11 aprile 2015 11:43
La libreria Fahrenheit 451 a Roma, aprile 2013. (Massimo Siragusa, Contrasto)

Le premesse sbagliate

Il prossimo 23 aprile sarà la giornata mondiale del libro. Significa che – almeno qui da noi – si conteranno le vittime. Solo nel 2014, l’editoria italiana ha perso più di 800mila lettori. Lo smottamento è tutt’altro che episodico. Nell’ultimo lustro, il calo di fatturato complessivo è di circa il 25 per cento. Vale a dire che un lettore su quattro non c’è più (se preferite il bicchiere mezzo pieno: chi fino a poco tempo fa comprava quattro libri al mese, ha ridotto la spesa).

D’altro canto si comprano più ebook. I direttori generali delle librerie di catena hanno le occhiaie un po’ annerite. Due top manager su due si grattano la testa: non avevamo detto che il libro era un bene anticiclico?

“La crisi rischia di essere strutturale, non congiunturale”, mi disse mesi fa, versandomi da bere, uno dei più blasonati editori italiani. Non sorrideva.

“Nel senso che non si tornerà ai livelli di cinque anni fa?”.

“No, se il rimedio della malattia continua a essere identico e contrario al male che l’ha generata”.

Si riferiva alle strategie dei grandi gruppi editoriali (oltre che a grandi mediatori quali tv generalista, quotidiani nazionali, opinion leader): se si lavora cercando di sfornare consumatori anziché formare lettori veri, i primi non reputeranno mai il libro un bene fondamentale, e si volatilizzeranno ai primi aliti di crisi.

Per reagire alla situazione, l’Associazione italiana editori (di concerto con l’Associazione librai italiani e l’Associazione italiana biblioteche e il Centro per il libro e la lettura) si è inventata #ioleggoperché.

“Una grande iniziativa nazionale di promozione del libro e della lettura”, la definiscono in rete e sui giornali i chiosatori dei comunicati stampa.

“Un solenne sistema per perdere un altro po’ di tempo”, l’ha definita qualche settimana fa davanti al sottoscritto uno dei librai più noti della Romagna.

Eravamo in una bella trattoria sperduta tra le nebbie del ravennate. Sangiovese e cappelletti al ragù. Il libraio in questione esercita da trentacinque anni. Il suo punto vendita ha visto un’alba luminosa con la saggistica impegnata degli anni settanta, ma ha poi saputo reagire quando legioni di studenti hanno abbandonato Marcuse per gettarsi tra le braccia di Isabel Allende. Ha salutato con gioia i weekend postmoderni di Tondelli e osservato con divertito sospetto la sbornia per la new age in salsa brasiliana di Coelho, sapendo che l’equivalente dei beni rifugio per una libreria come la sua (Primo Levi, Philip Roth, Ágota Kristóf, Donna Tartt, Alice Munro, Antonio Tabucchi…) portavano altre intestazioni.

“Quindi non ti piace, #ioleggoperché?”.

“Ti dirò di più. L’altra sera sono stato a una cena dove c’erano dei tizi dell’Ali. Non convince neanche alcuni di loro”.

La campagna consiste nello stampare 240mila copie di 24 romanzi che saranno distribuiti gratuitamente il 23 aprile, con la speranza che questo seduca chi guarda i libri con sospetto, se non con disagio.

“È il sistema da show business fatto alla carlona che mi lascia perplesso”.

I libri saranno donati ai potenziali-lettori da personaggi famosi “pronti a tutto”, tra i quali Dario Vergassola, Linus e lo chef Carlo Cracco.

“Se ti regalano una cosa in quel modo lì, significa che vale poco”, ha continuato il mio amico quando il Sangiovese era stato sostituito dal caffè, “e a parte il fatto che su diecimila copie regalate di Il cacciatore di aquiloni, una o due non riesco a non considerarle sottratte a ogni singolo libraio che avrebbe potuto venderle davvero; è il meccanismo dei testimonial illustri che mi pare fuorviante. Il modo in cui veicolano il messaggio. Vai sul loro sito internet. Il messaggio è chiaramente pubblicitario. Solo che i libri non si vendono come le saponette, e io in trent’anni i lettori li ho visti sempre nascere sull’onda di un contagio che di pubblicitario aveva poco. Consigli degli amici. Incontri con scrittori o altra gente che ha fatto dell’amore per i libri la ragione di una vita. Una copertina particolarmente bella. Chiacchiere di bottega. Gruppi di lettura nati spontaneamente, disordinatamente. Il ragazzo o la ragazza di cui eri innamorato che leggeva Un rude inverno di Queneau. Qui al contrario c’è una doppia briglia: la pubblicità, e le istituzioni. Tempo sprecato. Soldi sprecati. Quei libri tra qualche mese ce li ritroveremo a marcire nelle cantine o sulle bancarelle dell’usato”.

Il secondo dato che mi sembra utile incrociare con queste considerazioni, riguarda la rinascita delle librerie indipendenti. L’onda ha cominciato a ingrossarsi da qualche anno negli Stati Uniti, e adesso è arrivata anche da noi. Con l’apertura di Amazon, le grandi catene sono in crisi. Che senso ha andare in un megastore, chiedere informazioni a commesse e commessi (in qualche caso sarebbe più corretto parlare di steward e hostess) che non sanno di cosa stai parlando, per non trovare il libro che può raggiungerti a casa con due colpi di mouse?

Le bestialità dei clienti in libreria raccontate in un divertente articolo di Stefano Benni vent’anni fa (”mi dà un libro che si chiama Il Processo di Kafka, però non so dirle l’autore?”) rischiano di riproporsi oggi a ruoli invertiti (”Scusi, avete Il processo di Kafka?”. “Ora controllo: mi dice per cortesia anche il nome dell’autore?”).
Dagli e dagli, è successo che negli Stati Uniti, a partire dal 2009, le librerie indipendenti sono cresciute del 20 per cento, mentre i colossi chiudevano decine di punti vendita (e licenziavano centinaia di dipendenti).

In Italia rischia di accadere qualcosa di simile, e così (come abbiamo letto di recente su la Repubblica) i colossi nostrani, anche loro in difficoltà, provano a inventarsi una strana categoria (dello spirito, ancor prima che merceologica) tutta da dimostrare: la “catena di librerie indipendenti”.

I più intransigenti tra i librai indipendenti che ho incontrato (sono in viaggio ininterrottamente da più sei mesi – 90 tappe in 180 giorni circa – e quello che state leggendo è il resoconto delle mie piccole avventure) mi hanno detto che molti colleghi di catena non sono da considerarsi tali.

“Non sono da considerarsi di catena?”.

“Non sono da considerarsi librai!”.

Non mi piacciono le guerre fratricide. E tuttavia il problema è che non poche librerie di catena hanno cominciato, nel corso degli anni, a dipendere in modo sempre più pesante dal cosiddetto Centrale. È il Centrale a decidere per tutti. Questo significa che in certi casi il singolo libraio non sceglie quali libri ordinare, in quali quantità, quali mettere in vetrina, e in certi casi non è neanche del tutto libero di scegliere i libri da consigliare. Dettaglio che (questa volta eravamo in auto, statale 11, sprofondati nel bresciano, i bordi della strada ricoperti di neve e un cielo di basalto su cui iniziava a crollare la nera sera invernale) mi è stato confermato da una libraia di catena che mi ha chiesto di restare anonima per evitare guai.

“Capito? Devo rendere conto anche di questo. Sono loro a dirmi quali libri spingere. Se consiglio ai clienti un libro che piace a me, ma non è tra quelli che avevano deciso quelli del Centrale, per un po’ mi lasciano mano libera. Poi però, quando vedono che il libro scelto da me sta vendendo più di quello su cui ha puntato il Centrale – e il Centrale ha quasi sempre una ragione per puntare su un determinato titolo anziché su un altro – allora, gentilmente, ma con fermezza, mi chiedono di smettere di consigliare il libro che piace a me. A volte, nonostante quel libro abbia magari venduto anche parecchio, mi chiedono perfino di non riordinarlo in troppe copie. Ti sembra bello?”.

Il paese reale

La fortuna è che, al di là delle iniziative istituzionali a sostegno della lettura, o dei consigli d’amministrazione dei colossi dai piedi d’argilla, esiste un paese reale. E nel paese reale, oltre ai librai indipendenti ci sono le associazioni, i comitati, i gruppi di lettura, i presìdi, addirittura i privati con la passione per la lettura disposti a mettere qualche soldo su iniziative destinate ad avere più successo di quelle che (con dieci volte la stessa spesa) gli organi ufficialmente preposti al fine riescono ad affondare una dopo l’altra da molti anni a questa parte.

Una visitatrice della fiera Più libri più liberi a Roma, il 7 dicembre 2011. (Giorgio Cosulich, Getty Images)

Queste persone io le conosco, ci parlo, le incontro da almeno vent’anni, e in particolare mi è capitato di farlo negli ultimi mesi trascorsi senza pause a macinare chilometri. Non le conosco tutte, ovvio. Ma credo che quel po’ di esperienza accumulata (nient’altro se non ore e ore trascorse a chiacchierare di persona con chi i libri li vende, li fa vendere, ne parla, li acquista; la presenza fisica in librerie, circoli, associazioni, sedi di gruppi di lettura) mi renda un testimone abbastanza attendibile.

Quella che segue non è solo una guida per riconoscere i tuoi santi nel mondo della bibliomania sostenibile. È anche un invito e una speranza. L’invito è rivolto a chi un minimo di potere ce l’ha davvero: enti, ministeri, fondazioni, grandi associazioni di categoria. La speranza comincia risalendo la gobba di un grosso punto interrogativo: ma perché, invece di scaraventare carrettate di euro in progetti nati in vitro che muoiono dentro le bianche pareti dei laboratori che li hanno concepiti, non provate a rivolgere l’attenzione qui fuori? Guardate al paese reale! O meglio, a quella minuscola frazione del paese reale che si occupa ogni giorno di libri con cognizione di causa. Ci sono centinaia di agenzie culturali, sorte più o meno spontaneamente, che (con tutto il rispetto per il risotto allo zafferano con midollo) sulla materia ne sanno concretamente più di un grande chef. A meno che Carlo Cracco non accetti di affidare a un libraio di grido una delle sue stelle Michelin per un fine settimana.

Sicilia Felix

Come ha detto di recente Daniel Pennac, l’Europa possiede due grandi isole letterarie. L’altra è l’Irlanda. A Palermo ci arrivo a metà ottobre, sollevato da un caldo che altrove farebbe pensare all’inizio dell’estate. Luce su piazza Politeama. Luce sul teatro dei pupi di Mimmo Cuticchio in via Bara. In un punto della Kalsa c’è invece vicolo della Neve all’alloro. Parlare di nome evocativo è poco. La strada si chiama così perché in epoca prefrigoriferi ci si vendeva la neve.

In questo stesso spazio fisico, Burt Lancaster pronuncia le ultime battute nel Gattopardo di Visconti. Vicolo della Neve all’alloro è anche la sede di Booq. Si tratta di una bibliofficina occupata (biblioteca + ciclofficina), nonché di un attivissimo luogo di incontro e aggregazione. Tra i suoi animatori Matteo Di Gesù, classe 1971, ricercatore di letteratura italiana all’Università degli studi di Palermo, critico letterario, uno dei cuori pulsanti della cultura cittadina.

La sera in cui ci vado io, sono attesi uno dopo l’altro per i giorni successivi Wu Ming e Francesco Maino. Quest’ultimo parlerà del suo Cartongesso, in cui descrive il paesaggio (anche spirituale, perfino lessicale) del nordest come una terra devastata: e sarà interessante mettere a confronto quel tradimento con i tradimenti delle diverse Primavere che qui a Palermo hanno lasciato segni su tutti i cittadini di buona volontà.

A ogni modo Booq è uno spazio in cui trovo persone di tutti i tipi. Studenti universitari, gente del quartiere, attivisti di comitati civici, donne e uomini formati nelle dure e magnifiche stagioni di Danilo Dolci (incredibile, ogni volta che ne incontro uno, quasi sempre gli riconosco addosso lo stesso tipo di vento, come se in una conchiglia raccolta per strada ritrovassimo l’eco indimostrabile di un qualche mar Egeo).

Per esempio da Booq mi imbatto in Carola Susani, che al Belice e all’esperienza di Dolci ha dedicato qualche anno fa un libro per Laterza, L’infanzia è un terremoto. A un certo punto una chioma rosso fuoco su un corpo alto e pallido da principe: è arrivato anche Antonio Sellerio e ha le braccia cariche. Porta in dono alla bibliofficina i libri della sua casa editrice, una delle poche ad aver ingannato la crisi di questi anni.

Antonio Sellerio lo andrò a trovare qualche giorno dopo nella loro bellissima sede di via Siracusa. Chiacchieriamo ovviamente di libri. E anche di copertine (”Mi spieghi come e quando vi siete inventati quella grafica pazzesca che non invecchia mai?”).

Poi arriva Elena Stancanelli. È attesa alla Sellerio non in veste di scrittrice (i suoi libri li pubblica Einaudi), ma di animatrice culturale. Stancanelli si è inventata qualche anno fa Piccoli Maestri.

Mutuando l’idea dalla scuola di Dave Eggers 826Valencia a San Francisco (ma aggiustando il tiro secondo le esigenze – cioè le risorse – del nostro paese), Piccoli maestri mette gli scrittori a disposizione degli studenti delle medie superiori. Una scuola di lettura. Edoardo Albinati spiega Il principe di Machiavelli al liceo Nomentano. Tommaso Giartosio racconta Il barone rampante ai ragazzi del Fermi. Fabio Geda legge Fenoglio al liceo scientifico Carlo Cattaneo….

Non un doposcuola, ma un’integrazione di cui è facile cogliere la preziosità. La prima notizia, è che nessuno scrittore chiede un centesimo per fare quello che fa. Insegnano gratis. Chiamatela militanza, se volete. Io lo chiamo avere a cuore il bene comune (o educarsi ed educare a farlo, attraverso l’esempio) nel paese del particulare.

La seconda notizia è legata a un aneddoto raccontato da Edoardo Sanguineti in un incontro pubblico che facemmo insieme qualche anno fa, prima che lui morisse. Un giorno invitano Sanguineti a leggere le sue poesie in una scuola media. La professoressa di italiano dice agli alunni: “E ora leggeremo delle poesie. Anzi, sarà l’autore a farlo. Eccolo, ve lo presento”. A quel punto una bambina con le treccine rosse salta su dalla sedia, sgrana gli occhi, punta incredula il dito verso la complessione giacomettiana di Sanguineti, esclama: “Un poeta? Ma è vivo!”.

