07 febbraio 2017 13:29

“Mi hanno tolto i vestiti!”. Gridando senza neppure rendersene conto, una ragazzina di undici anni vaga per le strade del suo villaggio nei pressi di Daraa, nella Siria meridionale. La piccola Nora urla brandelli di parole, frasi senza capo né coda, ripetendo senza sosta: “Mi hanno tolto i vestiti! Mi hanno tolto i vestiti!”. Fatima, una donna di 35 anni, la incontra all’angolo di una strada. Si era lanciata disperatamente alla sua ricerca qualche ora prima, avvertita dalle voci secondo cui sua figlia era stata rilasciata insieme ad altri bambini.

Di fronte alla ragazzina, la madre fatica a distinguere quei tratti che conosceva a memoria. Si avvicina. Nora, in stato di shock, non la riconosce. Il loro ultimo incontro risale alla sera del 3 maggio 2011, un mese e mezzo prima. Quarantacinque giorni, un’eternità. Siamo agli esordi della primavera siriana, il regime schiaccia le manifestazioni, sempre più numerose in tutto il paese. Daraa è l’epicentro della rivolta popolare, e tutta la regione è oggetto di un’ondata di repressione ancora più sanguinosa.

All’inizio di maggio del 2011 i militari e gli shabiha, i miliziani filogovernativi, circondano la città. Mentre gli elicotteri sorvolano i quartieri, i soldati perquisiscono le case per scovare i “terroristi”. Tra questi Karim, il marito di Fatima, accusato di aver aiutato i feriti colpiti dai proiettili durante le manifestazioni di piazza. Quella sera lui non c’è. I soldati ordinano alla moglie di contattarlo. Fatima continua a ripetere che sono “quasi divorziati”, ma loro non le danno ascolto.

Un ufficiale posa gli occhi sui due bambini presenti nella stanza. Fatima è presa dal panico. Per proteggerli, nega di essere la madre di Nora e del suo fratellino di cinque anni. Ma la bambina, terrorizzata, grida: “Mamma!”. “Prendiamo sua figlia in ostaggio finché il padre non si consegna”, annuncia l’ufficiale. Afferra Nora, per poi portarla in una base militare di Daraa, di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. La notte stessa, il padre di Nora si presenterà alla sede dell’intelligence militare per costituirsi. Ma sua figlia rimarrà prigioniera per quarantacinque giorni, e Karim non farà mai ritorno.

Molti genitori siriani scelgono di tacere le violenze subite dai figli per proteggerli dalla vergogna

Siamo a settembre del 2016, e Fatima racconta la storia di sua figlia. La famiglia ha lasciato la Siria quasi quattro anni fa e si è trasferita in un palazzo di un quartiere povero di Amman, capitale della Giordania. Nora è diventata una fragile adolescente di sedici anni. La sua abaya viola a fiori bianchi non riesce a velare la fragilità del suo corpo. Fatima parla a voce bassa, ma non nasconde la sua determinazione a voler testimoniare. Molti genitori siriani scelgono di tacere le violenze subite dai figli per proteggerli dalla vergogna dell’esclusione sociale che potrebbe derivarne, ma questa madre di famiglia ha deciso di far sapere “cosa ci ha fatto Bashar al Assad”.

Con un gesto lento, tira fuori delle scatole di medicinali da una borsa logora. “Nora prende delle pillole per calmarsi”, spiega dolcemente. “Non posso raccontarvi la sua storia davanti a lei, altrimenti…”. Altrimenti potrebbe farsi del male, visto che ha tentato diverse volte di togliersi la vita. Con pazienza, Fatima riferisce la storia che, alla fine, sua figlia le ha raccontato.

Quando Nora arriva alla base militare, si accorge di non essere l’unica bambina. Condivide la cella con oltre quarantacinque prigionieri, in maggioranza minori e donne. Fin dal primo giorno, vengono distribuite delle pillole a tutte le prigioniere. Alle più giovani vengono anche fatte delle iniezioni. Nora non oppone resistenza e i primi trentanove giorni trascorrono in balia dei carcerieri. Il quarantesimo giorno, questi ordinano ai bambini di “tenersi pronti”. I piccoli credono che sia giunta l’ora della liberazione.

