10 novembre 2015 09:22

Non c’è niente di più commovente della speranza di un popolo che esce dalle tenebre e torna alla luce. È in momenti come questo che ci accorgiamo di quanto il genere umano – al di là delle frontiere, delle razze e delle religioni – condivide la stessa aspirazione verso la libertà, la giustizia, la democrazia e i diritti umani, valori universali che ognuno di noi porta dentro di sé.

La speranza ritrovata

Questo sentimento è apparso in tutta la sua evidenza nella giornata del 9 novembre sui volti delle decine di migliaia di birmani riuniti a Rangoon davanti ai pannelli su cui apparivano lentamente i risultati delle elezioni di domenica. Lo stesso sentimento risuonava nelle loro grida di gioia mentre i numeri confermavano la portata della vittoria della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi, la signora come la chiamano in Birmania, dall’aspetto fragile ma che non si è mai piegata.

L’unità che oggi circonda Aung San Suu Kyi sarà messa a dura prova dall’esercizio del potere

È a questa donna che i birmani devono la loro speranza ritrovata, alla figlia di un eroe della loro indipendenza, il generale Aung San, assassinato nel 1947 prima ancora che il paese conquistasse l’indipendenza dal Regno Unito.

Aung San Suu Kyi non è solo un premio Nobel, ma anche e soprattutto un’eroina da tragedia greca che, contro tutto e contro tutti, ha voluto essere degna di suo padre sacrificando la sua libertà per quella del suo popolo, restando in Birmania a costo di separarsi da suo marito e dai suoi figli, passando lunghi anni agli arresti domiciliari e regalando a tutti un esempio di resistenza pacifica che ha affascinato il mondo e ispirato i birmani prima di condurli alla vittoria.

Le facce estasiate di ieri sono le facce che vediamo sempre quando cade una dittatura, ma è raro vedere una simile corrispondenza tra la felicità di un popolo e un’eroina della statura di Aung San Suu Kyi.

Il futuro della Birmania, però, non è privo di preoccupazioni. Possiamo presumere che i militari rispetteranno l’esito del voto. Hanno giurato che lo faranno e c’è da credergli: se hanno consentito lo svolgimento di elezioni libere è perché hanno capito (dopo 53 anni) che non potevano più continuare a soffocare il paese tagliandolo fuori dal resto del mondo. Tuttavia, oltre al fatto che la presenza dell’esercito resterà comunque ingombrante, la Birmania deve affrontare tanti problemi.

Un tempo ricco, il paese è ormai diventato uno dei più poveri d’Asia, etnicamente diviso e scosso da tentazioni secessioniste. In Birmania c’è ancora tutto da fare, e l’unità che oggi circonda l’eroina nazionale sarà messa a dura prova dall’esercizio del potere, dalle possibili delusioni e dai conflitti di interesse che inevitabilmente prenderanno il posto della felicità attuale. Aung San Suu Kyi ha dalla sua parte un partito e l’amore di un popolo. Ma come la dittatura, anche la libertà è difficile da affrontare.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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