15 luglio 2015 12:29

Chiedere scusa è difficile, ma ancor più difficile è chiedere scusa per un genocidio. La parola si blocca in gola a chi dovrebbe pronunciarla, come hanno dimostrato i turchi negli ultimi cento anni a proposito degli armeni dell’Anatolia orientale. Anche i serbi hanno appena dimostrato la stessa incapacità per quanto riguarda i musulmani bosniaci massacrati a Srebrenica.

L’11 luglio è caduto il ventesimo anniversario del massacro di circa ottomila persone in seguito alla presa di Srebrenica da parte delle truppe serbobosniache nel 1995. La popolazione dell’enclave era cresciuta in seguito all’afflusso di rifugiati che, per sfuggire alla “pulizia etnica” in corso in Bosnia orientale, erano giunti lì poiché la città era stata designata “zona protetta” dalle Nazioni Unite. O, sarebbe meglio dire, non protetta.

Quando i serbobosniaci, dopo aver assediato Srebrenica per tre anni, l’hanno attaccata nel luglio del 1995, i comandanti dell’Onu e della Nato si sono rifiutati di ricorrere ad attacchi aerei per fermarli. E i caschi blu olandesi che si trovavano lì per proteggere la città hanno deciso che non volevano rischiare la vita per difendere dei civili inermi.

Così tutti gli uomini e i ragazzi musulmani bosniaci di età compresa tra i quattordici e i settant’anni furono separati dalle donne e dai bambini con l’aiuto dei soldati olandesi e portati fuori città. Poi furono fucilati e sepolti con delle ruspe. Per ucciderli tutti ci vollero quattro giorni.

Non sarà una storia che riguarda il governo attuale. Sarà il racconto di una Serbia migliore”, aveva sperato il giornalista Dušan Mašić. Ma la Serbia migliore non è ancora arrivata

Il crimine è stato formalmente riconosciuto come un genocidio dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia. Sia l’allora presidente della Repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadzić, sia il comandante militare dei serbobosniaci a Srebrenica, il generale Ratko Mladić, sono sotto processo per genocidio. Si potrebbe pensare che neanche i serbi possano più negare che si è trattato di un genocidio, ma non è così.

Ci sono certamente alcuni serbi, come il giornalista Dušan Mašić, disposti a chiamarlo per quello che è. In occasione dell’anniversario, Mašić aveva pensato di far sdraiare settemila volontari per terra di fronte al parlamento di Belgrado per simboleggiare le vittime di Srebrenica. “L’11 luglio, mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulle fosse comuni di Srebrenica, vogliamo mostrare un’immagine diversa da Belgrado”, ha dichiarato.

“Non sarà una storia che riguarda il governo attuale, che non riesce a prendere posizione su un crimine accaduto vent’anni fa”, ha proseguito, “o su un luogo dove è ancora possibile comprare souvenir con il volto di Karadzić e Mladić. Sarà il racconto di una Serbia migliore”. Ma in realtà la Serbia migliore non è ancora arrivata.

Il ministro degli interni serbo Neboiša Stefanović non ha apprezzato l’immagine che Mašic voleva mostrare. Quando il 9 luglio dei gruppi di destra hanno minacciato d’interrompere la manifestazione, Stefanović l’ha vietata con il pretesto di garantire “la pace e la sicurezza in tutta la Serbia”. Dal canto suo, il governo serbo aveva già chiesto alla Russia di porre il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che definiva il massacro di Srebrenica un “genocidio”.

La Russia è stata ben felice di assecondare la richiesta. Forse Mosca stava solo cercando di fare cosa gradita alla Serbia, nella speranza di distoglierla dal suo attuale desiderio di entrare nell’Unione europa. O forse il presidente russo Vladimir Putin ha pensato che era meglio non creare precedenti, nel caso qualcuno tentasse in futuro di definire un genocidio quello che lui stesso ha compiuto in Cecenia tra il 1999 e il 2002.

Le parole sono importanti. Il primo ministro serbo Aleksandr Vučić, che pure sembra aver cambiato opinione su Srebrenica dai tempi dei suoi primi passi nella politica serba, non riesce ancora a usare la parola “genocidio” quando ne parla.

Anni fa, nel 1995, Vučić era un nazionalista che pochi giorni dopo il massacro di Srebrenica disse in parlamento: “Se voi ucciderete un serbo, noi uccideremo cento musulmani”. Nel 2010, tuttavia, ha dichiarato che “a Srebrenica è stato commesso un crimine orribile”.

L’11 luglio Vučić si è perfino recato a Srebrenica per partecipare alla commemorazione degli eventi di vent’anni fa, un gesto coraggioso per un primo ministro serbo che deve affrontare un elettorato che, in maggioranza, non vuole ammettere che i serbi abbiano fatto qualcosa di particolarmente grave. Ma ancora non osa pronunciare la parola “genocidio”. Gli elettori non glielo perdonerebbero mai.

La maggior parte dei serbi ammetterebbe che la loro parte ha fatto alcune brutte cose durante la guerra nei Balcani degli anni novanta, ma aggiungerebbe che tutte le parti ne hanno commesse. Non accetteranno l’uso della parola “genocidio”. Eppure è questa la parola che i musulmani di Bosnia devono sentire prima di poter credere che i serbi hanno finalmente capito la natura e la portata del loro crimine.

Per questo motivo, quando Vučić era a Srebrenica per portare i suoi rispetti al cimitero, alcuni musulmani bosniaci hanno cominciato a tirargli dei sassi, rompendogli gli occhiali e costringendo il suo servizio di sicurezza a trascinarlo via in fretta e furia.

Si è trattato di un atto stupido e vergognoso, del quale le autorità musulmane bosniache si sono scusate. Ma come per i turchi e gli armeni, i serbi e i loro vicini non potranno mai davvero riconciliarsi finché i serbi non pronunceranno la parola magica.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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