Nora viene portata fuori dalla sua cella. Alcuni soldati la spogliano e la fanno entrare in una stanza. Là, nudo, “un uomo dai capelli grigi”, il direttore della base, la aspetta. Per Fatima è un racconto doloroso: “Mi ha detto: ‘Mi ha presa. E mi ha violentata. Ha dormito con me’. Ha gridato, ha cercato di fuggire, ha lottato perché la lasciassero andare”. Poi arriva un’informazione sconcertante: “L’uomo le ha dato una piccola pillola gialla e le ha fatto un’iniezione sul braccio destro. L’ha colpita così forte che tutto le è girato intorno”. L’indomani mattina, la bambina si risveglia in una sala per gli interrogatori. È coperta di sangue. La circondano diversi ufficiali. Perché quel sangue, che cosa è successo? Nora non sa cosa le abbiano fatto questi altri uomini. “Ha visto l’uomo che l’ha violentata, se lo ricorda”, precisa ancora sua madre. “Ma non ha idea di chi fossero gli altri”.

Iniezioni di ormoni
Dopo l’aggressione di Nora, a metà giugno del 2011, alcuni soldati della base militare disertano. Mentre se ne vanno, aiutano i bambini a fuggire. Fatima ritrova sua figlia mentre vaga nelle strade. La porta in un ambulatorio. La dottoressa le annuncia non soltanto che la bambina è stata violentata, ma anche che ha “gravi problemi nell’area vaginale” che richiedono un intervento chirurgico.

Dalle analisi cliniche risulta inoltre che alla bambina sono stati iniettati degli ormoni. Agnès Afnaïm, specialista di medicina generale presso il centro Primo Levi, dedicato alla cura delle vittime di tortura e di violenza, precisa di non conoscere né i dosaggi né i prodotti somministrati. Ma, a suo parere, in un mese e mezzo queste iniezioni potrebbero aver provocato degli sconvolgimenti fisici nell’adolescente. A quale scopo? Certamente per far perdere al suo corpo le ultime tracce dell’infanzia, prima di darla in pasto agli ufficiali. Fatima avrà soltanto la versione del medico. Sua figlia si rifiuta di affrontare l’argomento.

Fatima. (Damien Roudeau)

Dovrà aspettare gennaio del 2013, un anno e mezzo dopo l’aggressione, perché Nora parli. “Quando siamo fuggiti in Giordania, Nora piangeva. Pensavo che fosse triste per il fatto di lasciare la Siria per sempre. Ma lei mi ha risposto: ‘No, sono felice di lasciare questo posto’. Le ho chiesto perché, e mi ha raccontato tutto”, si sfoga Fatima.

A cinque anni di distanza, la famiglia è ancora terrorizzata e Nora non sopporta di avere accanto nessuna presenza maschile. Insieme al suo fratellino, è seguita da un centro giordano che si occupa degli orfani. Una delle coordinatrici, Loubna, si prende cura di lei da un anno. “Quando ho incontrato Nora, si comportava come una donna, non come una bambina”, ricorda. “Diceva: ‘So tutto quello che succede tra un uomo e una donna’. E lo sapeva davvero. Com’è possibile?”. Nora ha svelato altri dettagli a Loubna. “Il direttore della prigione le ha detto che era troppo piccola, e le ha mostrato una donna che veniva torturata. ‘Se non vuoi soffrire così, dovrai venire con me’. Nora non ha capito cosa volesse dire, aveva undici anni. Era una bambina”. Una bambina drogata, violentata, mutilata. Come altri minori siriani, Nora è stata presa di mira e rapita perché era figlia, secondo il regime, di un “terrorista”.

Lo stupro dei bambini, maschi e femmine, è diventato un’arma al servizio della macchina repressiva del regime

Se c’è ancora un tabù che resiste, è quello delle violenze sessuali perpetrate su bambine e bambini, che restano difficili da quantificare. Stupri, minacce e simulazioni, mutilazioni, scosse elettriche sugli organi genitali: questi crimini, annoverati tra le “sei violazioni gravi” dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, in quasi sei anni di guerra siriana non sono mai stati oggetto di stime specifiche. La documentazione rimane scarsa all’interno di rapporti di carattere generale, ma nessuna indagine è mai stata dedicata alla questione.