Questo dovrebbe bastare a far capire (nel paese dove la vista dei primi banchi coincide con la fine della lettura) che senso può avere portare scrittori vivi nelle scuole.

Ecco perché Elena Stancanelli (che vive a Roma, è nata a Firenze, ma ha ascendenze palermitane) oggi è in Sicilia. Antonio Sellerio vuole capire se il modello è importabile nell’isola che da una parte ha dato alla nostra letteratura più autori di ogni altra regione italiana, mentre dall’altra porta la maglia nera quanto a indici di lettura: nel 2014, il 71,8 per cento dei siciliani non ha letto un libro.

A Palermo faccio tappa anche da Modus Vivendi. È una delle librerie indipendenti più famose d’Italia. Non ho mai visto qui dentro una presentazione disertata dal pubblico. Spesso c’è gente fuori, anche se l’incontro con l’autore è fissato per le 10 del mattino di domenica. Quando un libro piace a Fabrizio Piazza, è capace di venderlo in centinaia di copie, senza nessun Centrale che possa mettersi di mezzo. Modus Vivendi vive di sete e altri tessuti pregiati, oltre che di libri. I proprietari Salvo Spitieri e Marcella Licata sono spesso in viaggio in India e in estremo oriente, da lì tornano carichi di cotone, lino, seta e cashmere che fanno capolino tra uno scaffale e l’altro, da comprare insieme ai libri.

Stamattina vedo arrivare in libreria altre due vecchie conoscenze. Uno è Andrea Libero Carbone. Nel 2004 è stato tra i fondatori della casa editrice :due punti, e in questo ottobre assolato sta organizzando ai Cantieri alla Zisa il Nuove Pratiche Fest, due giorni di incontri serrati dove si discuterà di management e nuove politiche culturali. L’altro è lo scrittore Giorgio Vasta.

Ora, non so se avete presente James Joyce, che andò via dall’Irlanda gonfio di aristocratico sdegno, convinto di esserne stato cacciato (nessun foglio di via a suo carico), e dunque, da quel momento in poi, non fece che scrivere di Dublino e della neve che “cadeva soffice sulla palude di Allen e più a ovest sulle nere, tumultuose onde dello Shannon”.

Ecco, dopo avere abbandonato Palermo per Torino, e poi per Roma, Vasta non ha fatto altro che raccontare Palermo e la Sicilia (una volta se n’è andato perfino da solo in Islanda per sentire più forte l’amore/odio per la sua terra d’origine, la parte per il tutto che è l’Italia) con due libri di grande importanza e molto tradotti all’estero (Il tempo materiale e Spaesamento), e ora anche con un film (Via Castellana Bandiera di Emma Dante l’ha scritto lui). Su Vasta vorrei scrivere volumi per squarciare il velo che alcune tonnellate di ore trascorse a discutere insieme negli ultimi otto anni non mi hanno concesso di fare. O almeno, non come l’attrazione emotiva e intellettuale che provo per lui vorrebbe.

Lo ritroverò tra qualche giorno, Giorgio Vasta come Andrea Libero Carbone come Matteo Di Gesù come Fabrizio Piazza. Adesso devo temporaneamente abbandonare Palermo per colmare una lacuna. Trapani. Non ci sono mai stato.

E quando una polla di luce mi arriva addosso di rimbalzo dalla facciata di palazzo Cavarretta, capisco pieno di vergogna cosa mi sono perso. Trapani è bellissima, oltre che affollata di gente. Molti anche i turisti. Merito della nuova tratta Ryanair e delle rotte delle navi da crociera, mi dicono nel centro storico.

Fuori degli archi della cattedrale di San Lorenzo trovo un gruppo di bambini diretti da un prete: cantano contro un microfono collegato a una piccola piramide di casse Marshall. Il mio obiettivo è un altro. La sua leggenda la precede. Di lei ho sentito parlare in modo poco meno che iperbolico a Palermo, da almeno tre diverse fonti non in contatto tra di loro. Tanto che mi son fatto l’idea che sia la Auxilio Lacouture del luogo. Qualcuno ricorderà il personaggio di Roberto Bolaño che compare in Detective selvaggi e Amuleto, il cui attacco (vado a braccio) è ormai un classico della letteratura dell’ultimo decennio: “Io sono la madre della poesia messicana. Io conosco tutti i poeti e tutti i poeti conoscono me. Io arrivai a Città del Messico nell’anno 1967 o forse nell’anno 1965 o 1962. Non mi ricordo più né le date né le peregrinazioni, l’unica cosa che so è che arrivai in Messico e non me ne andai più”.

“Ah, vai da Teresa Stefanelli?”, mi hanno detto per tre volte a Palermo.

Teresa Stefanelli gestisce a Trapani la Libreria del Corso, in corso Vittorio Emanuele 61. Approdò qui appena laureata e rilevò l’esercizio quando i vecchi proprietari decisero di mollare. Ci stringiamo la mano: è giovane, molto più di quanto immaginassi, tenendo conto di come ne parlano.

“Tu che sei pugliese”, mi dice un suo amico cinque minuti dopo,”hai presente quando ad Altamura MacDonald’s ebbe la sciagurata idea di aprire di fronte a uno dei migliori panifici del paese?”.

In quel caso il BigMac si schiantò contro la focaccia locale (il fast food chiuse per scarsa affluenza di clientela). Qui a Trapani pare sia successa una cosa molto simile. Qualche anno fa, una catena di megastore decise di sfidare la Stefanelli sul suo terreno. Aprì una filiale a pochi passi dalla Libreria del Corso, e fu costretta a chiudere poche stagioni dopo. Un’altra libreria di catena, a qualche traversa da qui, pare soffra molto. Davide e Golia. Ma chi è l’uno e chi l’altro in questo caso?

Qualche ora più tardi, dopo aver passeggiato lungo le mura di Tramontana al calar della sera – pescatori in chiacchiera sui legni, mentre nel cielo pulsa e si dilata una gigantesca macchia viola nella quale mi sembra di riconoscere il volto inquietante di Palmer Eldritch, il personaggio di Philip K. Dick – posso toccare con mano cosa succede alla Libreria del Corso quando c’è la presentazione di un libro. Mezzo paese radunato di fronte alle vetrine (fa talmente caldo che la presentazione è all’aperto). Lettori affezionati, passanti, membri di associazioni, a un certo punto lo scrittore e fumettista Marco Rizzo, poi qualche studente, un magistrato di quarant’anni con cui mi fermo a chiacchierare per mezz’ora.

I giorni successivi sono molto serrati. In Sicilia la rete ferroviaria fa schifo. Così mi affido ai pullman (viaggiare in pullman non mi piace, starmene incastrato tra i sedili polverosi a guardare il panorama mi dà la sensazione di essere al capolinea di una vita parallela in cui ho fatto ancora più errori che in quella attuale). A Siracusa visito la Libreria Gabò. Qui Luisa Fiandaca (ex Byblos) organizza gli eventi. Oltre a lei trovo il traduttore Mario Fillioley, Angelo Orlando Meloni (altro punto fermo della vita culturale cittadina, autore di libri per Del Vecchio), e faccio la conoscenza di Daniele Zito, scrittore e studioso di intelligenze artificiali.

Come si è evoluta l’informatica rispetto alla filosofia e alla letteratura contemporanee? La teoria delle reti può trovare soluzioni a qualche suo problema nelle pagine di Proust o in Il gioco del mondo (Rayuela) di Cortázar? Cerchiamo di capire però cosa significa risolvere un problema: la scoperta di un nuovo strumento d’indagine rischia di modificare, insieme con i mezzi, anche gli obiettivi? Parlare con Daniele è un’esperienza. Mi dà l’idea (poi confermata nel corso del mio viaggio) che umanisti e scienziati debbano parlarsi di più.

A Catania, scortato da Giuseppe Lorenti, visito Zo, una ex raffineria di zolfo trasformata in “centro per le arti”, dove si tengono concerti, si presentano libri, si allesticono mostre d’arte contemporanea e che ospita anche una radio privata. A Messina faccio invece conoscenza con Alessandra Morace, combattiva titolare della locale Libreria Mondadori, non proprio conciliante con la catena.

“Alessandra, ma sei sicura che posso scrivere tutto quello che mi stai dicendo?”.

“Se puoi scriverlo? Devi scriverlo!”.

“Non lo so, non vorrei crearti guai con la rete di franchising…”.

“Allora facciamo parlare i numeri. Lo sai quanti eventi ho organizzato nella mia libreria in questi ultimi anni?”.

“No”.

“Centotottantasei! E sai in quanti, di questi incontri, la catena ha interpellato la casa editrice per portarmi un autore?”.

“Quanti?”.

“Uno! Uno su 186!, ma ti pare?”.

“…”.

“Per esempio, guarda la carta da regalo che ci hanno mandato. È nera! Ma si può? Secondo loro dovremmo impacchettare i libri con questa!”.

“Brutta è brutta…”.

“Il problema sono i manager. Mettono al vertice di un sistema di librerie gente che fino al giorno prima si è occupata di scatolette. E i risultati si vedono”.

La libreria Hoepli di Milano, 2006. (Massimo Siragusa, Contrasto)

A Messina c’è anche Francesco Musolino, anima di @Stoleggendo, progetto non profit (e in ascesa) per la diffusione della letteratura online. Sempre a Messina sarebbe d’obbligo una sosta da Colapesce. La libreria è gestita da Chiara Baffa e Filippo Nicosia. Di Nicosia si parlò molto qualche tempo fa, quando lanciò il bianciardiano progetto di Pianissimo, libri sulla strada. Su un furgone d’epoca trasformato in libreria itinerante, Nicosia e i suoi arrivavano nei comuni siciliani dove le librerie non c’erano più, o addirittura non c’erano mai state. A un certo punto troppo clamore, troppe pagine sui giornali: un atto di militanza rischiava di diventare la moda del momento. Così Nicosia ha mollato il furgone e ha aperto una vera libreria.

La bellezza di Noto intimidisce, tanto è potente. E Noto, in questi anni, sta vivendo un piccolo rinascimento. Il paese è tenuto molto bene, attira gente da lontano (da Torino, dalla Liguria, dalla Lombardia, anche dall’estero), uomini e donne ci vengono a vivere o aprono attività o piccole aziende legate all’arte, alla cultura, al turismo, alla ristorazione. Questo fa sì che all’ombra della Cattedrale (una delle più belle al mondo) si stia creando una comunità fatta di accenti, provenienze, esperienze diverse.

“Da queste parti ha preso casa Giorgio Agamben”. “Lì vive il direttore della Magnum almeno due mesi all’anno”, mi dicono. Giusi Farina, l’assessora alla cultura Cettina Raudino, la libreria liber liber, Barbara Fronterrè (titolare della libreria Liccamucciola nella vicina Marzamemi, dove anche il cibo e il vino svolgono un ruolo importante), il professor Enzo Papa… sono alcune delle persone che a Noto uniscono le forze per fare di questa terra un presidio culturale vivo e resistente.

Non si creda, tuttavia, che per me “piccolo” equivalga necessariamente a “bello”. Ci sono grandi agenzie culturali che sono luoghi d’eccellenza, meritano tutta la loro fama e dimensione. E poi ci sono librerie indipendenti che stanno ancora in piedi per miracolo – per quanto lavorano male. Per esempio (non farò nomi per non infierire) una che sta a metà strada tra Modica e Donnalucata, e che per confondere le acque chiamerò Mastro don-Gesualdo. Il sud: splendore a doppio taglio. Da una parte offre magnifiche sorprese senza fartelo pesare. Con la stessa disinvoltura può puntarti alla gola il coltello della peggiore arretratezza.

Il titolare della libreria Mastro don-Gesualdo mi si presenta dicendo: “Piacere! A me della letteratura contemporanea non me ne fotte una minchia”.

“Bene”, faccio, “e quali scrittori ti piacciono?”.

“Dostoevskij. Quello era fortissimo…”.

“Già. Cosa hai letto di Dostoevskij?”.

Ricordi del sottosuolo. Incredibile, no?”.

“Solo Memorie del sottosuolo?”.

“No, anche Il giocatore. Quello lì era fuori di testa. Beveva. Era epilettico. Mi piace un fottìo”.

“Dostoevskij”.

“Il grande Fedor”.

“Ma tu in libreria vendi anche libri di narrativa contemporanea, giusto?”.

“Certo”.

“E mi avete chiamato qui per parlare stasera di letteratura contemporanea”.

“Che c’entra. Anche tu sei fortissimo”.

Ho un difetto atavico. Giuro che negli anni ci ho lavorato. Otto su dieci vince ancora lui. Quando danno il peggio inconsapevolmente, ricambio con un peggio consapevole.

“Conosci Alice Munro?”.

“No”.

“E Philip Roth?”.

“Never covered”.

“Saramago?”.

“Quello che scrive libri su Gesù… in libreria dobbiamo averne qualche copia”.

La sera, dopo l’incontro pubblico (gestito meglio della precedente chiacchierata), la socia del libraio mi porta a cena in un pub, insieme c’è il suo fidanzato, un ragazzone dai capelli rossi che per tutta la giornata non ha spiccicato parola. Ma finalmente adesso parla. E si rivolge a me.

“Senti un po’, tu…”, esordisce, “da quello che ho capito te ne stai spesso in giro”.

“Viaggio molto, in effetti. Quando scrivo posso starmene chiuso in casa anche quattro anni. Poi devo recuperare”, sorrido, “per esempio questi mesi”.

“Questi mesi, questi mesi… non solo questi mesi, ah! Prima hai detto che l’estate stai a Venezia”.

“Giugno e luglio. Al Lido. Selezioniamo i film per la mostra del cinema”.

“Due mesi, te ne stai lì. Oppure ho capito male?”.

“Ogni anno arrivano 1.500 film. E dobbiamo vederli tu…”, aggrotto le sopracciglia, “ma non capisco cosa mi vuoi di…”.

“Non ti voglio dire proprio niente. Ti voglio chiedere: che mi rappresenta che te ne stai in giro?”.

“Come?”. A questo punto credo ancora che il mio interlocutore stia scherzando.

