19 maggio 2017 22:14

A latere della marcia per l’accoglienza che si tiene sabato a Milano può essere utile un rapido ripasso di quello che l’ultima settimana ci ha regalato in materia di migranti e integrazione. Atto primo, le incaute dichiarazioni della presidente (Pd) del Friuli-Venezia Giulia Debora Serracchiani, sul reato di stupro che vale doppio, o è il doppio esecrabile, se commesso da un “ospite” o aspirante tale, che perciò stesso dovrebbe sentirsi in debito di riconoscenza con il paese ospitante e stare con due piedi in una scarpa. “Incaute”, in verità, non è l’aggettivo giusto: fossero state dichiarazioni incaute, le avrebbe corrette dopo le critiche che le sono piovute addosso. Invece Serracchiani le ha ribadite con convinzione, appellandosi per giunta – per esempio nel corso di una intervista radiofonica su Zapping del 15 maggio – alla più dubbia delle categorie cui un politico possa far riferimento, quella del “buon senso comune”. Che dice il buon senso comune? Più o meno questo: noi li accogliamo (forse) e loro per ringraziamento ci stuprano le donne. Come spesso accade, il buon senso comune si rivela portatore di una serie di nefandezze: un “noi” inteso come comunità nazionalista-maschile; una concezione delle donne come proprietà della suddetta comunità; una confusione implicita fra etica e diritto, che fa passare per ospitalità graziosamente concessa il dovere costituzionale di dare asilo a chi ha i requisiti per ottenerlo; un’idea graduata della violenza sul corpo femminile, che sarebbe più odiosa se perpetrata da un ospite piuttosto che da un marito o da un ex fidanzato, e dunque – se ne deduce - più accettabile nel caso contrario; un condono implicito della violenza maschile indigena – ed endemica – a fronte di quella maschile migrante – ed epidemica. Complimenti a Serracchiani: mai s’era vista una rottamazione più rapida del senso comune femminile – quello che sa che uno stupro è uno stupro, è imperdonabile chiunque lo commetta, e purtroppo a commetterlo sono più gli indigeni che gli ospiti – a vantaggio del senso comune xenofobico – quello che serve titillare per accreditarsi come classe dirigente perbene di un paese invaso da ospiti indesiderati che non sanno come si sta a tavola. Ma purtroppo Serracchiani non è sola.

Atto secondo, la sentenza della corte di cassazione contro l’usanza sikh di girare per strada con un kirpan, ovvero un coltello lungo 18 centimetri, considerato simbolo religioso. Proibirlo è sacrosanto: in Italia non è lecito – ancora – girare armati, anche se una consistente fetta di “buon senso comune” sbraita in tv a tutte le ore che un’arma in casa ci vuole eccome, per “legittima difesa” contro eventuali invasori notturni, e il parlamento è stato lì lì per autorizzarla ma per fortuna non c’è ancora riuscito. Dunque per vietare quel coltello bastava un secco e asciutto richiamo alla legge vigente. Senonché ai giudici non è bastato: con quell’eccesso di zelo che talvolta li prende sono migrati anche loro, dal campo della legge a quello dei valori, con una confusione fra l’uno e l’altro che ignora decenni di dibattito sul rapporto fra multiculturalismo e stato di diritto, nonché sulle due soluzioni – quella assimilazionista-universalista francese e quella comunitarista-identitaria angloamericana, entrambe peraltro generatrici di ulteriori contraddizioni – che nelle democrazie occidentali sono state date al problema. La nostra cassazione infatti taglia corto: “È essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi”. Già solo su quel “liberamente” ci sarebbe da discutere, ma l’intero testo della sentenza – in più punti sgrammaticato, il che non aiuta – è un singolare e sorprendente esemplare non solo della confusione fra morale e diritto, ma anche, come ha notato Nadia Urbinati, della sovrapposizione fra intenzioni assimilazioniste e argomentazioni comunitariste. Insomma, né la pretesa universalistica del modello francese né la tolleranza di quello anglosassone, ma una miscela dei lati peggiori dell’uno e dell’altro, con il presupposto implicito della superiorità del “noi” europeo, ed eurocentrico, su tutti gli altri. Complimenti anche alla corte di cassazione, che con la sua sentenza finisce per dare argomenti allo stesso “buon senso comune” cui si appella Serracchiani.

Atto terzo, l’arresto di 68 adepti o seguaci o complici della cosca mafiosa Arena che da anni lucrava danaro, investimenti e consumi di lusso sui fondi europei destinati al Cara di Isola Capo Rizzuto in Calabria, con l’attiva partecipazione del capo della struttura regionale della Misericordia Leonardo Sacco e del parroco della città don Edoardo Scordio – il cui autista, tanto per dire il clima, nei giorni successivi ha minacciato di morte un giornalista di Piazza pulita che stava cercando di intervistarlo. Cinquecento pasti schifosi al giorno per gli oltre millecinquecento richiedenti asilo stipati e segregati nel Cara più grande d’Europa, isolato dal mondo con il filo di ferro: il resto dei fondi – cento milioni di euro in otto anni – finiva in mano al clan. Domanda alla cassazione: un profugo che arriva in Italia e finisce internato in un posto così – ma nella Mafia Capitale di Buzzi e Carminati non andava granché meglio – a quali valori si dovrebbe conformare? A quelli della famiglia Arena, di Leonardo Sacco e di don Edoardo Scordio? A quelli della prefettura che ha ignorato l’esistenza di un problema che i volontari dell’Arci di Crotone denunciavano da anni (si veda l’intervista a Filippo Sestito sull’Unità del 16 maggio)? A quelli dei governi italiani di destra e di sinistra che per anni hanno pervicacemente insistito sul modello del Cara di Sant’Anna invece di puntare, per restare in Calabria, sull’accoglienza diffusa modello Riace?

Non c’è nessun “noi” cementato da buoni valori da contrapporre a un “loro” che vi si dovrebbero conformare. Qualcuno, dopo la triste e deprimente scoperta dei traffici di Isola Capo Rizzuto, ha creduto bene di invitare “il fronte dell’accoglienza” a uscire dall’imbarazzo, a non chiudersi in difesa, a “spezzare l’omertà e l’imbarazzo” senza paura di fornire per questo argomenti al fronte opposto di chi vuole solo alzare muri (Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 17 maggio). È uno strano modo, come si dice, di rigirare la frittata. Come dimostra per l’appunto il caso dell’Arci di Crotone, non è dal fronte dell’accoglienza che sono mancate le denunce; casomai è dal fronte dello stato che è mancato l’intervento che poi è arrivato meritoriamente dalla magistratura. Nel mio piccolo accolgo tuttavia l’invito, ma in un altro senso. È proprio vero infatti che è ora di uscire dalla melassa dei buoni sentimenti. La speranza, il rispetto delle differenze culturali ed etiche, la fiducia in una società plurale, l’accoglienza, il sostegno ai più fragili e tutti gli altri sacrosanti principi cui fa appello il testo di convocazione della manifestazione di sabato a Milano non sono, a loro volta, soltanto una questione di buoni valori. Portarli avanti implica e implicherà sempre di più conflitti aspri, inevitabili e divisivi. Non con “loro”, ma fra “noi”.

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