11 aprile 2017 14:45

La sagoma sfocata e anonima dellasignora testimone compare sullo schermo piatto dell’aula. Pronuncia qualche parola in sango (la principale lingua parlata nella Repubblica Centrafricana), con la voce sintetizzata del computer. La “signora testimone” non si trova nell’aula della Corte penale internazionale dell’Aja, nei Paesi Bassi, ma a più di cinquemila chilometri di distanza, nella capitale centrafricana Bangui.

“Signora testimone”, spiega Sylvia Steiner, la giudice brasiliana che presiede il processo, “lei oggi è qui grazie alla tecnologia video per far conoscere sia ciò che ha visto, sia ciò che la preoccupa”. Tra una frase e l’altra passano lunghi secondi di silenzio, necessari per la traduzione in inglese e francese, le due lingue di lavoro di magistrati, avvocati e ufficiali giudiziari provenienti da cinque continenti. Oggi, 16 maggio 2016, è una giornata storica. Dopo 330 giorni di udienze, per la prima volta un responsabile militare è condannato per violenze sessuali in quanto crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

In questa sala asettica, l’ex uomo di stato della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) Jean-Pierre Bemba, ingessato in un abito scuro e piantonato da due poliziotti, ha perso la sua fierezza. La testa incassata nelle spalle imponenti, scruta con aria tetra lo schermo da cui testimonia la vittima. Ogni tanto alza lo sguardo verso i banchi riservati al pubblico, semideserti, mostrando in silenzio il volto rassegnato di chi conosce il proprio destino.

Il 21 marzo 2016, infatti, Jean-Pierre Bemba è già stato riconosciuto colpevole, in quanto capo militare, per due capi di imputazione per crimini contro l’umanità (omicidio e stupro) e tre capi di imputazione per crimini di guerra (omicidio, stupro e saccheggio). L’udienza di oggi determinerà quanti anni di carcere dovrà scontare per gli atti di violenza commessi dalle sue truppe.

Le vite segnate
La “signora testimone” è una delle 5.229 vittime riconosciute dalla Cpi per le violenze commesse tra il 26 ottobre 2002 e il 15 marzo 2003 nella Repubblica Centrafricana (Rca) dai 1.500 uomini della milizia Movimento di liberazione del Congo (Mlc) fondata da Jean-Pierre Bemba. La maggioranza di queste donne ha subìto violenze sessuali. Oggi i giudici ne ascoltano due, Flavie e Mélanie (nomi di fantasia), due donne dalle vite irrimediabilmente segnate.

Il loro calvario comincia quando le truppe di Bemba arrivano in aiuto del suo alleato Ange-Félix Patassé, il presidente della Repubblica Centrafricana minacciato dal colpo di stato di François Bozizé. Convinti che i civili abbiano sostenuto i ribelli, i miliziani arrivati dalla Rdc lanciano una vasta operazione punitiva.

Ci sono voluti quattordici anni di attesa perché la Corte riuscisse a condannare per la prima volta un alto funzionario per violenze sessuali

Flavie ha “tra i 15 e i 16 anni”. La rapiscono insieme a sua zia, poi le portano in due diversi campi dell’Mlc. “Quando sono arrivata alla loro base”, racconta sobriamente Flavie, “uno dei capi mi ha trascinata in una casa abbandonata […] e mi ha violentata”. Rimane sequestrata con altre donne, tra cui alcune tredicenni, e viene violentata tutti i giorni. Poi è costretta a seguire le truppe fino alla ritirata nella Repubblica Democratica del Congo. Arrivata lì, scopre di essere incinta ed è costretta a vivere con uno dei suoi violentatori. Il bambino morirà precocemente, ma Flavie avrà poi una bambina.

Dopo quattro anni, la ragazza riesce a fuggire con sua figlia nella Repubblica Centrafricana, dove si ricongiunge con la famiglia che la credeva morta. Ritrova anche la zia, che era stata a sua volta violentata. Ma il ritorno a una vita normale è impossibile. La zia, contagiata dall’hiv, muore per mancanza di cure.

