27 agosto 2015 14:58

Migliaia di migranti arrivano via mare sulle nostre coste. Altre migliaia attraversano la rotta balcanica che passa per la Macedonia, la Serbia, l’Ungheria. Dovremmo chiamarli rifugiati? L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) insiste che bisogna usare questo termine, in modo da riconoscere la legittimità per questi uomini, donne e bambini di cercare un rifugio (o un “asilo”) dal loro paese d’origine, dove non sono al sicuro.

Recentemente la rete televisiva Al Jazeera ha scritto che non userà più il termine “migrante” perché deumanizzante e peggiorativo, oltre che non corretto: la gran parte di quanti arrivano sono, secondo l’emittente del Qatar, rifugiati.

Se il primo assunto è condivisibile, il secondo è opinabile, almeno per quello che riguarda chi arriva in Italia: nel corso del 2015 – da quando la gran parte dei siriani ha abbandonato la rischiosa rotta del Mediterraneo centrale per dirigersi verso quella che passa per la Grecia – i barconi che partono dalla Libia sono carichi per lo più di cittadini di paesi dell’Africa subsahariana. Questi, con l’eccezione degli eritrei in fuga dalla coscrizione obbligatoria e senza fine, non provengono da contesti a rischio.

Scelgono di investire quel denaro per venire da noi nella speranza di migliorare il loro tenore di vita

Non che in Africa non ci sia chi scappa dalla guerra: ci sono nigeriani, camerunesi e nigerini in fuga dalle violenze di Boko haram nel bacino del lago Ciad, sud sudanesi che cercano rifugio dalla guerra civile, burundesi in fuga dalle violenze di una crisi postelettorale che potrebbe diventare un conflitto fratricida. Nessuno di loro, però, riesce a intraprendere la strada fino alla Sicilia. Perché il viaggio costa, e chi fugge dalla guerra nel continente africano non ha i mezzi per pagarsi il tragitto fino al barcone libico, quindi è costretto a sopravvivere da sfollato o da profugo, buttato in qualche accampamento straccione nelle vicinanze del conflitto.

Siriani dopo avere attraversato il confine tra Ungheria e Serbia, vicino a Röszke, il 25 agosto 2015. (Laszlo Balogh, Reuters/Contrasto)

Quelli che arrivano in Europa dall’Africa hanno avuto a disposizione una cifra importante, secondo gli standard dell’economia locale, che la famiglia ha investito per consentire loro di affrontare il viaggio. Definire queste persone rifugiati è improprio: scelgono di investire quel denaro per venire da noi nella speranza di migliorare il proprio tenore di vita, cosa che non riescono a fare nel proprio paese, perché il sistema politico, economico e sociale di quei luoghi è marcio e non credono nell’investimento sul proprio territorio.

Sentono che lì falliranno, e invece presumono che da noi quell’investimento possa ancora funzionare, dare corpo ai loro sogni di mobilità sociale e di miglioramento individuale e familiare. Lasciano il loro paese per disperazione, certo. Tuttavia, in quei luoghi non sono in pericolo di vita. In altri tempi, li avremmo chiamati pionieri perché inseguono un sogno e mettono in gioco la propria vita per realizzarlo.

Chiamiamoli viaggiatori, dato che viaggiano, come facciamo noi quando andiamo all’estero

Distinguere questi ultimi da quanti fuggono dalla guerra è pericoloso perché rafforza un diktat ormai imposto all’opinione pubblica: la divisione tra buoni (i profughi che vanno accolti) e cattivi (i migranti economici che cercano surrettiziamente di entrare nel nostro mondo ricco ma in crisi, per sottrarci risorse e renderci poveri, e che pertanto devono essere bloccati).

La distinzione semantica sembra funzionale a precise politiche, ossia la realizzazione di quegli hotspot in cui nella visione europea dovremmo rinchiudere tutti all’arrivo per valutare se hanno diritto o no all’asilo. Quando la risposta è negativa, vige una sola regola: rispedirli a casa. Accetto il rifugiato e respingo il migrante.

Il diritto di viaggiare

Per quanto brutta, “migrante” è una parola-ombrello che ci permette di definire sia il siriano che fugge dalle bombe sia il senegalese che viene in Europa a cercar fortuna. Se non ci piace, non sostituiamola con una più riduttiva, che taglia fuori dalla descrizione tutta una fascia di questo flusso. Chiamiamoli semmai “avventurieri”, come si definiscono loro molto correttamente (chi potrebbe negare che la loro traversata è un’avventura?).

O più semplicemente viaggiatori, dato che viaggiano come facciano noi quando decidiamo di visitare un paese straniero o di trasferircisi, solo che non possono venire in aereo perché le nostre leggi non glielo permettono.

Perché poi quando pensiamo di negare ai migranti economici il diritto di cercare un futuro migliore nel nostro continente, stiamo rinnegando il diritto dei nostri nonni di andare in Germania o in Belgio a lavorare, o quello dei nostri figli di andare in Gran Bretagna o negli Stati Uniti a studiare e cercare una società in grado di dare loro risposta a un desiderio di sviluppo professionale e umano che non ritengono l’Italia sappia più offrire.

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