05 dicembre 2016 18:09

L’imprevisto è il sale della politica: quello che all’improvviso la costringe a fare il salto da ciò che c’è a ciò che può essere, ridandole per ciò stesso vita e senso. Diciotto e passa punti di scarto fra il no e il sì alla riforma governativa della costituzione non se li aspettava nessuno, né fra chi aveva scelto il sì né fra chi aveva scelto il no. Che questa sorpresa sia la molla per un salto di immaginazione politica è l’augurio del day after che dobbiamo farci tutti, rispondendo con la fiducia nella democrazia a chi insiste tristemente a vederci un salto nel buio.

Bisogna andare con la memoria molto indietro nel tempo, forse ai referendum sul divorzio e l’aborto, per trovare dei precedenti a un no di tale chiarezza e tale potenziale forza propulsiva. Inutile e nevrotico, invece, leggerlo con in mano il pallottoliere delle sigle di partito, delle minoranze di partito, dei transfughi di partito, dei “fronti” coerenti o incoerenti. È un no di popolo che ha respinto lo stravolgimento della costituzione, la retorica da cui è stato accompagnato, il metodo con cui è stato tentato, e non ultimo il coro dell’establishment economico e mediatico che l’ha sostenuto. Soprattutto, è un no che respinge con la pratica della partecipazione una riforma tutta tarata sulla fine della partecipazione. E con il peso di una eclatante maggioranza il tentativo di riscrivere il patto fondamentale in base alle convenienze di una minoranza di governo.

Inutile anche infierire sugli errori, madornali, di Matteo Renzi: la sua arroganza, il suo gusto incosciente per le scommesse, la sua spregiudicatezza nell’elargizione delle mance, la sua bandierina della rottamazione e il suo arroccamento fra i ragazzi del muretto della Leopolda, il suo uso fuor di misura (e controproducente) dei mezzi di comunicazione. Quando si gioca così, a vincere o a perdere tutto, prima o poi si perde tutto: è la regola del gioco d’azzardo, che troppi, anche a sinistra, hanno scambiato per coraggioso decisionismo prendendo lucciole per lanterne.

Meglio interrogarsi sugli errori dei renziani di complemento, ben piazzati nei giornali, nei telegiornali e nei talk show, che per mesi hanno rilanciato lo storytelling del governo preconizzando l’apocalisse in caso di vittoria del no, agitando lo spettro della Brexit a ogni stormir di fronda di un’opposizione sociale prima che politica, regalando l’arco del no al populismo di destra e cancellandone la componente, forte e decisiva, di sinistra. Sarebbe bastato portare le telecamere una sola volta in uno dei mille dibattiti sul territorio che hanno animato la vera campagna referendaria per capire che quest’ultima stava funzionando come un romanzo di formazione politica per migliaia di giovani, che giovani e meno giovani considerano la carta del 1948 un argine minimo contro la devastazione neoliberale e non un cane morto, che attorno alla critica della riforma si stava ritrovando a sinistra il filo di una cultura politica persa per strada. Ma le telecamere vanno solo per palazzi, politici e finanziari, e il risultato è stata la fantomatica “rimonta del sì” inventata per tutta l’ultima settimana: un altro boomerang.

Dodici ore dopo la chiacchiera mediatica è già tutta concentrata sulla composizione del nuovo governo, quando è lapalissiano che questo è il problema secondario, quello primario essendo la quadratura da trovare urgentemente fra il bisogno di elezioni politiche e la necessità di indirle con una legge elettorale adeguata a rappresentare i cambiamenti intervenuti nella società e nel sistema politico dopo la fine del ventennio bipolare berlusconiano. Anche un cieco vede che il voto del 4 dicembre chiude il quinquennio nefasto iniziato nel novembre 2011, quando si mise il tappo del governo tecnico sulla fine di Berlusconi sacrificando il rito democratico del suffragio sull’altare dello spread. Errore fatale, che tuttora paghiamo. La storia non si fa con i se, ma se allora quell’errore non fosse stato fatto ci saremmo evitati la stagione penitenziale e depressiva dell’austerity, l’exploit conseguente dei Cinque stelle, l’implosione del Pd bersaniano, un governo insediatosi al grido di “Enrico stai sereno” e benedetto dall’alto come “governo costituente”. C’è un solo sconfitto più di Matteo Renzi dal voto di domenica, e si chiama Giorgio Napolitano.

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