Jean-Pierre Bemba. (Damien Roudeau)

La famiglia, a cui i miliziani hanno portato via tutto, vive nella miseria. Flavie non può tornare a scuola e, stigmatizzata dai vicini, decide di trasferirsi a Bangui, dove si sposa. Oggi è vedova, ed è stata ripudiata dalla famiglia del marito che ha saputo dello stupro. È priva di mezzi, ha tendenze suicide e vive con i suoi quattro bambini da una zia. La figlia nata a seguito delle violenze non sa nulla della sua storia. “La sentenza della Cpi non cambierà le mie condizioni di vita”, aggiunge al di là dello schermo, “ma qualcuno dovrà pagare per le atrocità che ha commesso”.

Flavie, Mélanie e le altre vittime dell’Mlc hanno avuto giustizia. Ma sono le uniche: tutte le altre donne che si sono appellate alla Cpi non hanno avuto questa possibilità.

Al cuore del sistema
Ci sono voluti quattordici anni di attesa perché la Corte riuscisse a condannare per la prima volta un alto funzionario per violenze sessuali, anche se la violenza sessuale è un crimine contemplato dallo statuto di Roma, il testo fondante della Corte. Eppure dal 2002, quando è stata istituita la Corte, quest’ultima ha preso in considerazione solo un terzo dei casi implicanti violenze sessuali.

Inoltre, due degli unici tre processi riguardanti queste imputazioni si sono conclusi con altrettante assoluzioni. Un bilancio incredibile se si pensa che tutte le situazioni su cui ha indagato la Cpi sono state il teatro di violenze sessuali di massa. La Corte non ha emesso condanne nemmeno per la Repubblica Democratica del Congo, paese universalmente noto per gli stupri commessi sui civili. È la dimostrazione degli errori della Cpi.

Al cuore della Corte penale internazionale c’è la figura che apre le inchieste, definisce le strategie investigative e identifica i sospetti: il procuratore. Nel 2003, Luis Moreno-Ocampo, il primo a ricevere l’incarico, ha dunque il compito di indicare gli obiettivi della sua squadra. Ma, quando entra in servizio nel 2004, la Corte sta appena prendendo forma: reclutamento del personale, organizzazione e creazione dei vari servizi sono ancora da mettere a punto. Gli esordi dell’ufficio del procuratore sono laboriosi.

Gli investigatori devono cominciare da zero. Nei primi mesi, per coprire tutta la Repubblica Democratica del Congo ci sono solamente due investigatori, costretti a lavorare in condizioni difficili: in un paese dalla sicurezza precaria, non hanno né un ufficio né un alloggio, e neppure un’auto a disposizione. Poi, finalmente, arrivano le prime assunzioni: nel 2005 gli investigatori per l’Rdc diventano dodici. Tra questi, però, sono pochi gli agenti di polizia.

Due approcci diversi
È ciò che voleva Luis Moreno-Ocampo. L’esuberante procuratore argentino si pone come l’araldo di una nuova giustizia penale internazionale. Esorta i suoi scettici collaboratori a “uscire dalle strade già battute!”. “Questo tipo di dichiarazioni ha mandato alcuni giuristi fuori di testa!”, racconta sarcasticamente Sacha (nome di fantasia), un altro dipendente della Corte.

Moreno-Ocampo si oppone all’assunzione di agenti di polizia nelle sue squadre e, al loro posto, preferisce ex dipendenti di ong, che a suo avviso hanno una maggiore familiarità con i contesti geopolitici. “Gli investigatori provenienti dalle polizie nazionali hanno sviluppato contatti, e si sono procurati delle fonti, all’interno delle milizie sotto inchiesta”, sostiene il procuratore rispondendo alle nostre domande via email. “Gli investigatori provenienti da altri contesti hanno trovato delle fonti tra le vittime. Sono due approcci diversi”.

Il procuratore argentino è deciso a smentire l’idea che la Corte si crogioli nell’immobilismo

Secondo alcuni collaboratori dell’ufficio del procuratore, questa resistenza a usare agenti di polizia è legata alla storia dello stesso Luis Moreno-Ocampo e a quella del suo paese.

In Argentina, dove negli anni ottanta ha partecipato ai processi alla giunta militare, Luis Moreno-Ocampo ha imparato a lavorare con le ong anziché con la polizia, complice del regime. Secondo Denis (nome di fantasia), un dipendente della Cpi che ha frequentato il procuratore e che ha accettato di rispondere alle nostre domande, le giovani reclute della Cpi provenienti dalle ong, benché “brillanti”, non sapevano “raccogliere elementi di prova, svolgere interrogatori rigorosi o gestire gli informatori”. Quanto bastava per rallentare indagini che già procedevano con difficoltà.