“Che vita è la vita di uno che a casa ci sta così poco! Sei sposato, sì?”.

“Sì…”.

Non sta scherzando.

“E allora che mi rappresenta che te ne vai in giro in questo modo! Una vita di merda! A casa devi stare_, a casa_! Con la famigghia!”.

Sono allibito.

“Ma scusa”, sorrido, “completa il sillogismo”, brutto errore, penso mentre parlo, “se io non viaggiassi così tanto, non sarei potuto venire stasera alla libreria della tua fidanzata. Mi avete invitato voi”.

“Che c’entra”, fa lui sempre più nervoso, “tu non lo fai una volta ogni tanto. Lo fai per vizio!”.

“Però”, qui sorrido soavemente, altro errore, la funzione del balsamo sotto cui fingiamo di nascondere gli intenti canzonatori è percepibile ai canzonati, “scusa tanto”, dico, “però io non mi metto a giudicare le vite degli altri come stai facendo tu. E comunque potresti essere più tollerante. Potresti – ecco – avere una mentalità più aperta”.

A questo punto vedo la libraia sobbalzare. Sgrana gli occhi. Mi fa segno di azzittirmi. Troppo tardi.

“Minchia!”, fa il tizio sbattendo i pugni sul tavolo, “vaffangulo! E mo’ ti sei fatto i cazzi tuoi! Qui stai giocando fuori casa, ah! Attento che adesso rischi che ti fai male veramente! Qui siamo in Sicilia ed è meglio che inizi a farti il segno della croce”.

L’ho detto. Il peggio consapevole. Così alla fine sbrocco anch’io.

“Uè, trmon’! Vid’ ca so’ d’Bbar’! E c’mo’ nun d’ ste’ citt’, tea schatte’ u’ pallon’!”.

Traduzione: Ehi, mezzasega! Vedi che sono di Bari! E se ora non ti stai zitto, ti spaccherò la faccia! (letterale: ‘ti faccio scoppiare il pallone’).

Qui al lettore avvertito non saranno sfuggiti almeno tre indizi. Uno: come si vede non è difficile far venire fuori anche da me il “peggio inconsapevole”. Due: nel mio giocare di fioretto (l’armamentario linguistico progressista tutto allusioni e mine interrate sotto le sabbie delle buone cause) c’erano i cascami di una padronalità che detesto quando la trovo negli editoriali che officiano le messe del ceto medio riflessivo. Tre: poiché la natura ama nascondersi, scatenare l’aggressività altrui nel modo che ho fatto io, dovrebbe essere quasi un’occasione montaliana (al netto del delirio dell’aggressore – un ago con la punta di diamante nascosto in un pagliaio – perfino lì si può trovare una verità che ci riguarda). Perché mi sono messo in viaggio?

A Palermo ci torno il 17 ottobre. Lo faccio per ritrovare Giorgio Vasta e Andrea Libero Carbone, Federico Cerminara (factotum di Piccoli Maestri) e Antonio Sellerio, Christian Raimo e Franco Marineo, Andrea Inzerillo più altri uomini che lavorano con i libri per disputare una partita di pallone a villa Trabia. È la prima edizione del Memorial in vita Giordano Meacci, un torneo di nostra invenzione. Giordano Meacci è uno scrittore italiano. Come si evince dall’intestazione, Giordano Meacci è vivo. Solo, a quasi dieci anni dal suo esordio, non ha ancora pubblicato un secondo libro di narrativa. Dice di lavorarci molto. Accampa scuse. Rinvia continuamente l’uscita. E poiché noi amiamo molto ciò che scrive, abbiamo deciso di intestargli un Memorial, considerarlo punitivamente sospeso (vivo e morto) fino a quando non finirà di scrivere il suo romanzo.

In realtà la partita di villa Trabia ha anche un altro significato, più nascosto. Non ce lo diciamo, ma è un modo per stare insieme sotto un cielo che esplode di continuo tempestato da bombe di pura luce: immaginare che quello che veramente amiamo non ci sarà strappato troppo facilmente, nonostante i tempi siano difficili, e una durezza ulteriore a quella espressa dal contesto rischi di contagiarci tutti prima o poi. Restare umani. In un attimo di esaltazione (la giornata è davvero magnifica), avevo pensato di chiamare Franco Maresco, di far venire anche lui qui a villa Trabia. Poi ho rinunciato.

Nel mio sentire, Maresco è il vero spettro che si aggira per Palermo, una sorta di grande anima (mai riconosciuta) della città. L’estate scorsa ci sentivamo per telefono. Non è venuto personalmente a Venezia a presentare il suo Belluscone. Una storia siciliana. Non ci è venuto nemmeno quando il film ha vinto il Premio della giuria della sezione Orizzonti. “Nicola, in mezzo a tutta quella gente mi sentirei a disagio”. A Venezia a ritirare il premio ci ha mandato Rean Mazzone, suo produttore storico.

Potrei dire che l’autolesionismo di Maresco è pari al suo talento, se non fosse che il suo talento è troppo. Belluscone è il più importante film civile uscito in Italia negli ultimi anni (la mafia dei sottoproletari come malattia della borghesia siciliana, la Sicilia per l’Italia), così come Totò che visse due volte, realizzato con Daniele Ciprì, è il più profondo e commovente film religioso (e dunque fu sequestrato per vilipendio alla religione) che io ricordi dai tempi di Pasolini.

A Palermo mi capita ogni tanto di incontrare persone incazzate con Franco. Perché ti cerca e poi sparisce. Perché quando ci si imbarca in un progetto insieme a lui, non si sa mai in quali secche (o tempeste) si può finire. Perché la sua intransigenza sfocia in un’ossessione in cui sei prima catturato e poi coinvolto (ma l’ossessione è la sua, mai la tua).

Poi però vedi le sue opere e capisci che Maresco è uno dei più grandi artisti italiani viventi in un paese che sembra strutturato appositamente per sfiancare, indebolire, esasperare gli spiriti come il suo, per trasformare il genio in vittimismo, almeno fino a quando un colpo di reni non ribalti di nuovo la prospettiva. Ma è faticoso, è ingiusto che sia così.

A nord

Milano è una selva oscura, recita il titolo di un romanzo di Laura Pariani. Il fatto è che Milano per me rimane una città di ardua decifrazione. Nel 1996 ci ho abitato per un anno senza riuscire a entrarci mai davvero. E tuttavia lo so che un varco esiste. Ogni sistema complesso ne ha di prodigiosi. Intendo un varco che mi sia congeniale. Non un sistema per venire a contatto con l’eredità di certi anni ottanta ormai meno che cadaveri (la città e il suo doppio come l’attesa di un suffisso: Milano2; palazzo dei Cigni come la riduzione in laicità del Duomo…), ma con le nuove incarnazioni di cari fantasmi. Bobi Bazlen. Giorgio Scerbanenco. Primo Moroni. Persino il Martinitt dal quale uno come Angelo Rizzoli partì senza una lira per conquistar l’impero. E poi: Pisapia. È una vera svolta? Un’ottima curatela fallimentare? Milano ha solo sonnecchiato per riprendere forza, e adesso, usando l’Expo come leva, tornerà meravigliosamente alla ribalta? Non capisco, probabilmente è colpa mia. Dopo tanto tempo, vorrei trovare la strada giusta per entrarci.

La libreria della galleria 10 Corso Como a Milano. (Gunnar Knechtel, Laif/Contrasto)

Questa sera va bene perché sono da Gogol&Company, in via Savoia 101. È una delle migliori librerie indipendenti della città. Ne è proprietario e la gestisce Danilo Dajelli. Intorno a Gogol, lui e i suoi mi sembra stiano riuscendo a creare una piccola, reale comunità. Lo si capisce dalla temperatura emotiva di certe serate (presentazioni, incontri con l’autore, discussioni pubbliche sulla letteratura): il clima è empatico, rilassato, ogni tanto qualche sussulto elettrico. Ce ne sono di altri, in giro per Milano, di posti simili. La Libreria Utopia di Lucio Morawetz, rinata in via Marsala (la ricordo nella vecchia sede di via della Moscova), la Libreria del Mondo Offeso di Laura Ligresti in via Cesariano. Suppongo sia interessante Open, in via di Monte Nero: se ne è molto parlato nei giorni dell’apertura, ma io non ci sono stato.

Ricordo altri presìdi cittadini dove si parla di libri in pubblico, non necessariamente librerie. Per esempio La Scighera, nel cuore della Bovisa. Qui, oltre a discutere di libri c’è musica dal vivo, ci sono spettacoli, dj set, esibizioni di saltimbanchi, si tengono corsi di ballo, di teatro, ci si diverte con tornei di scopone e di “calcio anti balilla”. Tecnicamente sarebbe un circolo Arci. Di fatto, la prima volta che ci entrai mi sembrò un locale scandinavo, per come era tenuto bene. Esattamente quel che piace al sottoscritto: intensità dieci, svacco zero (apprezzo anche quello, ma non in forme tanto standard da risultare reazionarie, sì al candore di Doc Sportello, no al bordello di un certo antagonismo a buon mercato). Mi ci portò la prima volta Paolo Cognetti, poi per un periodo la Scighera fu a rischio chiusura, e adesso se non ho capito male il pericolo dovrebbe essere temporaneamente allontanato.

Ricordo anche che fino qualche anno fa Alessandro Bertante e Antonio Scurati invitavano gli scrittori a leggere i loro inediti nella gloriosa Palazzina Liberty nel parco di largo Marinai d’Italia (temo che l’esperienza si sia interrotta), mentre continuano i reading di Slam X.

È difficile per me abbandonare Milano senza tentare di abbracciare fisicamente Cristina Gerosa e Pietro Biancardi di Iperborea. A Milano c’è anche un amico che forse avrei potuto salvare e non ci ho neanche provato. Inutile rimproverarsi se si è colpevoli e son passati i lustri. Bisognerebbe sperare in un perdono. Le presenze spirituali a cui invece penso con sollievo quando metto piede in città sono Helena Janeczek e Giuseppe Genna.

Helena è nata a Monaco di Baviera, si è trasferita a Milano nel 1983 e ha scelto l’italiano per i suoi libri sin dal romanzo d’esordio, Lezioni di tenebra. È una delle anime di Nazione Indiana, uno dei blog di più antica tradizione (se così si può iniziare a parlare per qualcosa che è nato in rete). Bisognerà prima o poi quantificare l’importanza che hanno avuto gli spazi online nel sostenere un dibattito letterario degno di questo nome mentre i giornali cartacei lo marginalizzavano. Impossibile allora non pensare a Genna, che nel campo è stato un pioniere. In principio fu lo spazio telematico di Clarence, poi I Miserabili e ora il blog Giuseppe Genna. La rete come libertà e non come strumento di amplificazione del potere. Ricordate? Un tempo era tutta campagna nei vecchi modem 56 kbit/s.

Di Milano, Genna è una sorta di cattiva coscienza. Difficile non esserlo, per uno nato nel giorno della strage di piazza Fontana. Negli anni (fin dai tempi di Assalto a un tempo devastato e vile, la cui prima edizione risale al 2001) Genna ha dato di Milano e del suo hinterland una lettura personalissima, spiazzante, strana, disturbante, mai riconciliata, facendo magari arrabbiare (come Palermo con Maresco) chi chiede alla letteratura più misura che eccedenza, e però senza di lui non mi sarebbe stato possibile soggiornare negli (e ripensare le cose dagli) stati percettivi a cui i momenti più affascinanti della sua scrittura consentono l’accesso.

A Milano c’è anche Il Primo Amore: associazione culturale, blog letterario, rivista cartacea e piccolo editore. Tra i punti di riferimento del gruppo ci sono Benedetta Centovalli,Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Carla Benedetti.

Difficile amare l’Italia senza amare anche Milano. E doverosamente impossibile dolersi dell’una senza fare altrettanto dell’altra. Difficile anche non pensare all’eterno confronto con Roma. A Milano, la politica culturale, più che complementari, mi sembra segua percorsi mentali opposti rispetto a Roma. Entrambi rischiano di finire ogni tanto in un vicolo cieco. Ho l’impressione che a Milano certe piccole iniziative siano sì considerate doverose sacche di resistenza civile, ma in fin dei conti ininfluenti rispetto ai giochi dei grandi.

E verso i grandi (concentrazioni editoriali, istituzioni, fondazioni, giornali), a Milano – un po’ per realismo, un po’ per la paura di apparire ridicoli – mi sembra ci sia un rispetto intrinseco, quasi aprioristico, indipendente (se non magari ex post) dal contenuto del messaggio, o dalla perversione eventuale del mezzo. Roma, al contrario, ha la pretesa di andare a fare la rivoluzione armata di un casco di banane e quattro fichi secchi come dote. Se solo una città imparasse dall’altra a sognare il grande cambiamento, e l’altra da quell’una a usare un po’ di realismo per diventare meno cinica…

Fine dei sogni proibiti: sono in Pianura Padana, destinazione Cremona. Il mio Virgilio in questo caso è Andrea Cisi. Le sette del mattino di domenica. Viene a prendermi alla stazione di Piacenza e insieme copriamo in automobile la mezz’ora scarsa che ci separa dalla destinazione. Cisi ha pubblicato qualche anno fa per Mondadori un romanzo intitolato Cronache dalla ditta. All’inizio nemmeno i suoi editori, mi dice, riuscivano a credere che le storie di operai che raccontava nel libro fossero vissute in prima persona. Come se gli operai dovessero sempre venire dal bianco e nero di un film neorealista o peggio da un sottomondo che con i libri ha poco a che fare. Come se un operaio del ventunesimo secolo non possa leggere Carver, tifare Cremonese, ascoltare Subsonica e Pearl Jam. Di questo stesso pregiudizio, ma rovesciato, Cisi – mi racconta – è stato vittima anni fa proprio alla Scighera, a una presentazione nel corso della quale un paio di intervenuti (ovviamente non avevano mai fatto un vero lavoro manuale in vita loro se non per hobby) pretendevano che discettasse di marxismo e lotta di classe.