“Ci sono prove che bambine e bambini di appena dodici anni subiscono violenze sessuali, tra cui la tortura fisica dei loro organi genitali e gli stupri”, constata nel 2013 Save the children nel suo rapporto Childhood under fire. Anche l’ong Human rights watch affronta l’argomento in due pubblicazioni più generali dedicate alla detenzione dei bambini e alle aggressioni sessuali in carcere. La commissione d’inchiesta internazionale indipendente dell’Onu (Ohchr), che documenta le violazioni dei diritti umani in Siria, dedica alla questione alcuni paragrafi nei suoi numerosi rapporti.

Nel 2014, in una pubblicazione del segretario generale delle Nazioni Unite sui bambini e il conflitto armato in Siria, i ricercatori affermano che “l’Onu ha raccolto prove di violenza sessuale nei confronti dei bambini detenuti dalle forze governative nei luoghi di detenzione ufficiali e clandestini”. I ricercatori dell’Onu non esitano ad affermare che “questa violenza [contro i bambini] servirebbe a umiliare, ferire, ottenere confessioni forzate o fare pressioni su un genitore affinché si consegni”.

In Siria, lo stupro dei bambini – indistintamente maschi e femmine – è quindi diventato un’“arma” al servizio della macchina repressiva del regime. D’altronde, è stata usata per la prima volta proprio contro un bambino siriano.

Era il 29 aprile 2011. Mentre la rabbia monta nel paese, Hamza El Khateeb, tredici anni, viene arrestato ai margini di una manifestazione. Morirà durante la detenzione. Come messaggio ai rivoluzionari di Daraa, un mese più tardi il regime restituisce la salma ai genitori. Il piccolo corpo porta i segni della tortura, il sesso è stato tagliato. L’orribile avvertimento si rivolta contro i suoi autori, il paese è in fiamme. Hamza diventa il primo martire della primavera di Damasco.

Nel carcere di Aleppo
Per comprendere fino a che punto queste violenze siano sistematiche, dobbiamo spostarci su un’altra frontiera siriana, ad Antakya, all’estremo sud della Turchia. Una parte degli ex agenti della macchina repressiva si trova qui. Tra questi, il generale Bassam al Alulu, cinquantaquattro anni, ex direttore del carcere civile di Aleppo. Siamo a ottobre del 2016, ed è la prima volta che accetta di raccontare a dei giornalisti l’interno della “sua” prigione.

Dal 2012 vive con i suoi nel campo militare turco di Apaydin, riservato agli altri cinquemila ufficiali disertori dell’esercito siriano e alle loro famiglie. Il sito è chiuso e al suo interno le condizioni di vita sono meno dure che nei campi militari giordani e greci in cui si affollano le decine di migliaia di rifugiati senza gradi né medaglie. Dopo trent’anni passati a servire il regime di Assad, prima come direttore dell’accademia di polizia e poi come direttore delle carceri di Daraa e di Aleppo, il potente generale ha disertato. Era il 18 luglio 2012, e quel giorno resta impresso nella sua memoria.

Nelle prime ore della rivoluzione, il carcere civile di Aleppo, ritenuto meno repressivo dei centri di detenzione dell’intelligence e di altre divisioni militari, si riempie molto rapidamente. A fronte di una capacità di 4.500 posti, vengono “registrati” 7.500 prigionieri. Una parte dei detenuti, “su cui nessuno fa domande”, non ha esistenza ufficiale. Il funzionario, da sempre un fedele ingranaggio della macchina repressiva degli Assad, comincia a temere la volontà divina: “Ho pensato che dovevo applicare la legge, perché il giorno della mia morte dio mi avrebbe punito”.

Oggi Bassam al Alulu ha ottenuto un permesso di uscita per andare ad Antakya, a circa un’ora dal campo. Non si sposta senza essere circondato dalle guardie del corpo di un’unità militare delle forze speciali turche che devono garantire la sua sicurezza. Aggrappandosi nervosamente alla sua misbaha, il rosario musulmano, l’ex generale snocciola il suo racconto con la precisione di un militare abituato a fare rapporto. “Quando me ne sono andato, nel carcere civile di Aleppo c’erano mille minori”, spiega. “In maggioranza erano veri criminali, gli altri erano trattenuti per fare pressione sui genitori. Che io sappia, il più giovane aveva tredici anni”.

