20 marzo 2017 14:56

Elle comincia con uno stupro. Questo lo sanno tutti ormai. È la ragione principale per cui il film viene considerato “scioccante”, o nel migliore dei casi “molto impegnativo”, fin dalle prime proiezioni al festival di Cannes dell’anno scorso. La prima scena, in sé, si presta a un minimo margine di ambiguità, ma le successive stabiliscono che non si è trattato di un gioco tra adulti sani e consenzienti: no, quella che ci è appena passata sotto gli occhi è stata una robaccia in piena regola. Non ci sono alibi, e non c’è bisogno di una seconda visione, di un flashback, che puntualmente arriva, per confermare la natura di quello che abbiamo visto. Tutto è proprio come sembra. La protagonista, Michèle, è stata violentata in casa sua.

Difficile immaginare qualcuno che incarni con tanta precisione il cliché della buona vittima. Michèle è una donna bianca, istruita, benestante, di mezz’età. Non conosce il violentatore, che aveva il volto coperto da un passamontagna. Non se l’è andata a cercare. Se lei parlasse, nessuno la accuserebbe di aver inventato la storia per vendicarsi di una vecchia fiamma o per attirare l’attenzione, o di aver solo cambiato idea un minuto troppo tardi. E invece lei sceglie di restare in silenzio.

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Nella narrazione tradizionale di uno stupro, la violenza taglia a metà la vita della vittima: esiste un prima e un dopo, e niente rimane uguale. Per sopravvivere, ci viene detto, si diventa qualcun altro. Michèle si ribella a questo stato di cose. Non vuole diventare un’altra e non vuole mettere tra parentesi la realtà per come l’ha affrontata fino a quel giorno. Allora archivia tutto, con metodo. Rimette in ordine la stanza, prepara un bagno caldo, getta il vestito che indossava al momento dell’aggressione, si fa le analisi del sangue tanto per verificare di non aver preso una malattia venerea, e poi passa oltre. La robaccia non la cambierà.

Le radici della violenza
Quando ne parla agli amici, respinge con stizza le loro preoccupazioni. È vero, Michèle ha forti ragioni individuali dietro le frasi che usa per giustificare la decisione di non sporgere denuncia. Il suo astio verso “la polizia e i giornalisti”, messi insieme a formare un mantra indifferenziato, ha radici molto profonde. Però la sua spinta principale è il rifiuto di essere definita come persona da un singolo evento. Se non che, guarda un po’, la violenza finisce lo stesso per definirla. Lo stupratore non la lascia stare. Le manda messaggi, la tiene d’occhio. Michèle arriva a sospettare di diversi tra gli uomini che le girano intorno, compresi i suoi dipendenti.

L’unico aggiornamento rispetto al materiale di base (il romanzo Oh… di Philippe Djian, pubblicato in Italia da Voland) sta nel far dirigere alla protagonista una casa di produzione di videogiochi, e quindi il possibile colpevole viene individuato in questo o quel programmatore scontento, che mal sopporta di dover ubbidire a un capo femmina, anche se il capo non batte ciglio quando ordina “più spasmi orgasmici” sul viso di una ragazza penetrata dai tentacoli di un mostro. In caso il colpevole vada cercato altrove, alla base del fatto ci sarebbe sempre il desiderio di rimettere Michèle al suo posto, punirla per un torto, fosse anche il puro fatto di esistere. Sarebbe un crimine d’odio, comunque, volto a colpire lei in particolare. Non basta umiliarla: il desiderio, qui, è di cancellarla.

Nel concepire il film Paul Verhoeven non deve aver tenuto in considerazione il clima legato a certi veri casi di stupro e al relativo fango buttato addosso a chi denuncia. Ma la scelta di questo progetto non è stata casuale. In passato Verhoeven è stato tacciato di misoginia, essenzialmente per due tra i suoi film girati negli Stati Uniti, Basic instinct e Showgirls (entrambi, va detto, sceneggiati da un’altra persona, Joe Eszterhas), dove al centro della storia c’era una donna pericolosa, in apparenza amorale. Sembra un altro mondo il passato recente dei primi anni novanta in cui gli attivisti lgbt organizzavano picchetti sul set di Basic instinct, colpevole, molto prima di essere proiettato in pubblico, di presentare una visione fosca e distorta delle vite reali di gay e lesbiche. Quando poi, a guardare il prodotto finito, era l’anti-eroina bisessuale il cuore pulsante del film, l’unico personaggio per cui si potesse parteggiare o che si seguisse con attenzione.

