07 aprile 2016 11:43

Da un certo punto di vista non c’era bisogno di studiare i dodici milioni di documenti (tra cui quasi cinque milioni di email) raccolti nei 2.600 gigabyte di file digitali dei Panama papers per immaginare che Vladimir Putin, i parenti del presidente siriano Bashar al Assad, i familiari del leader cinese Xi Jinping o i capi di stato e di governo di paesi come l’Arabia Saudita, il Pakistan e l’Ucraina avessero nascosto enormi ricchezze nei paradisi fiscali di quattro continenti.

Basta uscire di casa per rendersi conto che viviamo in un mondo retto da un sistema intrinsecamente ingiusto e disuguale, dove pochissime persone accumulano immense fortune alle spalle della stragrande maggioranza della popolazione: lo scandalo è esibito in modo permanente, esposto alla luce del sole. Però è anche vero che una cosa è immaginare, o sospettare, e un’altra è capire, avere le prove, e soprattutto togliere anche quell’ultimo velo che tenta di nascondere agli occhi dei cittadini e del fisco l’accaparramento sistematico.

E poi c’è lo sforzo congiunto di 376 giornalisti di 108 quotidiani, settimanali e televisioni in 75 paesi, per quella che il direttore di Le Monde ha definito una tappa fondamentale “nella storia della cooperazione tra mezzi d’informazione internazionali per far luce sui meccanismi opachi dei paradisi fiscali”. Un modo per distribuire il lavoro di ricerca e analisi dei dati, ma anche per ridurre il rischio di ritorsioni (portare un giornale in tribunale è facile, farlo con più di cento diventa un’impresa). Perché collaborare tra loro è l’unica arma che hanno i giornalisti per combattere l’equivalente di una guerra asimmetrica.

Questo articolo è stato pubblicato l’8 aprile 2016 a pagina 5 di Internazionale, con il titolo “Scandalo”. Compra questo numero| Abbonati

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