Attraversiamo la pianura. Acciaierie, capannoni, night club, ancora linee rette all’orizzonte. “Lì c’era la centrale nucleare”, fa Cisi indicando nel cielo vuoto la direzione per Caorso. Passa a elencare le malattie professionali, i veleni con cui le fabbriche della zona massacrano chi ci lavora. “Malati di cancro a trent’anni. Non pensare che certe cose succedano solo a Taranto”. Poi vede un’altra acciaieria, cambia discorso. “La vedi quella luce? Sta per finire il turno notturno. Cinque o sei degli operai che ci lavorano ora usciranno, torneranno a casa, si metteranno in maglia e calzoncini corti, e alle dieci giocheremo insieme a pallone. Oggi è giorno di torneo”. “A pallone! Non saranno stremati?”. “Hanno vent’anni, io sono il vecchio della compagnia. Alla loro età, insieme alla stanchezza, l’acciaieria ti mette addosso un’energia assurda. O stramazzi, oppure corri come un pazzo sulla fascia”.

A Cremona, la sera, Andrea Cisi mi porta alla Libreria del Convegno, in corso Campi 72. Qui il proprietario Mario Feraboli – insieme a Cisi, Claudio Ardigò e alla brava traduttrice Elena Cappellini – organizza una rassegna di incontri con scrittori, saggisti, musicisti. Quando arrivo io sono passati da pochi giorni Simone Lenzi, Fabio Genovesi e Sandra Petrignani. A pochi passi dalla libreria, Feraboli gestisce anche l’Osteria del Fico, che oltre a luogo di ristoro è posto di concerti. Dai Non voglio che Clara a Julytha Ryan che qualche anno fa girò l’Inghilterra come supporto di Nick Cave.

Dopo un numero imprecisato di bicchieri di rosso (durante i quali lo stato vagamente alterato, misto alla bella compagnia, mi porta a fare a Cisi e Cappellini qualche confessione sulla mia vita privata, e a un certo punto – non pago – anche sulla vita privata altrui), mi mettono a dormire in una dépendance del Fico, proprio sopra l’osteria. È un sabato sera. Dal piano di sotto arriva un frastuono celestiale. È bellissimo, perché in ogni momento, senza neanche dover girare la chiave nella toppa (la porta è sempre aperta) potrei scendere in pigiama, magari alle tre del mattino, unirmi di nuovo al gruppo del Fico, riprendere a bere, confessare ogni cosa fino all’ultimo segreto, andare oltre, trovarmi a levitare nella zona magica in cui – vuotato il sacco del privato – puoi cominciare a dire qualcosa perfino di più vero, di assoluto, come in un viaggio psichedelico le parole “ragazzi… è fantastico… non vedete anche voi quella cascata azzurra?” pronunciate da uno diventano all’istante l’estasi di tutti. Tu parlavi una lingua meravigliosa. Invece dormo della grossa.

I giorni successivi sono tutti di corsa. A Cuneo passo per Scittorincittà. So che a Ivrea c’è La Galleria del Libro di Giammario Pilo, a San Daniele del Friuli la libreria W. Meister che seguo sempre su Facebook. Mi sembra un luogo interessantissimo (la qualità dei post testimonia non di rado quella dei posti), ma purtroppo non faccio in tempo ad andarci. A Torino visito la libreria Il Ponte sulla Dora di Rocco Pinto. Dentro, tra gli altri, ci ritrovo vecchi amici. Il direttore della mostra del cinema di Venezia Alberto Barbera con la sua assistente Angela Savoldi. La traduttrice Anna Nadotti (sue le ultime Virginia Woolf pubblicate da Einaudi) e Jaime Riera Rehren, che oltre a essere una delle persone con cui chiacchiero più piacevolmente di letteratura ha tradotto in italiano un romanzo capitale come Sopra eroi e tombe dell’argentino Ernesto Sabato. Mi piacerebbe passare anche dalla Libreria Therese, ma non faccio in tempo. L’ho detto, sono giorni concitati. Il cambiamento continuo e la terra mai stabile sotto i piedi.

Il salone del libro di Torino, il 12 maggio 2011. (Valerio Pennicino, Getty Images)

Torino è stata una delle poche città italiane che negli ultimi quindici anni non ha fatto dei tremendi passi indietro. Anzi. Ha dimostrato di potersela giocare come distretto culturale dopo la fine della Fiat. Da una parte l’editoria (Einaudi, Bollati Boringhieri), dall’altra il Circolo dei lettori, e poi la Holden, la scena dei Murazzi, Casa Sonica, il Salone del libro, il museo del cinema e il Torino film festival, per non parlare di certe iniziative civiche che, tra le grandi città, sono possibili solo qui, come il progetto delle case del quartiere… Poi però mi sembra ci sia stato un contraccolpo (le casse del comune vuote, i Murazzi finiti, una sensazione di fiato corto, necessità di ripensarsi in fretta, o almeno di riorganizzarsi per fare in modo che i risultati così meritatamente raccolti generino frutti per gli anni a venire), e questo porta la città a meditare su se stessa.

A ogni modo, la Torino degli anni zero resta un esempio. Si pensi al rapporto tra offerta di opportunità e costo degli affitti. In questo incrocio, un infallibile termometro di civiltà che dovrebbe portare altre città italiane ad arrostire di vergogna.

Il privato è pubblico

Uno dei drammi d’Italia è che il modello Olivetti non ha vinto. Ha vinto il modello Fiat (talmente vincente da potersi permettere a un certo punto la contumacia) o in alternativa il modello Ricucci. Per non parlare del modello Catenacci (il palazzinaro burino di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, interpretato da un Aldo Fabrizi in forma assoluta).

Questo modo di intendere il privato ha portato a delle conseguenze anche nella gestione delle politiche culturali (discorso su libri, editoria e letteratura compreso). Da una parte – tenuto conto di cos’è “la borghesia più ignorante d’Europa”, come faceva dire il Pasolini di La ricotta a un gongolante Orson Welles – c’è chi ritiene che il pubblico debba essere il principale investitore in faccende che riguardino la cultura.

A sostenere l’opinione sono di solito uomini di sinistra, convinti che gli imprenditori italiani siano in media troppo rozzi per occuparsi della materia senza causare danni irreparabili. In certi casi hanno ragione. Il problema si pone quando questi uomini di sinistra sono anche molto potenti e danarosi, e soprattutto desiderosi di elaborare teorie che giustifichino la loro scarsa inclinazione a rischiare in prima persona, cioè a mettere mano al portafogli.

Dall’altra abbiamo in effetti una legione di imprenditori sconfortante. Avete presente Giangiacomo Feltrinelli, il figlio tormentato di una delle più ricche famiglie d’Europa che fece della sua fortuna una risorsa del paese? Dimenticatelo. Noi oggi più che altro ci ritroviamo a (non) fare i conti con maneggioni che hanno un piede nel cemento e l’altro nelle assicurazioni, convinti che, per lasciare un segno, rovinarsi con una squadra di calcio sia più utile che (con un centesimo della spesa) fondare una casa editrice, finanziare un teatro, promuovere artisti, produrre bei film… Questi uomini di capitale, segretamente, aspirano all’oblio. Anziché odiarsi per i motivi sbagliati (che è sempre un buon punto di partenza) si limitano a farlo per quelli giusti. All’orizzonte non mancano solo gli Olivetti o i Feltrinelli, ma anche le aspiranti Peggy Guggenheim.

Eppure qualcosa si muove. Nulla a che vedere con le grandezze di cui sopra. Ci sono piccoli imprenditori sensibili all’arte o alla musica, liberi professionisti per i quali una comunità senza libri si riduce a una nuda espressione geografica, una classe media non ancora proletarizzata che prova a mettersi in gioco. Tanto più, gliene va reso merito. Mi limiterò a due piccoli esempi in cui mi sono imbattuto nel corso del mio viaggio.

Uno è lo studio Mijic, a Rimini.

Eduard Mijic è un tedesco di ascendenze balcaniche che si è trasferito in Italia alla fine degli anni novanta. A Rimini ha uno studio bellissimo in via corso d’Augusto (ne ha anche uno a Francoforte e uno a Belgrado). Insieme a sua moglie, Orietta Villa, Eduard apre ogni tanto le porte del suo studio alla città. L’occasione può essere la presentazione di un libro, una mostra, uno spettacolo teatrale, una performance, esibizioni di musica dal vivo. La sera in cui ci vado io, sembra che mezza Rimini si sia riversata nello studio. È pieno di gente. A un certo punto vedo anche Enrico Casagrande e Daniela Francesconi, vale a dire i Motus, uno dei migliori gruppi di ricerca teatrale che questo paese ha prodotto negli ultimi venticinque anni.

Vedere qualcuno (Eduard e Orietta) mettere le proprie risorse a disposizione degli altri, senza nessun vantaggio pratico che non sia condividere qualcosa di bello, è talmente raro in Italia che mi emoziono. Eduard e Orietta sono poi molto simpatici, delicati, non se la tirano per niente (quanti professionisti della cultura conosciamo con il solo scopo nella vita di fare gli splendidi a spese altrui?). Qui allo studio Mijic, per ciò che ho visto io, si ritiene che il bene comune non sia un concetto destinato a finire oltre la soglia di casa. E dunque, porte aperte. Prendere esempio.

“Sì, qui ci è passato anche Stendhal”.

Il secondo caso esemplare è quello di un albergatore. Siamo a Lugo, sempre in Romagna (non credo si tratti di un caso). Lui si chiama Claudio Nostri, dirige l’Ala d’Oro. Si tratta di un hotel letterario. Una stanza dedicata a Stendhal, una a Tonino Guerra, una a Leopardi, una a Dante, l’altra a lord Byron… Tutti scrittori che, per un motivo o per l’altro – inseguire la fortuna, fuggire la disgrazia – si sono trovati a passare nei secoli da queste parti.

“Era tale la fama di Lord Byron”, racconta Claudio sorridendo, “che un notabile di Lugo si vantava che sua moglie fosse stata l’amante del più grande poeta romantico inglese”.

In dieci anni, in collaborazione con la storica libreria Alfabeta, Claudio ha organizzato nel suo hotel più di seicento incontri letterari.

Oltre ai numi cui sono intitolate le stanze, all’ultimo piano c’è una parete tappezzata con le foto (di ottima fattura, Claudio è anche un appassionato fotografo) di molti tra gli scrittori, saggisti, filosofi, intellettuali, giornalisti che sono venuti qui a parlare del loro lavoro. Ma tutto l’hotel è una sorpresa. Vicino all’ascensore c’è una parete con un frammento di Beckett (incipit di Molloy). Percorri il corridoio del primo piano e trovi su un’altra parete un brano poco conosciuto di Leopardi (Pensieri, XX) da cui si ricava la sua inossidabile contemporaneità.

Con acrimonia lucente, Leopardi ipotizzava la nascita di una “scuola d’ascoltazione” il cui motto era: “Prima pagare, poi versificare”. “Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri” la scuola sarebbe stata fornita di essenze e medicine. A cosa vi fa pensare? Eccone un estratto.

Se avessi l’ingegno del Cervantes, io farei un libro per purgare, come egli la Spagna dall’imitazione de’ cavalieri erranti, così io l’Italia, anzi il mondo incivilito, da un vizio che, avendo rispetto alla mansuetudine dei costumi presenti, e forse anche in ogni altro modo, non è meno crudele né meno barbaro di qualunque avanzo della ferocia de’ tempi medii castigato dal Cervantes. Parlo del vizio di leggere o di recitare ad altri i componimenti propri: il quale, essendo antichissimo, pure nei secoli addietro fu una miseria tollerabile, perché rara; ma oggi, che il comporre è di tutti, e che la cosa più difficile è trovare uno che non sia autore, è divenuto un flagello, una calamità pubblica, e una nuova tribolazione della vita umana. (…)

Onde alcuni miei conoscenti, uomini industriosi, considerato questo punto, e persuasi che il recitare i componimenti propri sia uno de’ bisogni della natura umana, hanno pensato di provvedere a questo, e ad un tempo di volgerlo, come si volgono tutti i bisogni pubblici, ad utilità particolare.

Al quale effetto in breve apriranno una scuola o accademia ovvero ateneo di ascoltazione; dove, a qualunque ora del giorno e della notte, essi, o persone stipendiate da loro, ascolteranno chi vorrà leggere a prezzi determinati: che saranno per la prosa, la prima ora, uno scudo, la seconda due, la terza quattro, la quarta otto, e così crescendo con progressione aritmetica. Per la poesia il doppio. Per ogni passo letto, volendo tornare a leggerlo, come accade, una lira il verso.
Addormentandosi l’ascoltante, sarà rimessa al lettore la terza parte del prezzo debito. Per convulsioni, sincopi, ed altri accidenti leggeri o gravi, che avvenissero all’una parte o all’altra nel tempo delle letture, la scuola sarà fornita di essenze e di medicine, che si dispenseranno gratis. Così rendendosi materia di lucro una cosa finora infruttifera, che sono gli orecchi, sarà aperta una nuova strada all’industria, con aumento della ricchezza generale.

Viaggio, non vagabondaggio

Purtroppo questa è la cronaca di un viaggio, non di un vagabondaggio. I vagabondaggi li facevo da ragazzo. Allora avevo il fisico, adesso lo spirito non è ancora così saldo. I’ve got the spirit, lose the feeling: spero non finisca con i versi della canzone.

Perdersi tra Umbria e Toscana (estate del 1996, un mese e mezzo di passeggiate in totale solitudine. Cambiare posto di continuo. Niente telefonini, nessun contatto con le persone care che avevo abbandonato senza preavviso da un giorno all’altro. La mia ragazza di allora: più ferita che arrabbiata. Io a piedi per il monte Subasio. Puntare la diga di Ridracoli come fosse il santo sepolcro. Fingevo l’assenza totale di una meta. Corteggiavo la mia città magica. Stringerle intorno i passi come fosse un assedio, e non entrarci mai. Doveva sentire che c’ero, che mi avvicinavo, poi riprendevo le distanze, quindi tornavo a corteggiarla, a tormentarla con il pensiero e il riavvicinamento fisico. Marradi. Avevo scoperto da poco Dino Campana, ecco cosa. Una notte, in una specie di casupola sprofondata nella campagna eugubina, sentii i morsi allo stomaco. Erano due giorni che non toccavo cibo, non me n’ero quasi accorto. Intorno il silenzio assoluto. Sentivo una vertigine. Qualcosa di cristallino, di spaventoso. Nel frigorifero c’era solo un panetto di burro. Lo divorai).