Non ci si mette davanti a un film di Paul Verhoeven se si cerca un racconto prevedibile, con buoni e cattivi ben definiti

Ma già in quel periodo la memoria di chi giudicava Verhoeven era corta: la protagonista di L’amore e il sangue (1985), Jennifer Jason Leigh, cercava di voltare a proprio favore i termini di una prigionia, manipolando il suo carceriere e finendo per infatuarsene. Insomma, lui funziona così da sempre. Non ci si mette davanti a un suo film se si cerca un racconto prevedibile, con buoni e cattivi ben definiti. Ora sarebbe scorretto individuare la genesi di Elle in un desiderio di rivalsa: non ci si sobbarca il costo fisico ed economico del girare un film soltanto per rispondere a qualche osservazione negativa. Ma nel giro di mezza giornata dell’anno scorso Verhoeven è passato dall’essere un autore scoppiato all’essere un vecchio leone che dava lezioni di stile a tutto il mondo, e gongolava nel riferire quanto alto fosse il numero di attrici americane che avevano rifiutato il ruolo di Michèle, secondo lui perché il film non prevedeva una vendetta convenzionale.

Negli anni di relativa inattività, però, aveva girato un film un po’ sottovalutato, Black book, la storia di un’ebrea tedesca rifugiata in Olanda durante la seconda guerra mondiale, reclutata come spia da una resistenza composta in quasi totalità da uomini orribili. Niente, nel suo lavoro di oggi, è una novità assoluta. La voglia di rileggere l’autore va tenuta a freno, tanto quanto il bisogno di incasellare Elle in un genere solo. Verhoeven non era un pazzo che odiava le donne prima e non è un paladino del femminismo adesso. È solo un regista che ha tirato dritto per la sua strada, passi falsi compresi. Uno che mette volentieri in primo piano un personaggio deciso a mandare avanti la propria vita senza lasciarsi distruggere dagli eventi: anticipandoli, magari, o studiando una strategia per uscirne vincente.

La vendetta non ha genere
Il tono di Elle oscilla fra il thriller e la commedia nera, spesso nell’arco di pochi minuti, e nelle recensioni scritte a ridosso di Cannes è molto evidente l’imbarazzo provato da alcuni critici, come anche il desiderio di non sembrare sessuofobi rivelando alcune svolte narrative. Il test personale che viene affidato allo spettatore qualsiasi, il punto in cui il film dimostra di essere rischiosissimo e pienamente risolto, sta nel momento in cui si supera la soglia della risata, liberatoria, isterica o compiaciuta.

Verhoeven ha respinto l’accusa di aver realizzato una rape comedy, una commedia con lo stupro, sottolineando, giustamente, che durante determinate scene non ride nessuno. Ma durante altre sì, e tanto. La risata parte quando sullo schermo passa un frammento, un dettaglio che ci ricorda la nostra vita individuale: le feste tra amici dove si ascolta Lust for life, i litigi tra chi pretende di guardare la messa di Natale in tv e chi si versa da bere alzando gli occhi al cielo, lo scatto nervoso di una sigaretta accesa nel giardino di un ospedale, il demente che spiega un suo scherzo di pessimo gusto dicendo “la cosa è un po’ degenerata”. Di colpo, noi siamo lì dentro. Non più spettatori ma parti in causa. Diventiamo la lei del titolo.

E il compito di questi dettagli è mostrarci quanto la vita di Michèle fosse precaria anche molto prima dell’inizio del film: lo stupro è stato solo la frattura che porta alla luce quanto si stava per rompere, un accidente tra i tanti che non smettono di capitare (dalla madre bramosa di risposarsi con un gigolò alla fidanzata del figlio che partorisce un bambino di paternità incerta). Tutto frana. In mezzo c’è soltanto una persona, lei, che cerca di tenere testa a una situazione incredibile. E poco per volta recupera il controllo su quanto le è successo: non può concedersi il lusso della rimozione, allora prende una serie di decisioni che non hanno nulla a che vedere con il femminismo (o con il maschilismo), ma con l’affermazione brutale della propria identità. È lei che si muove, è lei che sceglie di mettersi in gioco, una volta accettato che sì, la violenza la sta cambiando, in una maniera che nessuno avrebbe potuto prevedere. Ci ritroviamo a seguire il personaggio con il fiato sospeso, come se una vittima in cerca di pace si fosse trasformata sotto i nostri occhi in una cattiva piena di carisma. Ci chiediamo: “Oddio, cosa farà adesso?”. E in questo, non in altro, sta la sua vera vendetta.

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