Eppure l’impetuoso procuratore argentino è deciso a smentire l’idea che la corte si crogioli nell’immobilismo. A dispetto della mancanza di risorse, bisogna presentare velocemente dei casi ai giudici, che diventano impazienti. Il procuratore decide di concentrare gli sforzi della sua squadra su massacri isolati, su incidenti circoscritti. Un metodo che lascia perplessi: “La probabilità di incappare sull’incidente che avrebbe permesso di risalire fino a un alto responsabile erano scarse”, osserva Denis. Alle sue squadre “il procuratore imponeva bruschi cambiamenti” negli orientamenti investigativi, racconta oggi Camille (nome di fantasia), ex dipendente della Corte. Per mancanza di tempo, alcune piste riguardanti massacri in cui sono stati commessi degli stupri, piste che avrebbero potuto portare a responsabili di alto livello, vengono esplorate e rapidamente abbandonate.

Luis Moreno-Ocampo vuole colpire duro, e in tempi rapidi. Tanto più che nel 2006 la Corte ha catturato il primo pesce grosso, Thomas Lubanga Dyilo, un signore della guerra della Repubblica Democratica del Congo, consegnato da Kinshasa. La scelta strategica di Moreno-Ocampo cade sulla sorte dei bambini soldato arruolati dalla milizia di Lubanga. E tanto peggio per le violenze sessuali commesse dalla milizia. Secondo Camille, la tematica dell’indagine sarebbe stata suggerita dalle ong. In occidente, giustamente, l’arruolamento dei bambini soldato suscita indignazione. Per i congolesi, però, “le violazioni sofferte più duramente erano i saccheggi e gli stupri”, commenta l’ex dipendente.

Eppure il procuratore ritiene di avere a che fare con un caso facile da gestire, per quanto simbolico. Ma le squadre dell’ufficio del procuratore si mostrano scettiche: “Come si fa a dimostrare l’età dei bambini in un paese in cui l’anagrafe non è affidabile?”, si chiede Camille. Una domanda che Luis Moreno-Ocampo, lanciandosi in questa crociata, elude. A suo avviso, in quel momento l’ufficio del procuratore era “una start-up mondiale in cui lavoravano collaboratori di tutto il mondo, dalle opinioni divergenti”, ci ha scritto. “All’inizio era molto difficile armonizzare le pratiche, il che creava diversi disaccordi”.

Crimini sessuali messi in secondo piano
All’interno dell’ufficio crescono le tensioni e il dirigismo di Luis Moreno-Ocampo non aiuta. Tra il 2005 e il 2007, frustrazione, incomprensione sulle strategie investigative e aleatori cambiamenti di obiettivo spingono una parte del personale dell’ufficio ad andarsene; tra questi, secondo Camille, “molti agenti di polizia esperti”.

Il primo processo della Cpi, quello al capo miliziano della Rdc Thomas Lubanga Dyilo, si apre nel gennaio del 2009. Nel corso di un’udienza, la rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per i bambini e i conflitti armati, Radhikha Coomaraswamy, tenta di mettere sul tavolo la questione delle violenze sessuali affermando che “fanno parte dell’utilizzo dei bambini soldato, in particolare delle bambine”. Un tentativo vano.

Luis Moreno-Ocampo. (Damien Roudeau)

Le imputazioni di questo processo, calibrate sulle limitate risorse dell’ufficio del procuratore, riguarderanno solo l’arruolamento dei minori di quindici anni. “Ci sono sempre state scelte difficili da fare”, riconosce oggi Luis Moreno-Ocampo. “Il caso Lubanga è un buon esempio. Ho dovuto scegliere tra mandare avanti le indagini per accumulare i capi d’accusa [contro Lubanga, ndr] o cogliere l’opportunità di arrestarlo immediatamente e avviare i primi procedimenti giudiziari”. Alla fine, nel luglio del 2012, Thomas Lubanga Dyilo è stato condannato a 14 anni di carcere, ma non è mai stato formalmente accusato di violenze sessuali.

