25 maggio 2015 13:46

C’era una volta l’obiezione di coscienza, per molto tempo un gesto ribelle, libertario, di violazione di un divieto o di un obbligo.

C’era una volta Antigone, che disobbedì all’ordine del re Creonte di non seppellire il fratello. E c’erano i giovani uomini che rifiutavano l’obbligo del servizio militare, quando esisteva solo quello armato, e a volte anche dopo, quando è stato possibile scegliere quello non armato. Al divieto di Creonte e all’obbligo di leva ci si opponeva in nome di altri valori: dare sepoltura al fratello, rifiutare la violenza e le armi.

E lo si faceva senza aver compiuto in precedenza una libera scelta, come invece accade oggi con chi decide di studiare medicina e deve poi affrontare la questione dell’aborto.

C’era una volta insomma l’obiezione di coscienza cosiddetta contra legem, che poi è stata attirata nei confini della legalità, diventando così intra legem.

È successo prima con il servizio alternativo non armato negli anni settanta. Il percorso è stato lungo, difficile e controverso: si pensi che all’inizio il servizio non armato durava più di quello armato e la richiesta doveva essere analizzata e accolta da una commissione militare. Più tardi l’obiezione di coscienza è rientrata nella legge anche con l’approvazione della 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Negli anni seguenti è successo anche per la sperimentazione animale e le tecniche riproduttive, ma senza creare i conflitti dell’aborto.

E così un gesto individualista è stato addomesticato e profondamente snaturato. Sarebbe come se continuassimo a usare il nome di un animale selvatico per un cane da salotto. La continuità terminologica ci confonderebbe e potrebbe creare ambiguità e incomprensioni.

Tra l’obiezione di un tempo e quella di oggi – ridotta quasi solo al dominio medico e soprattutto a quello abortivo – ci sono molte differenze: non esiste un servizio alternativo, com’era il caso della leva non armata; l’eccezione prevista dalla 194 ricade in un dominio dove i doveri seguono una libera scelta (la facoltà di medicina, la specializzazione in ostetricia, l’esercizio in una struttura pubblica); l’obiettore attuale entra in conflitto molto più direttamente con le richieste individuali (con la richiesta di una donna di abortire invece che con un generico obbligo o divieto).

L’articolo 9

Cosa prevede l’articolo 9 della legge 194? “L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.

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I limiti non sono chiarissimi, e l’ambiguità originaria della 194 ha finito per prendere la forma peggiore, ovvero un servizio garantito in modo molto incerto e molto diverso da città a città, da ospedale a ospedale. Anche se la gerarchia dei doveri sembra essere chiara, così come il bilanciamento tra diritti nella sentenza della corte costituzionale che ha preceduto la legge, ma anche in alcuni passaggi della 194: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure. […] La regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale. […] L’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.

Ancora tu?

A quasi quarant’anni dalla legge 194 potremmo chiederci se ha ancora senso garantire un privilegio, la cui genuinità peraltro è impossibile verificare. Se decidi di fare il ginecologo e di esercitare nel pubblico, e se l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg) è uno dei servizi che la legge garantisce, non sarebbe meglio scegliere un altro lavoro se la tua coscienza è contraria all’aborto?

E poi: possibile che solo i medici, e quasi solo rispetto all’aborto, abbiano il privilegio di usare la coscienza come esonero? Chi decide di fare il penalista e si iscrive volontariamente alle liste di difesa d’ufficio deve difendere pure gli stupratori e gli assassini. Se non vuole farlo, sceglie un altro lavoro. I medici, d’altra parte, devono curare i suddetti. L’aborto sembra essere l’unica eccezione morale protetta dalla legge.

Ci sono anche le eccezioni nell’eccezione, la doppia morale di chi esegue diagnosi prenatali per poi dire mi dispiace, devo andare. Cioè, sono obiettore e la mia coscienza è contraria all’aborto, ma alle diagnosi – magari a pagamento – no. E le diagnosi prenatali in genere si fanno per scegliere, non per sapere e basta. Se la complicità morale dell’aborto prevede l’esenzione pure per gli anestesisti (che non praticano l’aborto), non dovrebbe comprendere anche le indagini prenatali? Insomma, siamo obiettori solo quando ci fa comodo?

Non c’entra, nella risposta che dovremmo dare, la libertà individuale o la coscienza, ma c’entrano il profilo pubblico di alcune professioni e gli eventuali doveri che ne derivano. Sono molte le professioni che comportano doveri che personalmente condanniamo, ma la nostra coscienza non è un motivo abbastanza forte da esentarci. Se questi doveri sono insostenibili, dovremmo forse riflettere meglio sulle nostre scelte professionali.

Anche l’obiezione che fare il ginecologo non possa essere ridotto a fare aborti appare debole, perché infatti non si vorrebbe certo questo (ed è buffo che le altissime percentuali di obiettori abbiano fatto sì che i pochi che garantiscono il servizio stiano rischiando proprio di finire così), ma l’aborto è una delle possibili decisioni nel dominio delle scelte riproduttive. Ed è anche per effetto dell’obiezione, sempre più numerosa e disinvolta, che l’ivg sta via via diventando sempre più qualcosa di separato e di connotato da vergogna e stigma.

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