17 aprile 2015 15:04

Due dati usciti in questi giorni confermano che l’economia cinese cresce a ritmi sempre più lenti. A marzo le esportazioni del paese asiatico sono diminuite del 15 per cento rispetto all’anno prima, mentre le importazioni sono calate del 12,7 per cento. Nei primi tre mesi del 2015, inoltre, il pil nazionale è cresciuto del 7 per cento rispetto allo stesso periodo di un anno fa, il risultato peggiore dal 2009.

Hong Kong, il 22 luglio 2014. (Bobby Yip, Reuters/Contrasto)

Per capire cosa significano questi dati bisogna considerare che negli ultimi 35 anni il paese asiatico ha conosciuto uno sviluppo straordinario: come spiega l’Independent, puntando sulle produzioni destinate all’esportazione più che sui consumi interni, la Cina è riuscita a crescere a un ritmo annuale del 9,7 per cento, portando circa 600 milioni di suoi cittadini fuori dalla povertà.

Quando è scoppiata la crisi globale, nel 2008, è diminuita la domanda di beni dal resto del mondo, in particolare dagli Stati Uniti e dall’Europa, facendo calare le esportazioni e la produzione. A quel punto, per mantenere in piedi il sistema industriale e continuare ad assicurare gli elevati ritmi di crescita del pil, Pechino ha promosso un numero crescente di investimenti finanziati dalle banche di stato e dai governi locali.

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Ma questa soluzione ha creato gravi problemi: molti progetti non hanno generato le entrate necessarie per ripagare i finanziamenti, accrescendo il rischio di un crac finanziario del settore bancario e delle amministrazioni pubbliche. Alla fine le autorità di Pechino hanno capito che era arrivato il momento di abbandonare il modello di crescita basato sulle esportazioni e sugli investimenti per passare a un’economia in cui contano molto di più i consumi interni. Per ottenere questo obiettivo il governo ha promosso un’ampia gamma di riforme che toccheranno tutti gli aspetti vitali del sistema economico e del welfare.

In attesa che le riforme siano completate si vedono già i primi segnali di cambiamento, osserva la Bbc, che non a caso parla di “fine di un’era per la Cina”. I dati sulle esportazioni e sul pil ci dicono che nel paese i consumi cominciano ad avere più peso degli investimenti, i servizi più della produzione manifatturiera, la domanda interna più delle esportazioni. Il pil cinese rallenta a causa della crisi globale, ma anche perché stanno cambiando i fattori che lo determinano.

Nel 2014 i consumi hanno garantito più del 50 per cento del pil, mentre nel 2009 erano al 35 per cento. “Alla crescita del 7,4 per cento registrata dal pil l’anno scorso, i consumi hanno contribuito con il 3,8 per cento e gli investimenti con il 3,6 per cento”. Insomma, puntando di più sui consumi e sui servizi la Cina aspira a un modello economico più vicino a quello dell’Europa e degli Stati Uniti.

Se Pechino riuscirà a gestire in modo ordinato il rallentamento, gli effetti potrebbero essere positivi per tutti

Cosa comporta questa grande trasformazione per la Cina e per il resto del mondo? Se il rallentamento sarà troppo brusco, Pechino potrebbe trovarsi davanti a una profonda crisi del settore bancario. Per questo molti esperti prevedono nell’immediato altre misure a sostegno del settore immobiliare, dove si rischia l’esplosione di una bolla, e di quello creditizio.

Un altro pericolo è l’aumento della disoccupazione, che inasprirebbe il malcontento sociale e le proteste antigovernative. Come spiega il professor Michael Pettis, docente di finanza alla Guanghua school of management dell’università di Pechino, un rallentamento troppo brusco dell’economia cinese e un’eventuale crisi delle banche locali rallenterebbero il resto del mondo e danneggerebbero il sistema finanziario globale.

Ma se Pechino, aggiunge, riuscirà a gestire in modo ordinato il rallentamento e la conversione della sua economia, gli effetti potrebbero essere positivi per tutti: un paese così grande che richiede sempre più beni e servizi invece di limitarsi a produrli “è proprio quello di cui il mondo ha bisogno”. Resta da capire se ci riusciranno i nuovi leader cinesi guidati da Xi Jinping, arrivato al potere nel marzo del 2013.

In una conferenza tenuta due anni fa al festival dell’economia di Trento, il professor Pettis ricordava che “gli stati autoritari sono efficienti solo finché tutto va bene, ma si rivelano un disastro quando bisogna gestire una crisi e aggiustare le cose”.

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