Nell’inchiesta avviata in Uganda nel luglio 2004 sui massacri commessi dall’Esercito di resistenza del Signore (Lra), una milizia settaria e sanguinaria, lo scenario è lo stesso: sui cinque mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale nel 2005, solo quelli per i due alti funzionari Joseph Kony e Vincent Otti riguardavano anche accuse di stupro e schiavitù sessuale. Gli altri tre mandati di arresto (per Dominic Ongwen, Okot Odhiambo e Matthew Lukwiya) non includevano questi reati. “I crimini sessuali erano predominanti nell’Lra, ma i capi d’accusa non riflettevano i crimini commessi”, afferma Richard (nome di fantasia), ex dipendente della Cpi.

Ma anche in questo caso c’è una stretta sui tempi. Luis Moreno-Ocampo fa pressione sulle sue squadre per ottenere al più presto i mandati di arresto dai giudici, “per dimostrare al mondo che otteneva dei risultati”, sospira l’ex collaboratore.

Sembra che l’urgente bisogno del procuratore di mostrarsi in azione abbia prevalso su quello di condannare le violenze sessuali. Luis Moreno-Ocampo, che in passato ha animato in Argentina un reality show sulla giustizia, “aveva la tendenza a giocare con i mezzid’informazione”, ricorda Camille, e ha assunto il ruolo di primo ambasciatore della Cpi. Durante il suo mandato, inoltre, ha aperto le porte dell’istituzione per le riprese di quattro documentari. Ma l’immagine di persecutore dell’impunità contrasta con la sua reputazione all’interno. In particolare, quella di un uomo che preferisce collaboratori che “portano la gonna”, ironizza Denis.

L’ipotesi di una grave colpa
Un caso in particolare, denunciato dall’informatore Christian Palme e insabbiato dalla Cpi, avrebbe potuto offuscare l’immagine che Moreno-Ocampo aveva costruito di sé stesso.

E se il procuratore si fosse macchiato di una grave colpa capace di intaccare l’“alta considerazione morale” richiesta dal ruolo di procuratore della Cpi? Il 29 marzo 2005, Christian Palme, responsabile dell’ufficio stampa della Corte, si pone questa domanda. Quel giorno ha ricevuto un’email da un collega, Yves Sorokobi. Questi sembra imbarazzato perché “il capo ha fatto qualcosa di male”, come riporta la trascrizione della discussione tra i due uomini che figura nella denuncia presentata da Christian Palme contro Luis Moreno-Ocampo. Il procuratore avrebbe abusato sessualmente di una giornalista, il cui nome non è stato reso noto, durante una trasferta in Sudafrica nel marzo del 2005.

Quando i capi d’accusa contemplano le violenze sessuali, la giustizia trascura una parte delle vittime. Quelle che si trovano nel campo dei vincitori

Quel giorno, Luis Moreno-Ocampo aveva appena concluso un’intervista nell’albergo in cui alloggiava. Quando la giornalista ha fatto per congedarsi, il procuratore le avrebbe sottratto le chiavi dell’automobile e l’avrebbe trascinata nella sua camera, costringendola a un rapporto sessuale.

Yves Sorokobi, che è amico della giornalista, parlando al telefono con lei ha l’impressione che sia “sconvolta”. E registra il suo racconto dell’accaduto. Otto mesi dopo, il 30 novembre, è Christian Palme a registrare il collega, a sua insaputa, mentre gli racconta la presunta aggressione. Durante il colloquio, Yves Sorokobi gli fa ascoltare la registrazione della sua amica giornalista realizzata a marzo.

Il 20 ottobre 2006, il responsabile dell’ufficio stampa sporge denuncia alla presidenza della Corte accusando Luis Moreno-Ocampo del “reato di stupro, o violenza sessuale, o coercizione sessuale, o abuso sessuale”. La presidenza della Cpi respinge la sua denuncia in quanto “infondata”, come riportato dalla sentenza depositata l’8 maggio 2008 che ci siamo procurati. Il 16 marzo 2007 Christian Palme viene licenziato per “colpa grave”. Secondo la Cpi, avrebbe “formulato delle accuse false”.

