12 settembre 2016 19:00

Una persona che non conosco mi telefona alle undici di sera. Ha avuto il mio numero da un suo vicino di casa a Hebron. La strada dove vivono, che collega l’insediamento di Qiryat Arba con i piccoli insediamenti abusivi di Hebron, è stata presa di mira dai coloni israeliani. Quattro anni fa i coloni costrinsero l’esercito a intervenire per impedire al vicino della persona al telefono di aggiungere un altro piano alla sua casa. Per mesi la costruzione rimase ferma a metà mettendo in pericolo gli abitanti, finché le pressioni (tra cui un mio articolo) funzionarono e il completamento della costruzione fu autorizzato.

L’uomo al telefono è in una situazione simile. Su richiesta dei coloni, l’esercito ha emanato un’ordinanza che impedisce agli operai di entrare in casa e ai suoi familiari di andare sul tetto. Inoltre, i suoi figli sono stati arrestati dalla polizia senza motivo. Prima di andare a dormire scrivo una bozza e invio una richiesta di informazioni alle autorità israeliane. La mattina dopo chiedo al mio giornale, Haaretz, di inviare un fotografo. Mi dicono che il mio collega Gideon Levy ha fatto visita all’uomo in settimana e parlerà del caso nella sua rubrica del venerdì.

Chiamo l’uomo, piuttosto arrabbiata. “Non sapevo che lavoraste per lo stesso giornale”, si giustifica. Come dargli torto. Sta facendo il possibile per salvare la sua famiglia dalla malvagità delle autorità e dei coloni. L’appartenenza dei giornalisti a una testata o all’altra non è in cima alla lista delle sue preoccupazioni.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 9 settembre 2016 a pagina 24 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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