Altri tre mesi a fare su e giù per l’Italia nel 1990 (con un gruppo di amici piuttosto nutrito coprimmo il Salento palmo a palmo, fino ai paesi della Grecìa. In autobus. Con l’autostop. Ma soprattutto usando i mezzi di trasporto di una sigla la cui semplice pronuncia dovrebbe far sbocciare fichi d’india e bottiglioni di rosolio nel cuore degli aficionados: Ferrovie del Sud-Est. Poi dal Salento in Calabria, perdendo qualche unità. Infine, dopo altre settimane vagabonde, con due soli amici superstiti ci ritrovammo in modo più che rocambolesco a Venezia. Sporchi, spaventosamente malandati eppure in forma come si può essere a diciassette anni, venimmo adottati per una sera da un libraio di non ricordo più che zona. “Conoscete Philip Dick?”. “Conoscete Antonin Artaud?”. “Conoscete Sylvia Plath?”. A ogni nostra ammissione d’ignoranza, rispondeva sfilando un volume dagli scaffali. “I fiori blu, sapete di che si tratta?”. Arrivato l’orario di chiusura, mise la saracinesca a mezz’asta. Stappò una bottiglia di vino, ci offrì da bere. Continuò senza stancarsi, fino all’una del mattino. “Conoscete Curzio Malaparte?”. “Conoscete Emily Brontë?”. “Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino?”. Sono quasi venticinque anni che cerco di capire chi fosse quel signore. Temo che nel frattempo la libreria abbia chiuso. Ho chiesto a tutti i veneziani che conosco. Non ne siamo venuti a capo).

Quei vagabondaggi – spesso ti capitava che la sera non sapessi in quale luogo (o addirittura città) avresti dormito la notte successiva – ti esponevano a emozioni violente. Specie se eri solo. Non c’erano architravi interiori abbastanza solide per sostenerle, ma la scorza dei vent’anni (un congegno analogo a quello che ti fa recuperare la sbronza tremenda delle 3.00 del mattino già alle luci dell’alba) suppliva alla mancanza.

Il mio viaggio degli ultimi mesi ha al contrario destinazioni precise. Per quanto le mete si definiscano da un giorno all’altro, non accade mai con un anticipo inferiore al paio di settimane. Ho con me il telefonino. Sono quasi sempre raggiungibile. Il computer è il mio ufficio mobile: nelle lunghe traversate in treno rispondo a email, scrivo articoli per i giornali, leggo libri e manoscritti, prendo e tronco appuntamenti. La sera la trascorro a parlare di libri in pubblico – nelle librerie, nelle sedi di associazioni culturali, nelle aule scolastiche o all’università, ma anche mi capita di farlo in chiese sconsacrate, vecchi chiostri, centri sociali, perfino pub, ristoranti. La notte (negli hotel, nei bed and breakfast, in altri tipi di ricoveri messi a mia disposizione) la trascorro ancora a leggere e a scrivere, a sentirmi solo o elettrizzato se la serata è stata bella.

Da una parte è tutto definito (so che domani sarò alla Scuola galileiana di Padova, so che il mio treno arriverà in stazione alle 15.30, e se non si farà in tempo a farmi ripartire in serata per un’altra destinazione allora dormirò in un tre stelle dalle parti di via San Massimo). Allo stesso tempo, ogni cosa è ignota (che tipi saranno quelli che hanno organizzato l’incontro? Ci saranno persone simpatiche tra il pubblico? Il posto in cui dormirò sarà confortevole o tremendo?), e il costo emotivo necessario a fronteggiare il tutto (incontrare ogni giorno qualcuno che non si è mai visto prima, lacerare la barriera, cercare di entrare un poco in confidenza con lui o lei o loro) è la vera posta in palio, la garanzia di un guadagno o una sconfitta a seconda di quello che succede.

Dunque è un viaggio avventuroso o solo molto faticoso?

Vicino Lucca mi mettono a dormire in un finto bed&breakfast sotterraneo (lo dico meglio: è una spelonca) senza neanche un piccolo termosifone. È gennaio. La notte la trascorro in posizione fetale, infilato in due maglioni, senza togliermi cappotto e calzini, tirandomi ogni cinque minuti sulla testa l’orribile coperta di lana vetrificata con la quale chi mi ha invitato pretende che sconfigga l’inevitabile mal di testa. A un certo punto sento con chiarezza il canto dei marinai morti del Pequod. Al mattino sono stravolto.

In Sicilia, sulle colline vicino Messina, viene invece messa a mia disposizione una villa principesca. Posizione panoramica sullo stretto. Piscina. Palme meravigliose. Interni di gusto. Perfino letto a baldacchino. Di prima mattina passeggio compiaciuto nel giardino, passo in rassegna le rose dei miei possedimenti in prestito reggendo una tazza di caffellatte. Mi sento Francis Scott Fitzgerald. Poi, come potrebbe in effetti accadere in Tenera è la notte, una strana apparizione. Un pettirosso morto a bordo vasca. Le prime formiche arrivano a divorarlo. Dovrei raccoglierlo, seppellirlo. Vorrei farlo ma non lo faccio. Ho paura di rendermi ridicolo agli occhi del giardiniere che lavora poco distante.

Con i dovuti distinguo, ricordo bene la Ballata del vecchio marinaio di Coleridge.
Peggio: nel successivo quarto d’ora quel pettirosso diventa il mio personale Polinice e io la sua Antigone. Alla fine non lo seppellisco. E infatti le settimane dopo mi capitano strani contrattempi. Un inspiegabile cattivo umore. Mi sento addosso “l’umido e piovoso novembre” che tormenta Ismaele sulla terraferma. Dovrò aspettare la fine della stagione fredda perché la sensazione passi.
Certi giorni controllo i biglietti elettronici che mi hanno spedito, e scopro che viaggerò in prima classe. È molto raro che accada ma capita anche questo. In altri casi, la tratta non prevede Frecce Rosse o Bianche. Significa che mi tocca il treno regionale (arriverò a destinazione dopo diversi cambi). Sui regionali non è detto che si trovino le prese per caricare computer e telefonino. Questo mi esaspera. Però ci sono le facce, sulla cui scomparsa Pasolini aveva torto. Antichissime facce di quarantenni e cinquantenni, perfino di trentenni. Un’Italia che pochi raccontano. Gente rimasta indietro per motivi economici. Parlano dialetto quasi sempre. Hanno addosso vestiti che non sarebbero andati di moda trentacinque anni fa. I colori, di questi vestiti. Sembrano usciti dai film a basso budget di fine anni settanta, o da qualche varietà televisivo ormai dimenticato. Le smorfie della bocca. Il modo di gesticolare, di frugare nella borsa da viaggio cavandone fuori un panino gigantesco. Addirittura fiaschi di vino. Molti extracomunitari. Ma molti più italiani di quanto si immagini.

Perché, in definitiva, mi sono messo in viaggio?

Tre fili intrecciati. Il primo riguarda l’andarsene in giro a parlare dei propri libri nell’epoca del tramonto dei grandi mediatori. Il secondo ha a che fare con l’ansia di salvare il salvabile, per il poco che ci compete come singoli. Vado a parlare di Joseph Conrad in un liceo di Foggia? Bene. In treno, nel frattempo, leggo manoscritti su manoscritti, confido nella possibilità (succede una volta su trecento o quattrocento, ma succede) che salti fuori qualcosa di bello, magari di bellissimo, oltre che di pubblicabile. Guardo film sperando di scovare sprazzi di genio in un regista semisconosciuto, che si dovrà aiutare a emergere. Non puoi evitare l’inondazione cercando di tappare, sul corpo di una diga gigantesca, le falle con un dito. Calano i lettori. Film meravigliosi non arrivano in sala, o godono (si fa per dire) di una distribuzione ridicola. La scuola è strozzata dalla burocrazia e indebolita dalla mancanza di soldi che umilia docenti di valore ma non giustifica l’inettitudine di altri (a Pescara mi imbatto in un professore di lettere che non legge libri di narrativa da trent’anni, ci provò l’ultima volta con Luciano De Crescenzo, ne ha concluso che la letteratura non ha più niente da dire, non ha idea di chi siano Orhan Pamuk, Philip Roth, Alice Munro, Thomas Bernhard, Walter Siti, in compenso vuole leggermi le sue poesie). E tuttavia dedicarsi al compito che ci si è dato nella vita senza sprecare un istante, non risparmiarsi, stremarsi, sfidare la stanchezza, non cedere al pessimismo per più di un giorno al mese… C’è qualcosa, mi dico, nella dedizione (o è solo ostinazione? O addirittura furia, disperazione?) spinta ai limiti del ragionevole, che – a patto di essere anche fortunati – trascende le normali grandezze di dito e diga. Ho la pretesa di essere tra quei toccati dalla sorte, anche se non lo sono. Dunque in qualche modo lo sono. Mi manca la statura morale necessaria a contentarmi di fare il mio dovere (fai quel che devi, succeda quel che può). Ho purtroppo anche bisogno di darmi un segno, a costo di travestirmi da Madonna e vedermi piangere fingendo di essere un altro. Ma anche questo non è del tutto vero.

Quindi c’è un terzo filo, il più ingarbugliato. Di quello parlerò dopo.

Elegia dell’Italia centrale

A Macerata mi portano alla Civica Enoteca Maceratese, un centro culturale nato un paio di anni fa sotto la spinta del comune e della camera di commercio. Si tratta di un luogo pubblico dove si fanno degustazioni di vini e si parla di libri nel corso di incontri sempre affollatissimi. Non è difficile trovarci stranieri di passaggio. Dimenticate le vecchie enoteche, questa sembra disegnata da Frank Gehry, con tanto di giovani sommelier che ti spiegano quale vino hanno deciso di abbinare alla serata in cui si parlerà di Simenon. Peccato che le belle bottiglie esposte non siano in vendita a causa di uno dei soliti cortocircuiti burocratici all’italiana. Nel caso specifico, le istituzioni locali possono sì far nascere un luogo in grado di diventare un crocevia della vita culturale cittadina, ma non dotarlo di ciò che (la licenza di vendere) gli consentirebbe di sopravvivere. E infatti adesso l’Enoteca rischia di chiudere per mancanza di fondi.

Gli incontri letterari qui li organizzano Mauro Gentili e Giorgio Pietrani, che in primavera inoltrata allestiscono anche una festa del libro. Macerata è molto attiva per ciò che riguarda iniziative simili. Tutta un fiorire di circoli. La sera che ci vengo io, poco distante dall’incontro in enoteca, un primo circolo di lettori (soprattutto lettrici) si riunisce per discutere dei libri di Winfried G. Sebald, mentre un secondo gruppo (qui sono di più i lettori maschi) dedica tempo alla narrativa italiana contemporanea. In città c’è una bella casa editrice come Quodlibet, non mancano le librerie (solo in corso della Repubblica ce ne sono tre, e andandomene a piedi verso la stazione il giorno dopo ne conterò altre quattro), qualche merito sarà da ascrivere all’università, ma per un posto di quarantamila abitanti il movimento è tanto.

A Ravenna visito il bel Caffè Letterario di Cristiana Liuti, ormai celebre in zona, dove Matteo Cavezzali e Stefano Bon invitano gli autori a parlare delle loro opere in collaborazione con la Libreria Dante delle sorelle Longo. A Pistoia c’è Nicola Ruganti, che organizza ogni anno l’ottimo festival Arca Puccini, dove si discute di musica e di libri, e si suona pure. Quest’anno ci sarà anche Leggere la città, organizzato dal comune (a Pistoia c’è tra l’altro una delle trattorie più oneste dell’intero paese, l’unica – di mia conoscenza – che ha interpretato il passaggio dalla lira all’euro nel segno della matematica, non della truffa. Spaghetti con le vongole: 3,70 euro. Volete il nome? Trattoria San Vitale). A Bologna, tra le tante cose che accadono, organizza incontri con gli scrittori anche il Centro Psicanalitico (librerie.coop Zanichelli), dove perfino i libri con una forte vocazione civile sono letti per indagare le profondità dell’io, ma in un modo assai più cordiale e divertito di quello che spaventò Bernardo Bertolucci quando commise l’errore di presentare Novecento davanti alla Società psicanalitica italiana.

A San Casciano in Val di Pesa visito con Alessandro Raveggi la Casa del popolo (ancora perfettamente attiva, frequentatissima, con tanto di pizzeria, cineforum, zona concerti, diverse sale per discutere di libri e naturalmente di politica). A Colle Val d’Elsa c’è una biblioteca comunale molto attiva e ben frequentata (per non tacer del gatto portafortuna, che la notte veglia sulle colonne dei libri). Ci sono Ivo Grande e Stefano Jacoviello che organizzano eventi culturali anche alla Libreria dell’Einaudito di Siena, del vulcanico (a dir poco) Roberto Greco.

Addentrandosi per Siena tutti parlano di apocalisse imminente o già in atto a causa del dissesto della Monte Paschi, che qui foraggiava anche parte della vita culturale. Difficoltà: sicuramente. Declino: possibile, e nel caso ci si augura sia solo temporaneo. Ma tutto nella vita è relativo, e se mettete a confronto ciò che succede a Siena con i problemi della scena culturale della Locride avrete una conferma delle distanze da colmare.

Ad Arezzo va tenuto sott’occhio l’emergente Spazio Seme e gli incontri organizzati da Marco Caneschi. A Montepulciano sono anni che al Caffè Poliziano(un’istituzione culturale di per sé, fu fondato nel 1868) Francesca Fenati organizza incontri con scrittori provenienti da tutta Italia. A Morciano di Romagna faccio la conoscenza di Emiliano Visconti, il quale gira in camper nove mesi all’anno per portare gli scrittori nelle scuole della zona…

L’Italia centrale (Toscana ed Emilia-Romagna, ma anche qualche pezzo di Marche, di Umbria) è la vera eccezione culturale nella presunta eccezione culturale (l’intero paese). La gente ci sa fare da almeno cinquant’anni a questa parte. Basti pensare alla musica o alla scena teatrale. Se l’intreccio virtuoso tra pubblico e iniziativa privata funzionasse altrove come qui, l’Italia sarebbe salva. A quanto pare il modello è di difficile esportazione a sud di Orvieto o a nord di Reggio Emilia. D’accordo, la Bologna espugnata da Guazzaloca non ha molto di quella di Guccini e Roversi e Dalla e Andrea Pazienza (o anche solo di quella del Link), per non parlare di quanto la Firenze di Renzi sia lontana da quella officiata da La Pira e sabotata felicemente da Marco Messeri e Roberto Benigni quarant’anni fa. E però qui l’idea della cultura come sale della comunità funziona, è ben praticata, rende.

La fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi a Roma, il 7 dicembre 2011. (Giorgio Cosulich, Getty Images)

Se proprio dovessi trovare il pelo nell’uovo, è la sensazione di poca disponibilità al rischio. La gente qui non vive male, non è ancora ridotta in miseria, si prende cura del bene comune con una civiltà sconosciuta ai più. La classe dirigente è di sinistra, ma innanzitutto borghese e opulenta (la sinistra dei consumi culturali, delle abitudini sociali e gastronomiche, di una tonda solidarietà, prima che delle lotte politiche troppo radicali), quindi più incline a godersi le bellezze di casa propria (e i privilegi meritatamente conquistati) che a imbarcarsi in battaglie che non si sa dove potrebbero portare. A volte un senso di sazietà, di saggia sonnolenza. Perché andare alla guerra se si è già i migliori?

Qualche eccezione tra le ultime generazioni. In Toscana incontro a più riprese rappresentanze di 404:filenotfound. Si tratta di una delle migliori riviste di letteratura online esistenti in Italia, e prima ancora di un gruppo di (ex) studenti formatosi all’università di Siena nel 2008 all’interno del movimento dell’Onda. I redattori di 404, tutti under 30, sono Antonio Coiro, Silvia Costantino, Claudia Crocco, Giacomo Gabbuti, Chiara Impellizzeri, Francesca Lorenzoni, Umberto Mazzei, Lorenzo Mecozzi, Marco Mongelli, Camilla Panichi, Luca San Mauro, Valerio Valentini. Spero di non aver dimenticato nessuno. Mi preme ricordarli perché sono la conferma che nessuna generazione (in questo caso la mia) può sentirsi l’ultima o la migliore senza cadere nel ridicolo. Finiti gli studi universitari, i membri di 404 si sono fisicamente sparpagliati (”è iniziata anche per voi l’età della diaspora”, scherzo), alcuni sono all’estero (due li incontrerò a Parigi), ma questo non gli impedisce di continuare a fare la rivista, di restare in contatto tra di loro, di darsi ogni tanto appuntamento nello stesso luogo fisico (quelli che possono) per occasioni speciali.

La loro passione per la letteratura è autentica e mi pare incorrotta, le loro analisi scrupolose ai limiti dell’ossessività, le loro preoccupazioni duellano ogni giorno con il loro talento. Se qualcuno gli affidasse un’istituzione culturale (o un finanziamento), li farebbero fruttare molto più di quanto riuscirebbe a un burocrate pagato venti volte la borsa di ricerca che questi ragazzi – l’eccellenza della nostra formazione universitaria – faticano a procacciarsi.

La quieta saggezza della borghesia progressista toscana o emiliana non gli appartiene. Credo di intuirne il motivo. Perché anni fa questi ragazzi arrivarono a Siena da ogni angolo d’Italia, perché si sono prima laureati con la brillantezza di un Vattimo o un Eco di cinquant’anni prima (o un Siti di trent’anni prima) e poi hanno dovuto capire quanto ingrato e ingeneroso fosse intanto diventato il paese di cui hanno la cittadinanza. Che la loro fame trovi grassi polpacci da addentare.

Due ferite

Due città mancano all’appello. Due enormi ferite aperte. E al tempo stesso i simboli di altre offese che dovremmo sentire come nostre. Impossibile essere italiani senza soffrire per Taranto e per L’Aquila, impossibile non tradire il proprio senso di appartenenza senza capire che l’Ilva e la gestione del terremoto sono solo gli epicentri di uno scandalo diffuso, i due luoghi in cui una stupidità e un’ignoranza e un’avidità e una violenza tipicamente italiane si sono incontrate all’apice della propria intensità, le più tragiche manifestazioni di vizi, errori, mancanze che (in misura minore o maggiore, a seconda della zona) affliggono la mentalità dell’intero paese. Nessuno si senta escluso. Di ecodisastro ho per esempio sentito parlare in questi mesi anche dai cittadini di Ravenna (chimica), Cremona (acciaierie), Crotone (attività estrattiva).

Ogni volta (specie di sera) che da ragazzo arrivavo a Taranto dopo aver percorso la statale 100, mi sembrava di entrare in un film di fantascienza e al tempo stesso di far parte di uno scherzo molto strano. “Benvenuti a Taranto, città della Magna Grecia” recita un cartello istoriato con l’immagine di due colonne doriche. Poi alzi gli occhi al cielo e al posto dell’acropoli ci sono i fuochi eterni dell’Ilva. Il più grande complesso siderurgico dell’Europa occidentale. Sembra che la scena l’abbia girata il Ridley Scott di Blade Runner. L’epilogo non di rado è nei reparti oncologia.

Questa volta a Taranto ci arrivo in punta di piedi, quasi con devozione, comunque pieno di rispetto verso chi (lavorando con passione in un territorio più difficile di quello in cui vive la maggior parte di noi) è in qualche modo, e perfino suo malgrado, più meritevole. Non sono poche in città le persone che negli ultimi anni hanno marciato coraggiosamente in direzione contraria al vento del disastro. Io ne conosco almeno due. Sono Tonino De Giorgi e Giulia Galli della Libreria Dickens, in via delle Medaglie d’oro 129. Da qui ci passava Giancarlo De Cataldo a comprare i libri. Alessandro Leogrande è cresciuto a poche strade di distanza. La libreria è molto radicata nel territorio. Talmente tanto che gli abitanti del quartiere digiuni di letteratura sono convinti che l’intestazione si riferisca al cognome dei titolari. “La famiglia Dickens”, li chiama qualcuno senza ironia.

Non è facile conoscere molti librai che facciano del proprio mestiere una missione senza perdere in competenza (non sempre gli “astratti furori” portano a risultati concreti), ed è ancora più raro conoscere due persone più gentili e affettuose dei “coniugi Dickens”. Fare il libraio a Taranto è davvero un’impresa, se tra gli scaffali vuoi continuare ad avere libri di Hannah Arendt e Albert Camus. Siamo nel capoluogo di provincia con gli indici di lettura tra i più bassi d’Italia, una città con pochissimi giovani (quasi tutti vanno a studiare o a lavorare fuori), e se consideriamo (come Tonino e Giulia fanno senza nemmeno doverci stare a pensare) che le librerie sono anche il centro di piccole comunità, o ufficiose sacche di welfare, bisogna aggiungere che in quasi ogni famiglia, a Taranto, c’è chi è finito all’ospedale o al cimitero a causa dell’Ilva. In questa prospettiva davvero il libraio diventa una figura che trascende i suoi limiti professionali. L’ho visto succedere alla Dickens, e spero mi sia d’esempio finché campo.

A L’Aquila ci passo due volte, avrei voluto farlo di più. Di recente con Rosa Polacco, rispondendo all’invito del Gran Sasso science institute che in questi mesi sta organizzando un ciclo di incontri con gli scrittori. Dandomi più tempo, ci ero stato qualche tempo prima grazie all’Associazione culturale Bibliobus, la quale ha dato vita a una biblioteca itinerante – insieme al Punto Einaudi gestito da Nicoletta Rugghia e Beatrice Pannozzo si dà molto da fare per riportare i libri tra la gente dopo il terremoto.

Muoversi nel centro dell’Aquila è un’esperienza che non si può dimenticare. Tutti dovrebbero farla. Angoscia mista a incredulità. Da lì dovrebbe nascere la rabbia, da questa un po’ di azione. Silenzio per le strade, tra le macerie, perfino a ridosso dei palazzi circondati dalle impalcature (su ogni ponteggio, ossessivamente, la dicitura marcegaglia marcegaglia marcagaglia… “Sì, quei Marcegaglia lì”, mi rispondono quando indico col dito senza avere fatto ancora la domanda).

Ad anni di distanza, alcuni angoli dell’Aquila sono come il terremoto li ha lasciati. Dal tetto sfondato di una utilitaria spunta una pianta gigantesca, cresciuta a dismisura nell’abitacolo. Dalle finestre spaccate guardo l’interno di una casa a piano terra: un letto in verticale tra altri mobili accatastati, e ricoperti di polvere bianchissima. Di sera qualche locale è aperto (pub, ristoranti), e la sensazione è ancora più straniante. Sembra che vada in scena la vita ricreativa di un posto che non esiste più. Roba da racconto di Stephen King. Non visito la cosiddetta new town. Ma basta parlare qualche ora con la gente per capire ancora meglio come qui le ferite non siano solo materiali. È stata violentata una comunità, non solo dal terremoto. Il consumo di alcolici e psicofarmaci è un buon termometro della situazione.

Quanto si è scritto e detto su L’Aquila? Per me restano indimenticabili due analisi, entrambe pubblicate su spazi non istituzionali. Qualcosa vorrà dire. La prima l’ha scritta Gianluigi Simonetti (insegna all’università dell’Aquila), e la trovate qui. La seconda è a firma Valerio Valentini (viveva a l’Aquila con i suoi fino alla notte del terremoto) ed è stata pubblicata proprio su 404:filenotfound. Si intitola Sul significato della rassicurazione, la potete leggere qui.

Analisi così complesse e coinvolgenti (senza mai essere ricattatorie, ipocrite o strumentali) avrebbero potuto avere spazio sui grandi organi di stampa, o addirittura in tv? Quando dico che negli ultimi anni si aprono sempre più spesso voragini tra le eccellenze del paese reale e la colpevole arretratezza del palazzo (anche culturale), intendo anche questo.

Altre galassie, voci improvvise

A Napoli un tempo ci facevano Galassia Gutenberg. Poi la manifestazione è naufragata ed è toccato a Valeria Parrella, Pierluigi Razzano, Rossella Milone, Massimiliano Virgilio e Piero Sorrentino inventarsi Un’altra galassia, cioè sottrarre molto tempo ai rispettivi impegni e attività lavorative per dare (senza ricevere un soldo in cambio) alla terza città più grande d’Italia un festival letterario degno di questo nome. Io oggi a Napoli ci vengo però per incontrare Marinella Pomarici, che ha fatto nascere insieme a un gruppo di insegnanti l’associazione culturale A voce alta. Moltissime le attività organizzate nel corso dell’anno: gruppi e laboratori di lettura, progetti contro la dispersione scolastica, incontri letterari, mostre fotografiche. E anche qui (”lo sai quanto ci danno per fare tutte queste cose?”, mi chiede sorridendo Marinella). Stasera A voce alta organizza un reading di Luigi Lo Cascio a palazzo Arti. Conosco Lo Cascio di vista, ma non lo avevo mai sentito leggere brani letterari. Stasera si cimenta con la grande poesia italiana tra otto e novecento. Leopardi, Campana, Sbarbaro, Saba, Penna, Ungaretti, un fuoripista pirandelliano, e Cardarelli, a cui perfino gli studiosi specializzati tornano poco. Tema: “Naufragi”.

Non vorrei fare un torto a Lo Cascio proprio incensandolo, ma devo dire che la sua lettura è strepitosa. Il possibile torto nasce dal fatto che lo avevo apprezzato in molte sue prove cinematografiche, ma la magia di questo corpo a corpo oltre che ammirato mi lascia grato, addirittura felice per le ore successive. Non è detto che gli attori, anche quelli bravi, siano in grado di affrontare un testo letterario. Molti anzi crollano sui versi e sulla prosa di un certo tipo, anche se magari sono bravissimi quando c’è da interpretare un carabiniere o un prete per il cinema italiano standard. Il problema è che spesso non capiscono ciò che leggono. O meglio, non colgono le sfumature, le vibrazioni tra riga e riga, tra virgola e parola successiva, che per la grande letteratura è quasi tutto. Lo Cascio ha evidentemente soggiornato (e pernottato) molto a lungo con questi autori. Si vede che Cardarelli e Campana non solo li conosce, ma sono stati importanti per la sua vita. A un certo punto la sua voce si confonde a meraviglia con quella del folle di Marradi. Mentre poi legge Ungaretti o Saba pare proprio di sentire sottopelle l’elettricità (piccole bombe al fluoro che illuminano angoli di stanze caliginose) di cui era pieno il sangue dei ragazzi (”rapido alla guerra”) venuti su all’inizio del secolo breve. Sono sinceramente emozionato. Tanto che uscendo dal teatro Arti perdo la sciarpa e l’ombrello che mi ero portato dietro. “Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d’agosto”, recito a memoria allungando il passo. E sogno un paese in cui l’incontro tra Luigi Lo Cascio e Vincenzo Cardarelli fa più notizia di qualche posa per Spike Lee.

Altre tappe e un lusso

A Crotone la prima cosa che Federico Cerminara mi mostra uscendo dall’aeroporto è il centro di accoglienza richiedenti asilo (Cara). “È uno dei più grandi, dei più complicati, dei più problematici d’Italia”. Spesso qui scoppiano rivolte tra profughi e altri migranti. Vedere i recinti e il fil di ferro fa sempre impressione. Segue percorso in auto attraverso un paesaggio che sembra uscito da un quadro di Max Ernst. Mura sventrate, ciminiere distrutte, capannoni a cui è crollato il tetto.

È l’archeologia industriale, un cimitero di fabbriche che funzionavano a regime in un’altra epoca. Sulla linea del mare enormi artigli di metallo. “Quelle invece sono le piattaforme di estrazione petrolifera. Se non gli avessero dato la licenza di perforare, il comune qui sarebbe già fallito molte volte. Quale sia il vero impatto ambientale di tutto questo è una domanda aperta”. Avanziamo nel nulla per qualche altro chilometro. Poi di nuovo Federico: “Qui la politica industriale è sempre stata gestita in modo disastroso. La zona di Crotone è una delle più tumorate d’Italia”.

Ho fatto la premessa per far capire quanto sia in controtendenza, e quanto importante, l’attività di un’associazione come MediterrArte, che a Crotone organizza incontri letterari e soffia sulle ceneri della vita culturale della città. A volte appoggiandosi a un ottimo ristorante e wine bar (l’Aleph, il cui proprietario è appassionato di musica e libri), in altri casi collaborando con il Mack, il museo d’arte contemporanea. Qui si trovano, tra le altre, opere di Mimmo Rotella, Mario Merz (il successivo Merz che vedo sarà alla Tate Modern di Londra che, sia pure in scala, non ha lontanamente i problemi dei nostri musei). Il Mack è infatti un posto a cui – a dispetto di ciò che vi è esposto – non di rado mancano i fondi per andare avanti. “Lo vedi quel signore lì?”, mi indicano un uomo sulla cinquantina. “Sono mesi che, senza ricevere un euro di stipendio, tiene in piedi il museo. Pulisce. Mette in ordine. Addirittura a un certo punto ha ritinteggiato i muri”.