Ma Christian Palme non si arrende e porta il caso all’Organizzazione internazionale del lavoro, competente nei casi di controversia tra le organizzazioni internazionali e i loro dipendenti. Alla fine l’Oil gli dà ragione e sanziona l’intervento del procuratore nel licenziamento dell’informatore. Nella sua sentenza, l’Oil ritiene che le prove fornite da Christian Palme, tra cui la registrazione da lui realizzata, “avrebbero potuto avere valore probatorio nel quadro di un procedimento penale”. La Cpi è condannata a versare a Christian Palme un risarcimento di 240mila euro. Per il momento, al caso non è stato dato alcun seguito all’interno della Cpi e neppure nelle aule giudiziarie sudafricane, poiché la presunta vittima non ha sporto denuncia. “L’Oil ha ritenuto che l’intento doloso del signor Palme non fosse stato dimostrato e ha ordinato un risarcimento”, commenta sobriamente Luis Moreno-Ocampo, che ha lasciato la Cpi quattro anni dopo, al termine del proprio mandato.

Mausolei contro donne violentate
Nel giugno del 2012 Luis Moreno-Ocampo viene sostituito dalla sua vice, la giudice gambiana Fatou Bensouda, eletta qualche mese prima. Nel 2014 Bensouda redige un “documento relativo alla policy sui crimini sessuali e a carattere sessista” che, a questo punto, dovranno essere esaminati in modo sistematico. Nel 2016 fa anche aggiungere nuove imputazioni per violenza sessuale a carico di Dominic Ongwen, un miliziano ugandese arrestato nel gennaio del 2015. Ma queste prese di posizione, purtroppo, non hanno impedito alla Cpi di ricadere nelle vecchie abitudini.

Nel settembre 2016, la Corte condanna il jihadista maliano Ahmad Al Faqi Al Mahdi a nove anni di carcere per la distruzione del mausoleo di Timbuctù, in Mali, nel 2012. A soli quattro anni dai fatti, arriva un verdetto, che però non tiene conto del ruolo dell’accusato nella gestione della squadra buoncostume della polizia, presumibilmente responsabile di stupri e matrimoni forzati. Ancora una volta, le vittime di violenze sessuali restano le grandi dimenticate in un caso che è stato molto seguito dai mezzi d’informazione (Fatou Bensouda e l’ufficio del procuratore non hanno risposto alla nostra richiesta di rilasciare un’intervista).

Damien Roudeau

Quando poi, finalmente, i capi d’accusa contemplano le violenze sessuali, la giustizia trascura talvolta una parte delle vittime. Quelle che si trovano nel campo dei vincitori. Nel caso Bemba, avviato da Luis Moreno-Ocampo, i giudici non hanno condannato tutti gli aggressori. È stato il primo processo in cui la Cpi abbia emesso una condanna per violenze sessuali ed è stato ampiamente coperto dai mezzi d’informazione, ma ha passato sotto silenzio gli stupri commessi dal campo avversario, quello di François Bozizé.

Ricerche abbandonate
Eppure, la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) aveva cercato di perorare la causa di queste vittime inviando al procuratore dei rapporti riguardanti gli abusi, anche se meno numerosi, commessi dalle truppe di François Bozizé. In un rapporto che la ong fa pervenire al procuratore nel febbraio del 2003, si osserva che il 30 per cento delle vittime di violenza riconosciute a Bangui aveva subìto abusi compiuti dai ribelli. Nel novembre del 2004, Amnesty international segnala gli stupri “generalizzati” commessi dagli uomini di Bozizé, in particolare nelle città di Kaga-Bandoro, Bossangoa, Sibut e Damara.

“Questo caso ha dato l’impressione che le cose non siano state seguite fino in fondo”, osserva Euphrasie Goungaye, vedova dell’avvocato centrafricano Nganatouwa Goungaye Wanfiyo, un attivista dei diritti umani che ha lavorato – e forse pagato con la vita – affinché fossero ascoltate tutte le vittime, anche quelle dei ribelli. “François Bozizé aveva paura di essere portato davanti alla Cpi”, afferma Euphrasie Goungaye.

