difendersi si può fare la guerra e considerarla giusta. In realtà la sola cosa giusta è la pace

A piccoli passi la chiesa cattolica, ancora prima dell’arrivo del papa attuale, aveva cominciato ad abbozzare la rottura con la dottrina della “guerra giusta” definita da Agostino d’Ippona (sant’Agostino) nel quinto secolo, sviluppata da Tommaso d’Aquino (san Tommaso) nel tredicesimo secolo e in seguito da altri autori cattolici, al punto da far parte del catechismo della chiesa cattolica.

Ma nessuno lo aveva fatto in modo così netto come Francesco in questo libro: “Ancora oggi dobbiamo pensare con attenzione al concetto di ‘guerra giusta’. Abbiamo imparato in filosofia politica che per difendersi si può fare la guerra e considerarla giusta. Ma si può parlare di ‘guerra giusta’? O di ‘guerra di difesa’? In realtà la sola cosa giusta è la pace”.

Wolton gli chiede: “Vuole dire che non si può usare l’espressione ‘guerra giusta’?”.

La risposta del papa: “Non mi piace usarla. Si dice: ‘Io faccio la guerra perché non ho altra possibilità per difendermi’. Ma nessuna guerra è giusta. L’unica cosa giusta è la pace”.

Il dibattito interessa tutta la chiesa. Il mese scorso nel clima di violenze che avevano caratterizzato gli avvenimenti di Charlottesville negli Stati Uniti, una grande conferenza cattolica americana aveva chiesto a papa Francesco di scrivere un’enciclica sulla non violenza. Secondo il giornale La Croix in un passaggio intitolato “delegittimare la guerra”, i religiosi americani rimettevano esplicitamente in discussione la dottrina della guerra giusta chiedendo di “smettere di giustificare la guerra”.

Delegittimare la guerra
E il quotidiano cattolico ricorda che nell’aprile del 2016 gli organizzatori di Pax Christi International, un movimento cattolico mondiale per la pace, avevano “condannato esplicitamente questa dottrina plurisecolare e avevano già chiesto al papa di scrivere un’enciclica sull’argomento”.

Delegittimare la guerra, l’idea può far sorridere in un momento in cui potrebbe scoppiare un conflitto nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord o mentre infuria in Siria o nello Yemen, o ancora non si è spenta in Afghanistan e rischia di riaccendersi in Ucraina. Insomma, in un periodo in cui la guerra occupa un posto importante nei giornali.

Tuttavia questo dibattito non è solo teorico o semplicemente teologico. Sul lungo periodo, che è quello della chiesa, la questione non sembra più porre problemi: sono ormai finiti da secoli i tempi delle crociate, quelle vere, quelle che si facevano in nome di Cristo e benedette dal papa e dai vescovi (benedizioni peraltro non scomparse, se nel 2015 la chiesa ortodossa ha benedetto l’intervento russo in Siria).

Eppure la guerra continua ad aver bisogno di legittimità. La dottrina cattolica elaborata nel corso del tempo prevede tre condizioni per una “guerra giusta”: 1) l’autorità, che deve essere il potere pubblico; 2) la giusta causa, e in particolare il fatto che l’uso delle armi non provochi mali o disordini più gravi di quelli che si vogliono eliminare; 3) la giusta intenzione, cioè che la guerra debba essere fatta nell’interesse generale e non personale.

Così in nome di alcuni princìpi generali, che hanno trovato la loro traduzione nel campo politico moderno, si sono potute giustificare molte guerre, anche quelle che a distanza di tempo appaiono oggi ingiuste, come per esempio le guerre coloniali o neocoloniali.

E nella nuova fase nella quale il mondo è entrato con la fine della guerra fredda nel 1991, la guerra ha avuto ancora più bisogno di legittimità. Questa può venire dalla legalità internazionale, dal Consiglio di sicurezza dell’Onu (intervento in Afghanistan nel 2001, in Libia nel 2011) o dalla richiesta di aiuto da parte di uno stato (intervento russo in Siria, francese in Mali e così via).

Quando infatti questa legittimità sembra mancare, come in occasione dell’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, l’opinione pubblica si oppone. Tony Blair per esempio continua a pagare le conseguenze della sua partecipazione alla guerra in Iraq, mentre Jacques Chirac e Dominique de Villepin beneficiano dell’immagine favorevole di aver saputo dire di no a George W. Bush.

Le guerre dall’inizio degli anni duemila fino a oggi – in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Yemen e così via – hanno finito per sollevare la questione della legittimità e dell’efficacia del ricorso alla forza per risolvere dei conflitti complessi. Questi interventi, per lo più occidentali ma non solo, sono quasi sempre finiti male, come ha dimostrato l’invio di nuove truppe statunitensi deciso da Donald Trump là dove gli americani speravano di trovare una via di uscita onorevole.

Una delle condizioni della “guerra giusta” – il fatto che l’uso delle armi non provochi mali e disordini più gravi di quelli che si vogliono eliminare – basterebbe a delegittimare questi interventi se si fa riferimento all’Iraq, alla Libia o allo Yemen. E serve di certo ai generali statunitensi come strumento per calmare gli ardori bellici di Trump nella penisola coreana.

La presa di posizione del papa non basterà ovviamente a mettere fine alle guerre o a impedirne di nuove. Prima di tutto perché nessuno chiede più il parere del papa prima di inviare il proprio esercito, ma anche perché non cambieranno dall’oggi al domani né le logiche politiche nel mondo né le rivalità tra le potenze né i conflitti provocati da forze non statali come il gruppo Stato islamico.

Una via aperta
Ma la forza del papa, le sue “divisioni” per utilizzare l’espressione di Stalin, deriva principalmente dalla sua dimensione morale e simbolica. Il pontefice stabilisce un termine, apre una via e una riflessione che impiegherà del tempo, molto tempo a dare i suoi frutti.

Nel caso migliore il papa obbligherà gli stati, questi mostri freddi, a fare degli sforzi ulteriori per legittimare le loro guerre agli occhi della loro opinione pubblica e del resto del mondo.

Ma non è necessario essere cattolici o attirati da Francesco per essere sensibili al suo discorso: “Non c’è guerra giusta”. In futuro ci saranno ancora delle guerre, alcune forse inevitabili a causa di un contesto difficile, altre puramente difensive, ma almeno non saremo più costretti a sentirci dire che sono “giuste”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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