Secondo lui, a partire dalla primavera del 2011 le direttive di Damasco sui bambini in stato di detenzione sono chiare. “Il comitato di Damasco (l’istanza che riunisce i più alti dirigenti di ciascuna struttura preposta alla sicurezza) ci ha ordinato di non fare più differenza tra minorenni e maggiorenni. Ci hanno detto: ‘Dato che vanno alle manifestazioni insieme agli adulti, bisogna trattarli come loro’”. I minori non hanno più celle riservate, sono rinchiusi con i maggiorenni, spesso con i detenuti comuni.

Gli effetti di questo provvedimento sono devastanti. “I prigionieri più anziani li sfruttavano, li costringevano a fare il bucato, i piatti, le pulizie. E li violentavano”. Bassam al Alulu giura che ha provato a chiedere la separazione dei minorenni dai maggiorenni e che l’ha anche ottenuta. Impossibile verificare quest’ultima affermazione. Di contro, Sema Nassar, un’attivista che ha lavorato sulle violenze sessuali contro le donne in Siria, conferma le sue parole: “Le violenze sui bambini non vengono esercitate soltanto da guardie e aguzzini, ma anche dai detenuti più potenti che approfittano di loro”.

Bassam al Alulu finisce anche per ammettere che nella prigione di cui è responsabile c’è una cella speciale in cui è rinchiusa una trentina di donne e ragazze, in maggioranza parenti di oppositori del regime, insieme ai bambini “sotto i tredici anni”. “A volte gli ordini sono letteralmente: ‘Trascinate questo individuo fuori da casa sua’. Se non c’è, si può prendere chiunque: la moglie, le figlie. E noi le tratteniamo finché il ricercato non viene a costituirsi”. È quanto accaduto a Nora, la bambina di Daraa.

Dire che non c’è più differenza tra uomini, donne e bambini è un modo per terrorizzare la popolazione

La sincerità del pentimento dell’ex direttore del carcere mostra rapidamente i suoi limiti. Secondo un mediattivista di Aleppo, Bassam al Alulu, è noto per le violenze commesse nei confronti delle detenute e delle mogli dei detenuti. Siamo riusciti a rintracciare il suo ex assistente nel carcere, un colonnello anche lui disertore, che lo conferma. “Aveva l’abitudine di approfittare sessualmente delle criminali e delle mogli dei detenuti venute a chiedere un favore per il marito”, assicura. Un’informazione che ha soltanto la forza di una voce persistente. Se fosse confermata, oggi Bassam al Alulu potrebbe essere perseguito dalla giustizia internazionale.

Potrebbe essere interpellato anche Abdelharim Mihbat, quarantasei anni, un luogotenente dell’intelligence militare che ha disertato cinque anni fa. Oggi è anche lui ad Antakya, e l’abbiamo incontrato insieme al direttore del carcere di Aleppo. Benché sostenga che si è limitato a obbedire, che “ha la coscienza a posto” e che “in ventotto anni di servizio non ha mai fatto del male”, si fa fatica a credergli. Prima di disertare, Abdelharim Mihbat era un agente dell’intelligence militare della divisione 290, una vera e propria casa della morte, dove “torturare era banale come bere del tè”. Anche i bambini? “La parola chiave è ‘non fate differenze’”, risponde seccamente.

Prigione sovraffollata di Aleppo, Siria. (Damien Roudeau)

Secondo il luogotenente dell’intelligence, sopprimendo la distinzione tra maggiorenni e minorenni all’inizio della rivoluzione, il regime aveva una strategia chiara: “Dire che non c’è più differenza tra uomini, donne e bambini è una maniera per terrorizzare ulteriormente la popolazione, in modo che smetta di manifestare”. Così, nel carcere di Abdelharim Mihbat come in quello di Bassam al Alulu, gli adolescenti di età superiore ai tredici anni sono detenuti insieme agli adulti. “In quelle celle”, racconta, “c’erano molti stupri, ogni giorno”. Damasco sapeva che mettere insieme minorenni e maggiorenni avrebbe provocato questi abusi? L’ha fatto scientemente? “Sì”, replica Abdelharim Mihbat, “questa misura è arrivata con la legge contro il terrorismo (entrata in vigore a seguito di un decreto presidenziale approvato dal parlamento siriano il 28 giugno 2012)”. Contattata a più riprese, la missione permanente della Siria all’Onu non ha dato seguito alle nostre richieste di un colloquio.