Nonostante le minacce e i tentativi di persuasione (compresa l’offerta di un portafoglio ministeriale), l’avvocato insiste e mette insieme i fascicoli di tutte le vittime che la Fidh aveva comunicato all’ufficio del procuratore. “Ma non ha avuto il tempo di arrivare al processo”, constata amaramente la vedova. La notte del 28 dicembre 2008 la sua auto si scontra con un camion e l’avvocato muore sul colpo.

Ma, anche se la Cpi avesse indagato su François Bozizé, il miliziano avrebbe collaborato? Avrebbe trasmesso le prove a suo carico come richiesto dallo statuto di Roma? La Cpi, priva di forze di polizia, avrebbe potuto costringerlo a comparire? Non è sicuro. D’altro canto, l’arresto di Jean-Pierre Bemba da parte delle autorità belghe, avvenuto il 24 maggio 2008 a Bruxelles, è stato facile perché Bemba era stato esiliato dal suo paese. Ange-Félix Patassé, il deposto presidente centrafricano che aveva fatto appello agli uomini di Bemba per rimanere al potere, si è rifugiato in Togo, paese che non è firmatario dello statuto di Roma. Nei suoi confronti non è mai stato spiccato un mandato d’arresto ed è morto in Camerun nell’aprile 2011, senza essere stato punito per i crimini commessi.

L’arresto di Jean-Pierre Bemba avviene quando il capo dell’Mlc, che puntava alle più alte cariche dello stato della Repubblica Democratica del Congo, è in piena disgrazia politica. Il 29 ottobre 2006, in seguito ai violenti scontri nel paese, aveva perso il secondo turno delle elezioni presidenziali nella Rdc contro Joseph Kabila. Jean-Pierre Bemba “era d’intralcio, comprometteva la pace nel paese”, osservano degli ex dipendenti della Cpi. La Corte è stata strumentalizzata e ha favorito l’ascesa al potere di Joseph Kabila? La decisone di Luis Moreno-Ocampo di affidare l’inchiesta a un altro congolese, il procuratore Jean-Jacques Bandibanga, continua ad alimentare le voci sull’orientamento dell’inchiesta, che si è concentrata solo sulle accuse a Jean-Pierre Bemba.

Il gioco oscuro dei diplomatici alla Corte penale internazionale
L’accusa di strumentalizzazione politica della Cpi è supportata dai suoi rapporti con gli ambienti diplomatici: l’istituzione conta nelle sue file numerosi funzionari dei ministeri degli affari esteri.

Fin dalla sua creazione, l’ufficio del procuratore si dota di una Divisione per la giurisdizione, la complementarità e la cooperazione. “I diplomatici del procuratore”, sospira Denis, ex dipendente della Cpi. L’organismo, una sorta di anticamera dell’ufficio del procuratore, nei primi sette anni è stato infatti diretto da due diplomatici: tra il 2003 e il 2006 da Silvia Fernández de Gurmendi, ex direttrice aggiunta per i diritti umani presso il ministero degli affari esteri argentino, e dal 2006 al 2010 da Béatrice Le Fraper du Hellen, consigliera degli affari esteri della Francia, oggi ambasciatrice francese a Malta (Le Fraper du Hellen non ha risposto alla nostra richiesta di intervistarla).

La mescolanza tra l’ambito giudiziario e quello diplomatico era necessaria “in quanto, prima di avviare un’inchiesta, c’è un processo di identificazione dei problemi politici che porrà”, assicura Camille. Secondo altri, però, la Divisione era troppo potente. “All’inizio pensavo che questo organismo dovesse facilitare il nostro lavoro, ma invece sembrava prendere decisioni” riguardanti le inchieste, ricorda Richard. “In alcuni casi”, assicura, “la Divisione non voleva per forza l’arresto delle persone contro le quali era stato spiccato un mandato, ma si serviva dei mandati nell’ambito dei negoziati di pace in corso in quel momento”. Secondo Silvia Fernández de Gurmendi, oggi giudice e presidente della Cpi, “né la Divisione per la giurisdizione, la complementarità e la cooperazione né nessun’altra divisione della Corte ha lo scopo o il potere di compromettere il lavoro giudiziario della Corte”.

I sospetti di strumentalizzazione hanno minato la credibilità della Cpi presso una parte consistente degli stati africani, che si sentono sotto tiro

Attualmente l’ufficio del procuratore sta esaminando dieci “situazioni”. Una di esse, partita dieci anni fa, riguarda la Colombia e i crimini commessi nel conflitto tra le autorità e le Farc, tra cui figurano delle violenze sessuali. Al momento, però, non è stata aperta nessuna inchiesta.

