30 luglio 2015 17:43

Adoro gli audiolibri. Li ascolto mentre cammino, e trovo che i gialli siano particolarmente adatti per fare esercizio. Quando comincio un libro di Tana French, Jo Nesbø o Gillian Flynn non vedo l’ora di scoprire cosa succederà la pagina dopo, e così macino chilometri, con le cuffiette premute sulle orecchie, persa nella trama.

Ho anche i miei “lettori” preferiti, perché una voce può fare il successo o l’insuccesso di un audiolibro. Tra quelli che preferisco ci sono Sam West che legge Il giorno dei trifidi, e suo padre, Tim, che legge Trollope; o Patricia Hodge che fa rivivere le pagine di Nancy Mitford. Katherine Kellgren, che ho conosciuto grazie a Tigri in un cielo rosso di Liza Klaussmann, ha una voce così bella che è un piacere sensuale sentirla nelle orecchie. Anche Tina Fey e David Sedaris hanno registrato audiolibri che sono addirittura più divertenti delle versioni cartacee.

C’è chi pensa che ascoltare un libro sia più facile che leggerlo, un po’ come barare, ma in realtà è un’operazione che richiede concentrazione. Non puoi tornare indietro ogni volta che ti viene un dubbio, tipo: “E ora chi è questo qui? Da dove spunta?”. Non puoi scorrere rapidamente la pagina saltando noiose descrizioni del paesaggio o del tempo. L’ascolto è integrale – ascolti ogni parola – anche se un bravo lettore ad alta voce fa apparire il suo lavoro come la cosa più naturale del mondo, quando invece – oggi lo so – non lo è affatto.

Alla quinta ora, comincio a parlare con la voce impastata, come da ubriaca

Questa settimana sono in studio per leggere il mio nuovo libro Naked at the Albert Hall e, come ho scoperto l’anno scorso registrando Bedsit disco queen, è una gran faticaccia.

La mattina entro nella mia cabina insonorizzata e passo la prima ora a scaldarmi, schiarirmi la gola e sentirmi dire che devo rallentare. La seconda ora trovo una specie di ritmo e le cose cominciano a ingranare, anche se a quel punto comincio ad accorgermi di alcune cose del libro che ho scritto. Leggere ad alta voce fa emergere ogni difetto, ogni costruzione maldestra. E mi rendo conto che avrei potuto formulare la frase in modo diverso. Ogni tanto, poi, penso: aspetta un attimo, è proprio questo che volevo dire?

Alla terza ora, si avvicina il momento del pranzo e il mio stomaco comincia a brontolare. Ogni volta, il microfono registra il brontolio e il produttore deve interrompermi per farmi ripetere l’ultima frase, finché dopo un po’ devo fermarmi e mangiare una banana. Le ore volano. Guardo l’orologio e mi sembra impossibile che sia così tardi, ma la voce comincia già ad arrochirsi e devo bere una tazza di qualcosa, preferibilmente non tè o caffè, che mi farebbero leggere troppo veloce.

Alla quinta ora, comincio a parlare con la voce impastata, come da ubriaca. La salivazione è a zero, e ogni volta che apro bocca si sente un piccolo schiocco. Il rimedio è una mela verde, e allora mangio una mela verde, che mi piaccia o no. Dio, la quantità di roba che ho mangiato e bevuto finora, solo per riuscire a leggere un libro. Chi l’avrebbe mai detto.

Parole accelerate

Il secondo giorno, stessa storia. A quel punto, mi rendo conto che la parte più difficile non è la stanchezza vocale ma la concentrazione: il modo in cui le parole – per quanto lentamente e chiaramente mi sforzi di leggere – sembrano accelerare sulla pagina, e mi vengono incontro sempre più veloci, come la strada in un videogame di guida simulata. Incespico e balbetto. Mangio un’altra banana. Capita una parola che non so pronunciare o, magari, il nome di qualcuno che ho scritto con disinvoltura ma che non ho mai “detto”.

Capisco che razza di idiota presuntuosa sono stata, a scrivere un libro in cui nomino Gramsci e il Tannhäuser. Ma a un certo punto scopro che non sono sicura neanche di come si pronunciano “privacy”, “inherently” o “Deborah Kerr”, quindi non avrei dovuto proprio scriverlo, un libro.

Tutto sommato è una cosa comicamente estenuante, se pensiamo a quanto sembri facile. Oggi ascolto gli audiolibri con grande ammirazione e rispetto per chiunque abbia fatto la lettura.

Mentre arrivo faticosamente alla fine del mio terzo giorno e finalmente giro l’ultima pagina, mi rendo conto che sono fortunata a potermene andare, mentre mi torna in mente il Tony Last del romanzo di Evelyn Waugh Una manciata di polvere, tenuto prigioniero da un esaltato signor Todd e costretto a leggere e rileggere all’infinito le opere complete di Dickens. Mi è sempre sembrato un finale da incubo per un romanzo, ma oggi – brrr – mi fa ancora più paura.

(Traduzione di Diana Corsini)

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