In Siria la reclusione dei bambini non è una novità. Si tratterebbe di una pratica “da lungo tempo abituale”, secondo Wladimir Glasman, l’autore oggi scomparso del blog Un œil sur la Syrie. A suo parere, tra il 1980 e il 1983 sono stati fatti prigionieri politici 600 bambini. La loro colpa? Avere un parente affiliato ai Fratelli musulmani, all’epoca nemici giurati di Damasco. “Tutte le persone sospettate di far parte di questa organizzazione venivano annientate” sia fisicamente che psicologicamente, ricorda il giornalista Christian Chesnot, coautore del libro Les chemins de Damas.

I centri di detenzione non sono l’unico luogo in cui i bambini siriani vengono stuprati. Al di là delle sbarre, ai posti di blocco, durante le incursioni, all’interno delle loro case, ragazze e ragazzi possono diventare il giocattolo degli agenti del regime. Abdelharim Mihbat, l’agente dell’intelligence di Aleppo, faceva parte di un’unità incaricata degli arresti e delle perquisizioni nei quartieri sospettati di sostenere i ribelli.

“All’inizio della rivoluzione il direttore generale dell’intelligence militare, Abdulfatah Homsi, ha dato degli ordini al nostro direttore generale. Ormai ‘avevamo le mani libere’. In precedenza c’era comunque qualcuno che ci controllava. Con la rivoluzione non più, non c’era più nessun limite”. Secondo l’ex agente, quando bisognava andare a cercare qualcuno “l’ordine arrivava in forma scritta o a voce”. Tuttavia, “quando si trattava di veri e propri oppositori politici che andavano alle manifestazioni”, gli agenti dei servizi erano autorizzati “a portare via la famiglia, la moglie e i figli, se loro non c’erano”.

A mo’ di esempio, racconta una delle sue operazioni in una casa di Assukari, un quartiere di Aleppo: “L’uomo non c’era, quindi i miei colleghi hanno rivoltato l’appartamento, minacciato sua moglie e portato via le sue tre figlie che erano in età da scuola elementare”. Abdelharim Mihbat, “che si è accontentato di guardare”, le scaraventa comunque in una vettura e le porta alla divisione militare. Saranno portate in una sala per gli interrogatori. Nessuno sa cosa sia accaduto alle tre bambine.

Nel posto sbagliato
Sul fronte opposto, dalla parte dell’Esercito siriano libero di Daraa, si trova il colonnello Khaled. All’inizio del 2012 ha disertato e si è unito all’opposizione al regime. A partire dall’estate del 2014, per un anno intero, lui e i suoi uomini hanno captato le comunicazioni delle forze governative con i loro walkie-talkie. “Sentivamo gli agenti dell’intelligence che davano ordini agli shabiha, miliziani filogovernativi. Gli dicevano: ‘Tutto ciò che vi capita sotto mano è vostro. Potete fare tutto quello che volete’, stupro compreso. Sapevano che li ascoltavamo, erano quasi fieri, parlavano delle violenze sessuali sulle donne e del resto per demoralizzarci”.

L’uomo al comando, a suo parere, è Louay al Ali, capo dell’intelligence militare siriana a Daraa. “Nella regione, è tutto nelle sue mani. È sua la strategia di dire agli shabiha di fare ciò che vogliono. Sono loro che violentano le donne e i bambini”, insiste l’ex colonnello. Obiettivi designati, i bambini sono un’arma per terrorizzare la ribellione. A volte, gli adolescenti subiscono gli abusi semplicemente perché si trovano nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Prigione di Saydnaya, Siria. (Damien Roudeau)

Su Amman è calata la notte, portando con sé una piacevole tranquillità. Nel suo salotto, Abdul Hamid Kiwan, barba sale e pepe e maglietta bianca, serve il tè in attesa del suo amico Bassam Sharif. Sono due padri di famiglia siriani che si sono conosciuti in carcere e che oggi vivono nello stesso quartiere della capitale giordana.