“Un’istituzione come questa, che è priva di forze di polizia e può contare soltanto sulla collaborazione degli stati per eseguire i suoi mandati di arresto, è costretta a ricorrere alle risorse diplomatiche”, ammette un ex procuratore della Cpi.

Le inchieste svolte dall’ufficio sulle violenze postelettorali in Kenya tra il 2007 e il 2008, in cui più di 900 persone sono state vittime di violenze sessuali, hanno sofferto proprio della mancanza di forze di polizia. L’inchiesta è stata aperta nel 2009 e, nel 2013, il principale sospettato Uhuru Kenyatta è diventato presidente del Kenya, mentre un altro accusato, Francis Muthaura, è stato nominato capo della funzione pubblica. La Cpi si è scontrata con l’ostruzionismo del governo incriminato. Dopo aver subìto delle intimidazioni, alcuni testimoni si sono tirati indietro. Alla fine, l’ufficio e i suoi giudici hanno abbandonato le imputazioni a carico dei due accusati.

La Cpi in una situazione difficile
I sospetti di strumentalizzazione politica hanno minato la credibilità della Corte penale internazionale presso una parte sempre più consistente dei trentaquattro stati africani firmatari dello statuto di Roma, che si sentono sotto tiro. Da quando è stata istituita, in effetti, la Cpi ha processato solo africani. È difficile per la Corte uscire da questa situazione, perché tra coloro che non riconoscono la sua giurisdizione figurano anche due membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Cina e la Russia – che hanno tra l’altro posto il veto sulla richiesta dell’Onu di indagare sui crimini, comprese le violenze sessuali, commessi in Siria.

Le contestazioni dei paesi africani hanno finito per avvantaggiare il presidente del Sudan Omar Al Bashir, contro il quale la Corte ha emesso un mandato d’arresto nel 2009, in particolare per migliaia di stupri commessi dalla milizia janjawid. Nel frattempo, Al Bashir si è spostato in diversi paesi del continente senza mai essere arrestato.

Tra i paesi che lo hanno ospitato c’è il Sudafrica che, un anno dopo, ha annunciato la volontà di lasciare la Corte penale internazionale. Successivamente, la Corte suprema sudafricana ha dichiarato incostituzionale il ritiro del paese dalla Cpi, invalidandolo. Ma, lo scorso 13 gennaio, l’Unione africana ha approvato una strategia per il ritiro collettivo dallo statuto di Roma. Anche se non obbliga tutti i membri dell’Unione africana a lasciare la Corte, questa decisione dà voce ai sempre più numerosi oppositori della Cpi all’interno del continente. Tra questi, oltre al Sudafrica, ci sono Kenya, Burundi e Uganda.

Il 16 maggio 2016, nell’aula della Cpi, sullo schermo piatto appare Mélanie, la seconda vittima, che racconta il calvario che ha vissuto dopo aver subìto violenze sessuali di gruppo: i problemi di salute, il contagio dell’hiv, la difficoltà a pagare la terapia tripla [o “terapia Haart”, ndt] dopo la morte di suo padre. Un padre costretto ad assistere agli stupri della figlia, e ritrovato cadavere in una fossa comune. A tredici anni dai fatti, Mélanie non ha ancora detto nulla ai suoi figli, perché “non vuole disturbarli”. Ma alla fine, nel gelo dell’aula, la vittima sospira: “Mi sento bene, liberata, sollevata, perché ho potuto dire quello che da anni avevo da dire”.

(Traduzione di Cristina Biasini)

Questa inchiesta fa parte di una serie in sei parti del progetto Zero Impunity, che documenta e denuncia l’impunità di cui godono i responsabili di violenze sessuali in contesti di guerra. Il progetto è a cura di Nicolas Blies, Stéphane Hueber-Blies e Marion Guth (a_Bahn), un gruppo di “documentaristi attivisti” che attraverso il loro sito promuovono anche una mobilitazione online per chiedere alle autorità di dotarsi degli strumenti necessari a combattere questo fenomeno e a perseguire i colpevoli

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