A San Casciano chiacchiero per dei minuti con un signore conosciuto durante un incontro letterario in biblioteca comunale. A seconda di dove è collocato il vostro immaginario cinematografico, direste che è vestito con le prime cose trovate nell’armadio o che possiede una mente troppo fervida per pensare a cose stupide come la scelta del proprio abbigliamento.

Scopro infatti poco dopo che lavora all’università di Cambridge, dove si occupa di intelligenza artificiale e di genetica. Ogni tanto incrocia Stephen Hawking in corridoio. Andiamo a cena. “Scienziati e umanisti dovrebbero parlarsi molto di più”, ammonisce sia me che se stesso. “Hai presente il film di Dino Risi, Poveri ma belli? Ecco, rischiamo tra qualche anno che diventi Poveri ma vecchi”. Mi spiega che la prossima grande rivoluzione scientifica è alle porte. “Difficile che possa essere fermata, e a un certo punto non si può neanche dire di preciso chi la sta mandando avanti. Il nostro gruppo di ricerca incrocia ogni giorno i suoi con i dati di altri gruppi di ricerca sparsi in tutto il mondo. Il risultato genera nuova massa critica, e questo in tempo reale. L’evoluzione non procede un passo dopo l’altro, e credo sia vicino il momento in cui ci sarà un’impennata esponenziale”.

E quindi? “Quindi i trapianti d’organi creati in laboratorio, la rigenerazione cellulare, sono cose che probabilmente noi vedremo e certamente vedranno i nostri figli. Solo: potranno anche permettersele? L’età media dell’uomo si allungherà di molto. I novantenni in buono stato di salute non mancheranno. Non mancheranno i centenari in discreto stato di salute psicofisica. Il problema è che – tenendo conto dell’idea che sostiene l’economia degli ultimi decenni – a questi nuovi trattamenti potranno accedere solo i ricchi. Ecco perché gli intellettuali e chiunque abbia un peso sull’opinione pubblica, dovrebbero sapere queste cose, dovrebbero dialogare con gli scienziati in modo molto più proficuo di quanto non si riesca a fare ancora”.

A Cosenza, un’altra associazione culturale: Il filo di Sophia. In questo caso si tratta di ex studenti della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Calabria. L’idea di mettersi insieme nacque nel 2008, dopo la sperimentazione della “didattica alternativa” durante un periodo d’occupazione. Da allora, raccontano Giuseppe Bornino e Silvia Cosentino, l’associazione ha organizzato più di 200 eventi, tra seminari, proiezioni, mostre, performance musicali e teatrali. Alcuni di questi incontri si tengono la sera in facoltà. Due poltrone, un tappeto, uno stereo, un paio di lampade con la giusta illuminazione, un piccolo buffet vegetariano ed ecco che una spoglia aula universitaria acquista un’atmosfera molto più intima, a tratti cospirativa, certo favorevole ai discorsi letterari. L’università offre a questi ragazzi l’utilizzo dell’aula (per il resto: zero finanziamenti, tutto a spese degli organizzatori) e sembra già moltissimo. Questo per sottolineare le dimensioni di una latitanza, per richiamare l’attenzione sul grande assente nel paese reale di questi anni. Che fine ha fatto l’università?

Viaggiando di continuo per alberghi e bed&breakfast, sono costretto a scoprire quale piccola risorsa si stia trasformando in lusso sotto i colpi della crisi. I termosifoni. Ce ne sono sempre meno. Al loro posto, i più economici condizionatori, montati a pochi palmi dal soffitto. D’estate va bene. Ma è d’inverno che si soffre. Di solito i condizionatori riscaldano male, e quando lo fanno decentemente creano intorno un micidiale ambiente d’aria secca. Ci si sveglia nel cuore della notte con la gola riarsa. La cosa più triste la vedo in Piemonte. La stanza di un vecchio e glorioso albergo. Ci sono ancora i termosifoni, ma sono spenti. Alzo gli occhi, e trovo il condizionatore.

Nel corso dei miei giri in Emilia-Romagna, la titolare di una libreria Ubik, mi dice: “A patto che il libraio sia libero di scegliere che libri ordinare e quali consigliare ai suoi clienti, non farei il peana preventivo delle librerie indipendenti. Non se l’indipendenza diventa una scusa per fare meno bene il lavoro. Non se è una copertura per un radical chic o peggio un hipster del cacchio che usa la libreria come specchio della propria vanità. Li conosco, questi hipster controcorrente. Sono bravissimi a sentirsi più fighi di te. E in effetti lo saranno anche, dei fighi. Sono più fighi di te in tutto, tranne che in due cose. Lavorare sodo. Vendere libri. Non ne sono capaci. Sfidali sul terreno dell’abbigliamento e perderai. Ma prova a mettergli davanti una signora a cui consigliare un libro di Edith Wharton. Non lo sanno nemmeno chi è, Edith Wharton. E infatti dopo sei mesi chiudono bottega e danno la colpa alle catene. Dovrebbero darla al tempo che hanno perso dai loro parrucchieri, su Facebook e Spotify, per non parlare del tempo che perdono al biologico o la domenica ai mercatini dell’usato. Stai sicuro che io quella domenica ero a svuotare scatoloni”.

Ut iterum crucifigar

Roma è la città in cui vivo. È stato anche – ormai vent’anni fa, e fino al primo lustro del duemila – il posto in cui un drappello di case editrici indipendenti si è trovato a poter sfidare le major (e non di rado a vincere) non ovviamente sul terreno dei fatturati complessivi ma su quello della qualità e perfino delle vendite di singoli titoli. Poi c’è stata anche qui una specie di riflusso, è arrivata la crisi, e oggi chi si lecca le ferite è fortunato perché significa che non ha chiuso. Ogni tanto capita ancora che una casa editrice indipendente romana sforni il caso dell’anno, ma nessuna nel frattempo è diventata Feltrinelli – così come del resto (se facciamo un salto indietro di qualche altro decennio, e cambiamo latitudine) Adelphi non è diventata grande quanto Einaudi pur arrivando da una sua costola ribelle. Questo piccolo ragionamento (chi arriva dopo è difficile che superi le dimensioni di chi c’era prima) la dice lunga sull’effettiva libertà del mercato. All’estero spesso non va diversamente.

Roma resta tuttavia la città in cui (ufficiali, ma molto più spesso spontanee) le iniziative a sostegno della lettura non si accontentano di sommarsi, ma si accavallano, si sovrappongono tra loro di continuo. Alcune librerie ci mettono meritoriamente molto impegno. Certo, anche qui c’è chi ha purtroppo chiuso. Per esempio Bibli a Trastevere (tra le prime a organizzare presentazioni e ad avere un piccolo bistrot, già nella seconda metà dei novanta), o la storica Libreria Croce a pochi passi da piazza di Torre Argentina. Il motivo è sempre lo stesso: scade il contratto di affitto e il padrone delle mura raddoppia o triplica il canone. Se ci sono dei vincoli, soprattutto per le librerie che avevano la loro sede nel centro storico, si è trovato il modo di aggirarli, visto che al loro posto sorgono o sorgeranno presto pizzerie e negozi di scarpe da ginnastica.

Per fortuna c’è chi sopravvive. Resta per ora vinta la scommessa di Giufà, nel cuore di San Lorenzo. Nata nel 2007 grazie a un gruppo di allora trentenni, Giufà ha avuto il merito di raccogliere intorno a sé molti affezionati, oltre a un piccolo gruppo di scrittori e intellettuali che si incontrano lì quasi ogni sera. Da Giufà vanno continuamente in scena reading, presentazioni, dibattiti.

Sull’altra sponda del Tevere c’è la libreria Pallotta, dove Carmelo Calì (uno di quei librai che, quando si innamora di un titolo, fa la felicità di autore e editore perché vuol dire che inizia a venderlo per mesi senza fermarsi) organizza con la stagione calda Libri a Mollo, una serie di incontri molto belli all’ombra del vicinissimo Ponte Milvio. Nel centro storico resistono egregiamente la libreria Fahrenheit (Campo de’ Fiori) e Altroquando (via del Governo Vecchio), a Prati c’è il Seme (qui un libraio d’eccezione: il già menzionato scrittore Giordano Meacci, e avventori d’eccezione, come Andrea Camilleri), mentre pure proseguono orgogliosamente la loro attività le librerie delle case editrici indipendenti come Fanucci (piazza Madama e via di Vigna Stelluti) o minimum fax (Trastevere). Certi minuscoli gioielli nati anch’essi negli anni novanta (Libri Necessari, a Monti) migliorano l’umore quotidiano di chi li conosce anche solo per il fatto di saperli sempre lì.

Tanto movimento anche fuori delle librerie. Tralascerò gli eventi grossi (da Libri Come a Massenzio) o quelli troppo ufficiali, e mi limiterò a due casi piccoli ma preziosi, e soprattutto indicativi di ciò che non smette di succedere nella capitale. Uno è Citofonare interno 7, organizzato senza continuità fissa da Rossano Astremo, il quale invita periodicamente gli scrittori a leggere brani dai loro inediti (cioè i romanzi e i racconti che si potranno acquistare in libreria molti mesi dopo) in abitazioni private.

L’altro è uno dei più bei festival letterari in cui io abbia messo piede. Non sono un fanatico del genere – ai festival ci sono stato molte volte, in certi casi era importante esserci, ma istintivamente mi lascio affascinare non da ciò che accade una tantum ma da quello che si radica, che possiede una continuità, che dialoga senza pause con il mondo circostante fino a creare intorno a sé una comunità. Parlare di letteratura davanti a mille persone può essere elettrizzante (quando mi è successo, non ho potuto fare a meno di sentire la botta di adrenalina, ed esserne contento) ma è molto difficile che si crei un vero clima di intimità. Ebbene, a Roma esiste un festival letterario che per me da questo punto di vista rappresenta la quadratura del cerchio. Lo conoscono in pochi fuori del centro, si chiama Leggo per legittima difesa si tiene ogni anno all’Officina Culturale Via Libera del Quadraro (periferia sud) e lo organizzano Francesca Mancini, Dina Giuseppetti, Daniele Miglio, Maria Galeano. Quest’anno tra gli scrittori invitati c’erano Giancarlo De Cataldo, Cristiano De Majo, Antonella Lattanzi, Francesca Serafini.

La cosa per me bellissima, di Leggo per legittima difesa, è che, pur essendo un evento con cadenza annuale, il rapporto che intrattiene con il quartiere sembra continuo. Nei giorni del festival, ci trovi gente del Quadraro che si muove negli spazi delle presentazioni come a casa propria (non c’è quello strano esotismo tipo “Disneyland incontra la Scuola di Francoforte” che a volte si respira nei grossi festival), e appassionati di letteratura (sempre più, man mano che la voce si diffonde) venuti da altri quartieri. Alla fine sono tutti contenti. Gli scrittori, perché a sentirli c’è sempre tanta gente. I lettori, perché parlare di libri qui non sembra una cosa eccezionale ma consueta, quotidiana. E tutti (lettori e scrittori) perché quello strano genere esploso nell’ultimo quindicennio che è la “letteratura in pubblico” viene sottratto a dinamiche troppo spettacolari. L’impressione insomma è che (in realtà un’illusione) Leggo per legittima difesa vada in scena ogni sera.

A Roma c’è un’altra cosa impossibile da non menzionare. Chi non sa che esiste, colpevolmente la ignora. Chi la dimentica, ne invidia spesso la natura. Chi la conosce, e ha la fortuna di frequentarla, tende a considerarla una presenza imprescindibile, così preziosa da sospettare che vietarsi di nominarla una volta di troppo eQuivalga a un gesto scaramantico. Per una volta corro il rischio e nomino la migliore scuola in cui mi è mai capitato di mettere piede: si tratta di Lo Straniero, la rivista fondata da Goffredo Fofi. Tutto ciò che negli ultimi vent’anni in Italia (e non solo) ha rappresentato qualcosa di importante nel campo della letteratura, del cinema, del fumetto, del teatro, della critica (letteraria, teatrale, cinematografica) l’ho vista spesso passare di qua con molto anticipo. A differenza di scuole che di talenti ne sfornano di meno, qui la frequenza è gratuita.

Chissà se un giorno i fermenti di Roma saranno qualcosa più di mille salvagenti a cui aggrapparsi in mancanza di approdi più solidi, per non parlare della possibilità di un’isola.

L’Italia fuori dell’Italia

Difficile difendere l’immagine dell’Italia all’estero quando i suoi primi affondatori siamo noi. “Il cinema italiano fa schifo e per lo più non conta un cazzo”. Quante volte ho sentito questa frase? Poi però nel giro di pochi anni vinciamo un Oscar con Paolo Sorrentino (nessun paese al mondo ha preso tanti Oscar per il miglior film straniero come l’Italia), sfioriamo a Cannes la vittoria con Matteo Garrone e Alice Rohrwacher (dopo gli Stati Uniti, siamo il paese che ha vinto più volte la Palma d’Oro), vinciamo il Leone d’Oro con Gianfranco Rosi (nessuno ne ha vinti tanti quanto Italia e Francia) e l’Orso d’Oro con i fratelli Taviani. Per non tacere del fatto che l’Italia è il secondo produttore di cinema in Europa. Il giudizio sui singoli film può essere discorde, ma qualcosa questi dati vorranno dire. I problemi anche grossi (produttivi, distributivi, di competenze, professionalità, e anche di approccio critico) certo non mancano, però non mancano neanche i talenti non comuni. Così nel cuore Parigi trovo una retrospettiva su Ciprì e Maresco che qui sono praticamente clandestini, mentre a Berlino vedo Le quattro volte di Michelangelo Frammartino da cui la programmazione italiana mi aveva escluso. Esempi simili sono eloquenti.

