31 agosto 2016 14:28

Alla mezzanotte del 28 agosto, dopo 52 anni di guerra, le armi hanno finalmente taciuto in Colombia, al momento della proclamazione di un cessate il fuoco permanente, approvato sia dalle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) che del governo colombiano.

Ma prima d’allora i combattimenti avevano provocato la morte di 220mila persone e costretto sette milioni di colombiani ad abbandonare le loro case. E per negoziare l’accordo di pace definitivo sono serviti quattro anni. Eppure sono alcuni decenni che le cause originarie della guerra civile colombiana hanno perlopiù smesso di esistere. Perché allora è così difficile mettere fine a una guerra?

Non stiamo parlando qui di guerre classiche di ampia portata tra grandi potenze. Quelle durano alcuni anni (si vedano le due guerre mondiali), un paio di mesi (come i conflitti tra India e Pakistan), o solo una o due settimane (le guerre arabo- israeliane). Qui parliamo di guerre civili a bassa intensità che vanno avanti per anni, come in Irlanda del Nord (trent’anni), Angola (42 anni) e forse Siria.

La guerra civile siriana è molto più intensa: i morti o gli sfollati fatti in cinque anni di guerra civile sono già quanti quelli causati in Colombia in mezzo secolo. Ma in Siria sanno che la guerra civile nel vicino Libano, che possiede più o meno la stessa miscela d’identità etniche e religiose, è durata quindici anni.

I governi colombiani non sono mai stati così stupidi o incapaci da perdere la guerra, e nel corso dei decenni la Colombia è cambiata

Quando sono cominciati i combattimenti in Colombia, nel 1964, la popolazione era perlopiù rurale: il 40 per cento era composto da contadini senza terra e una metà scarsa sapeva leggere e scrivere. Sembrava un ambiente ideale per un movimento di guerriglia marxista che prometteva la riforma agraria e le Farc andavano benissimo per questo.

Le Farc si sono impadronite di una grossa fetta di territorio, ma i governi colombiani, anche se solitamente corrotti e incompetenti, non sono mai stati così stupidi o incapaci da perdere la guerra, e nel corso dei decenni la Colombia è cambiata. L’economia è cresciuta nonostante i combattimenti, c’è stata una migrazione di massa di contadini verso la città (in parte dovuta ai combattimenti stessi) e l’istruzione ha cambiato, come sempre accade, il volto del paese (il 98 per cento dei giovani colombiani è oggi alfabetizzato).

La riforma agraria è ancora un serio problema per quel quarto della popolazione che continua a vivere in campagna. L’attuale accordo di pace promette di risolverlo, ma anche vent’anni fa era ovvio che le Farc non avrebbero mai vinto. La Colombia che si erano ripromessi di cambiare era cambiata senza di loro. E forse nonostante loro.

Il momento di fare la pace
D’altro canto le truppe governative non sono mai riuscite a sradicare del tutto le Farc dalle loro roccaforti nella giungla. Era quindi giunto il momento di fare la pace. Le trattative sono state diligentemente avviate nel 1998, salvo poi andare avanti a intermittenza finché, quattro anni fa, è arrivata la spinta definitiva verso una soluzione, sotto il presidente Juan Manuel Santos. Perché c’è voluto così tanto?

Il motivo è che gli “sconfitti” non avevano davvero perso, anche se non avrebbero mai potuto vincere. È stato necessario concedere l’amnistia ai leader delle Farc e ai loro settemila combattenti, dargli garanzie relative alla loro incolumità dopo il disarmo e perfino permettere al gruppo di diventare un partito politico legittimo. Le due parti in guerra non erano divise per etnia o religione, ma si erano uccise a vicenda per lungo tempo e la fiducia reciproca era a livelli molto bassi.

Ci sono voluti 17 anni per arrivare alla situazione attuale, e anche adesso l’accordo rischia di crollare se i colombiani non voteranno in suo favore nel referendum che si terrà il 2 ottobre. È probabile che lo approvino, ma il margine potrebbe essere risicato, dal momento che sono tantissime le persone che non sopportano di vedere i ribelli “premiati” invece che puniti.

Cinque fronti ostili in Siria
Pensate ora alla Siria, dove la distruzione e le atrocità sono state altrettante e in minor tempo. Nel paese esistono differenze religiose e etniche profonde, e a combattere non ci sono solo due parti ma cinque: il governo, due organizzazioni d’islamisti jihadisti reciprocamente ostili (il gruppo Stato islamico e il Fronte al nusra, che oggi si fa chiamare Esercito della vittoria), i ribelli arabi dell’Esercito siriano libero, e i curdi di Siria.

Nel corso degli ultimi cinque anni, tutti e cinque i belligeranti hanno combattuto ciascuno degli altri quattro, almeno per un certo periodo. Nessuno di loro ha delle possibilità realistiche di prendere il controllo di tutto il paese, ma è anche vero che nessuno di loro ha subìto una sconfitta militare tale da escluderlo del tutto dalla contesa. Ogni formazione dipende dal sostegno estero, ma le potenze straniere hanno i loro obiettivi. La Russia, gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno spedito denaro e armi a vari attori locali e perfino sganciato bombe sul paese, ma i beneficiari e gli obiettivi variano con il passare del tempo, a seconda delle priorità politiche degli stranieri del momento.

Alcuni vedono nel crescente coinvolgimento degli Stati Uniti e della Russia nel conflitto uno sviluppo promettente, poiché se le superpotenze raggiungeranno un accordo (come talvolta accade) allora potranno imporre una qualche forma di pace nel paese. Non sarebbe il massimo, ma sarebbe comunque meglio di una guerra senza fine. Forse è vero, ma forse è solo un’illusione. Se una guerra civile di piccola portata e relativamente semplice come quella in Colombia ci ha messo così tanto a finire, perché dovremmo aspettarci che quella in Siria si concluda tra breve? Ricordatevi del Libano. Ci sono voluti quindici anni.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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