“In carcere si sentono molte storie sui bambini violentati”, afferma Bassam Sharif, la carnagione ingiallita dagli anni di carcere. Arrestato nel 2011 all’interno del servizio di intelligence dell’aeronautica militare, incontra due adolescenti di sedici anni, Mourad e Nourredine, rapiti nel quartiere popolare di Deraya, alla periferia di Damasco. “Due bellissimi ragazzi, mashallah!”, sorride. “Al primo hanno infilato una bottiglia di Pepsi nel… E all’altro una specie di bastone di legno”. Come può esserne così sicuro? “Quando sono tornati in cella, non riuscivano più a sedersi. Perciò abbiamo tirato a indovinare. E ce l’hanno detto, senza vergogna. Per loro non era un’aggressione sessuale ma solo un metodo di tortura, perché quelli che li interrogavano hanno usato degli oggetti”.

Seduto sul bordo del suo divano, Abdul Hamid Kiwan espone la sua analisi: “È una strategia per frantumare la società. Quando ci si ritrova con altri ex detenuti, l’argomento di cui si parla di più sono gli stupri. Perché prima della rivoluzione eravamo abituati alla tortura, ma non a questo”. Bassam Sharif rincara la dose: “Le violenze sessuali sono cominciate quando la rivoluzione ha preso le armi. Per terrorizzare la gente. Quando le storie sono uscite dalle carceri, i siriani hanno avuto paura che i loro figli sarebbero stati stuprati”.

A quasi sei anni dall’inizio del conflitto, gli aguzzini continuano ad avere carta bianca e ad annientare i bambini siriani nel silenzio e nell’impunità (Report of the independent international commission of inquiry on the Syrian Arab Republic, 5 febbraio 2013, annesso X paragrafo 5). Fin dagli inizi della rivolta, con il martirio di Hamza El Khateeb, il regime di Damasco ha cercato di schiacciare questa generazione. L’attivista siriana Sema Nassar ricorda che nel 2012 il governo aveva anche installato delle telecamere nella divisione Palestina dei servizi di intelligence, dopo la denuncia di una “persona altolocata”. “Ma questo non ha fermato gli stupri. I loro autori hanno soltanto evitato di commetterli sotto l’occhio delle telecamere”.

L’impunità è tale che i rifugiati siriani citano spesso la paura dello stupro come “uno dei principali elementi che hanno influito sulla loro decisione di lasciare la Siria”. “Violentare i bambini? Provoca il caos”, riassume Omar Guerrero, psicologo clinico presso il centro Primo Levi, dedicato alle vittime della tortura e della violenza politica. “È difficile pensare al dopo. Su cosa costruiremo una società? Quale posto per bambini e bambine che sono stati violentati? Come faranno a diventare uomini e donne adulti? Ritroveranno un giorno la loro dignità?”.

A forza di bombe, torture e stupri, il regime riuscirà a stritolare questa generazione? “I bambini sono resilienti”, risponde un’operatrice umanitaria che lavora con i minori nelle aree di conflitto. “Mentre noi a volte pensiamo che le ripercussioni di questi atti li distruggeranno, loro trovano un modo per uscirne”. La giovane donna rimane ottimista: “Sono più forti di quanto si creda”.

(Traduzione di Cristina Biasini)

Questa inchiesta, scritta con la con la collaborazione di Daham Alasaad, fa parte di una serie in sei parti del progetto Zero Impunity, che documenta e denuncia l’impunità di cui godono i responsabili di violenze sessuali in contesti di guerra. Il progetto è a cura di Nicolas Blies, Stéphane Hueber-Blies e Marion Guth (a_Bahn), un gruppo di “documentaristi attivisti” che attraverso il loro sito promuovono anche una mobilitazione online per chiedere alle autorità di dotarsi degli strumenti necessari a combattere questo fenomeno e a perseguire i colpevoli.

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