Non è così diverso il discorso per la letteratura. L’espressione “soltanto in Italia…” precede qualunque discorso polemico (cioè denigratorio) sullo stato delle nostre lettere. Contagiatone anche io, confesso che provai stupore la prima volta che, invitato a parlare di letteratura in Olanda, mi accolsero come se loro appartenessero a una scena periferica (ma senza complessi di inferiorità) e io fossi il rappresentante di un’alta scuola che aveva molto da insegnare. Si riferivano alla letteratura italiana contemporanea, non a Moravia e Pasolini. Del resto il neorealismo fu scoperto a Cannes (qui da noi c’era Andreotti che consigliava di lavare i panni sporchi in casa), Italo Calvino ebbe la sua consacrazione tra Parigi e Harvard, e se penso ai grandi disegnatori italiani (basti il caso recente di Manuele Fior) che trovano al di là delle Alpi lo spazio che il loro talento in patria non avrebbe, mi viene da raddoppiare le energie come alternativa allo sconforto.

È per questo che i piccoli e grandi avamposti della cultura italiana in grado di funzionare bene oltreconfine sono preziosi. È anche il motivo per cui ne visito qualcuno. Ad Amsterdam, per esempio, c’è la Bonardi, l’unica libreria italiana di una certa importanza in territorio olandese. Nata nel 1977, gestita da Marina Warmers, la Bonardi spende moltissime energie per promuovere la nostra cultura nei Paesi Bassi. Sono tanti gli olandesi che si avvicinano alla sede di Entrepotdok 26 perché vogliono imparare la lingua di Dante, e pochi anni dopo te li vedi con un testo di Evelina Santangelo o Andrea Bajani tra le mani.

Negli anni, la Bonardi è riuscita a pubblicare perfino tre antologie bilingue di narrativa italiana (La mia Olanda, Giro d’Italia, Tipicamente italiano).

A Parigi visito invece La Libreria, in rue du Faubourg 89. Non è l’unica italiana di Parigi (un’altra molto nota è la Tour de Babel aperta al Marais da Ferdinando Tramuta nel 1984), ma è appunto in rue du Faubourg che incontro Alessandro Tota (altro nostro bravo disegnatore all’estero), alcune redattrici di 404 trasferite nella capitale francese, e soprattutto Florence Raut e Andrea De Ritis, i librai, che qualche anno fa hanno aperto coraggiosamente questo posto e lo tengono vivo.

All’inizio della primavera riesco a passare anche da Londra. Ci manco da anni (la Tate Modern stava aprendo i battenti, la Oyster non era ancora la carta con cui si viaggiava di più nel sottosuolo e in superficie). Qui c’è da molto tempo l’Italian Bookshop. Centralissima (due passi da Piccadilly), gestita dall’instancabile Ornella Tarantola, la libreria italiana a Londra è sempre in moto, dentro e fuori la propria sede. Per capire quanti italiani (tra scrittori, poeti, saggisti, registi, giornalisti, filosofi, cantanti) Ornella e il suo Bookshop hanno aiutato a farsi conoscere nel Regno Unito, basti contare le firme sul poster di Aprile di Nanni Moretti esposto in bella mostra sulla parete destra.

Fondamentali a maggior ragione sono (o dovrebbero essere) gli Istituti di cultura italiana all’estero. Credo che per gli Iic valga la stessa regola degli assessori alla cultura (gli illuminati fanno faville con il poco che gli vien messo a disposizione; quelli convinti che finanziare la “sagra della salsiccia” sia più importante che invitare Claudio Magris a parlare di scritture di confine, o Pietro Marcello a presentare il suo ultimo film, dilapidano senza sensi di colpa il tanto che qualche scellerato gli ha messo a disposizione).

Sempre a Londra, per esempio, ho la fortuna di incontrare Carla Babini, che sta animando con molto impegno la vita dell’Istituto. Nei giorni in cui ci sono io, in Belgrave square ci arriva per esempio Carlo Ginzburg per una lezione di storia, ci è appena stata Mariangela Gualtieri con una lettura di poesia, ci arriverà nelle prossime settimane Giuseppe Culicchia. Alle presentazioni di libri (e alla proiezione di film italiani) seguono – di solito a uno o due giorni di distanza – i reading group.

Si tratta di un’esperienza molto interessante: una trentina di madrelingua inglesi (anche qui, le lettrici sono sempre più dei maschi) a cui è stato affidato nell’originale italiano il libro dello scrittore ospitato o residente, discutono con lui di ciò che hanno letto e capito, o frainteso, o trovato – found in traslation – nel passaggio da una cultura all’altra.

Una persona che i non addetti ai lavori non sono tenuti a conoscere, ma che chiunque abbia a cuore le sorti della nostra cultura all’estero dovrebbe ringraziare, è Paolo Grossi. Fino a qualche anno fa era il direttore dell’Iic a Stoccolma, oggi riveste la stessa carica a Bruxelles. Ho avuto la fortuna di andare a trovarlo sia in Svezia sia in Belgio. In entrambi i casi ho trovato un uomo che non sprecava un istante del suo tempo pur di portare avanti nel migliore dei modi ciò che considera evidentemente una missione. Facile esportare Ammaniti o Camilleri (sono tradotti praticamente ovunque), assai più complicato è far tradurre in svedese Vitaliano Trevisan, cosa che a Paolo Grossi è riuscita, esattamente nelle stesse settimane in cui magari mostra a valloni e fiamminghi non (solo) il Fellini che conoscono già, ma il bellissimo Intervallo di Leonardo Di Costanzo. Per intenderci, è lo stesso Paolo Grossi che si è inventato Books in Italy, il portale che promuove l’editoria, la lingua e la cultura italiana nel mondo. Chiunque vuol fare questo mestiere, può andare a scuola da lui.

Mi si potrebbe tacciare di eccesso d’entusiasmo. Sto parlando troppo delle cose che funzionano, e con un tono che per il cinismo di qualcuno potrebbe sembrare stucchevole. Be’, se proprio volete potrei raccontarvi la storia di quel direttore di istituto di cultura italiana all’estero che prima invitò in sede un’intera casa editrice e poi (dodici ore dopo che quella stessa casa editrice aveva rifiutato il romanzo che quello stesso direttore aveva caldeggiato per conto di una carissima amica) ritirò l’invito; o del libraio (indipendente) che incassò diecimila euro da un bando pubblico e ne spese mille e cinquecento (il resto è storia ignota) per la rassegna letteraria cui avrebbero dovuto essere interamente destinati.

Il problema è che i tempi sono cambiati dai giorni in cui si lanciavano pomodori alla prima della Scala. Oggi (soprattutto nel passato recente, prima che il codice rosso scattasse in modo troppo eclatante per non essere notato) abbiamo non di rado la sciatteria al potere, il punk di Stato, la cazzonaggine istituzionale, e i veri eroi, i veri bastian contrari (i veri artisti, mi verrebbe da dire) sono quelli che costruiscono qualcosa nel nulla cui altrimenti saremmo destinati, così che al posto delle rovine – su cui pisciare è tanto facile – ci sia di nuovo una casa, per la rabbia e l’ovvia frustrazione di chi crede talmente poco in sé (e talmente tanto nella propria incapacità di combinare qualcosa) da voler trasferire il problema su quelli (come vedete più di una sporca dozzina) che ci provano davvero.

Puglia (e non solo)

“Il problema è che voi pugliesi avete un rapporto non riconciliato con la vostra terra mentre noi liguri a casa ci torniamo sempre volentieri”.

Chi mi parla è un noto conduttore radiofonico nonché uno dei maggiori esperti di rock in Italia. Si chiama John Vignola, è di Spotorno, da più di dieci anni vive a Roma. Temo abbia ragione. Forse, fin troppo generalizzando, il problema è il sud. Staccarsene è come darsi uno schiaffo molto forte. Da una parte si tratta della spinta necessaria ad andare via. Dall’altra fa un po’ male, o peggio vuol dire aprirsi una ferita. Niente di drammatico, con le ferite si impara a vivere, anzi è bene interrogarle, dialogarci. A patto che non sanguinino troppo.

Un famoso scrittore di Napoli che vive da tempo immemore a centinaia di chilometri di distanza mi racconta che, ancora oggi, quando torna nella sua città natale viene preso da forti conati di vomito. “Mi basta anche vedere da lontano Castel Sant’Elmo”. “Cosa c’è a Napoli che ti fa stare male?”. “A Napoli c’è troppo, questo il problema. Se ti trasferisci altrove e poi torni in città per un fine settimana, i sensi sono ancora in grado di cogliere la minima sfumatura, ma – per così dire – non hai più il fisico allenato a contenere quel tutto insostenibile, a fartelo passare addosso come niente fosse”.

Con la mia regione la faccenda non è più cruenta, ma perfino meno semplice. Conosco baresi che vivono a Bari (leccesi che vivono a Lecce, e così via) affetti da un assurdo “mal di Puglia”, al pari di chi è andato via. Come se a chi è nato e cresciuto qui sia stata data la chiave per accedere a una terra segreta, una Puglia invisibile che ci corrisponde in tutto, incantevolmente. La sua forma calzerebbe senza scarti al nostro panorama interiore, se non fosse che la chiave gira sempre molto male nella toppa, la porta non si apre, e noi questa “Puglia invisibile” al massimo riusciamo a intravederla, o peggio a presentirla, ma – questo il tragico – in modo troppo chiaro. Sappiamo dunque con assoluta certezza che esiste, è anzi a pochi aliti dal naso, eppure non ci è dato di abitarla.

Quando sono andato via era il 1996, e a parte un meraviglioso circolo Arci frequentato a Bari con assiduità nei quattro anni precedenti (si chiamava Metropolis; la sua sottosezione letteraria Daedalus, una vocale di troppo per non farsi fagocitare da Joyce, covo di universitari e poeti da strapazzo, l’ho rivisto con chiarezza dopo anni la prima volta che ho letto I detective selvaggi) di iniziative che avessero a che fare con i libri o la letteratura ce n’erano pochissime. Direi nessuna a cui un ventenne senza arte né parte potesse avere accesso. Se si escludono pochi geni isolati (Carmelo Bene, Pino Pascali, Andrea Pazienza, più indietro negli anni Tommaso Fiore e Rocco Scotellaro) la nostra regione soffriva anche di un evidente deficit d’autorappresentazione.

Vent’anni dopo, molto è cambiato. C’è stata la cosiddetta Primavera (oggi già a rischio di riflusso) e addirittura un drappello di scrittori che, sbarazzatisi una buona volta del folclore (nient’altro che l’altro volto del complesso d’inferiorità del provinciale) hanno preso a raccontare i loro luoghi in modo finalmente maturo. Gente di provincia, ma come Fenoglio, Bianciardi, Bufalino.

Tra le cose che sono successe nel frattempo ci sono per esempio i Presìdi del libro. Nati nel 2001 (al Salone del Libro di Torino) con l’intento di promuovere i libri “dal basso”, i presìdi diventano realtà (si trasformano cioè in associazione) nel 2002 grazie agli sforzi di otto editori pugliesi: Adda, Besa, B. A. Graphis, Cacucci, Dedalo, Editori Laterza, Manni, Progedit. L’associazione è aperta a insegnanti, studenti, librai, bibliotecari, professionisti, associazioni culturali e a tutti coloro che hanno la passione per la lettura. Molti oggi sono i presìdi sparsi a macchia di leopardo sul territorio nazionale.

Eviterò l’elenco di quelli che ho visitato in Puglia. Non finirei più. Posso però – a rappresentanza di tutti gli uomini e le donne di buona volontà coinvolti nel progetto – fare almeno due nomi: Anna Maria Montinaro e Gilda Melfi.

A queste due donne andrebbe affidato un ministero. Anna Maria gestisce il presidio di Martina Franca. Gilda dei presìdi è la coordinatrice storica, e chiunque l’abbia conosciuta (scrittori, giornalisti, saggisti, politologi, critici d’arte da lei invitati a parlare di libri in uno dei tanti presìdi sparsi sul territorio) non può dimenticarla.

Avete presente quelle donne che non solo danno l’impressione di avere la situazione perfettamente sotto controllo ma ce l’hanno davvero, che sanno quello che dicono e dicono solo quello che sanno, e che – gettate ogni tanto da qualcuno in situazioni talmente incasinate da diventare un groviglio inestricabile; groviglio generato da quel qualcuno e non da loro – ne escono tempo dopo con il bandolo della matassa perfettamente in pugno, come a nessun altro sarebbe riuscito? Ecco, questa è Gilda. Quanto mi piacciono le donne di polso, che risolvono i problemi ma sanno essere anche empatiche, affettuose. Mi è sufficiente questo, per farmi mandare docilmente da lei in qualunque presidio le piaccia (o decida) che io vada.

Non solo presìdi, però. La Puglia, in questi mesi, la giro da cima a fondo. Di Taranto ho già detto. A Lecce sono alla Libreria Palmieri, che ha una bellissima storia. Tutto inizia quando Edo Palmieri, calciatore del Bologna, smette di giocare a pallone e torna nella sua Barletta. Siamo quasi a mezzo secolo fa, ed Edo ha un sogno che normalmente non attribuiremmo ai calciatori a fine carriera. Non vuole diventare dirigente né allenatore. Non vuole aprire una scuola calcio o una catena di negozi di articoli sportivi. Edo Palmieri vuole aprire una libreria. A Barletta c’è tra l’altro la libreria di Aldo Vittorini, fratello di Elio, e un tempo un certo spirito di emulazione era davvero santa cosa. A questo punto Edo conosce Anna Rizzo perché, finito di giocare a pallone, vuole anche prendere la licenza superiore. Lei gli dà lezioni per prepararlo all’esame. “Galeotto fu il libro”, mi dice Anna con un sorriso soave quando vado a trovarla. Insomma, Edo e Anna si innamorano, si sposano, aprono insieme la libreria a Lecce. Libreria che, in breve tempo, diventa in città una sorta di istituzione, e tira su – decennio dopo decennio – generazioni di lettori leccesi. Oggi la libreria è gestita da Anna (cioè la signora Palmieri), insieme alle figlie Daniela e Lucia.

Da Lecce a Foggia. Qui un’istituzione cittadina è Michele Trecca con la sua Ubik. Sono più di vent’anni che Trecca promuove iniziative per far parlare di libri nella Capitanata. Fino a qualche anno fa animava la biblioteca provinciale (che a un certo punto se non ho capito male ha visto ridursi il budget). Poi la Ubik.

“Bella idea, peccato che siete capitati in un brutto momento!”.

È la frase con cui Trecca e Giovanna Draicchio furono accolti dal mondo della distribuzione, della promozione, dell’editoria, della cultura locale, quando, nel novembre del 2007, aprirono la libreria. Infatti nel marzo 2009 chiudono le saracinesche, ma solo per riaprirle a un numero civico di distanza, in un locale più grande. In barba alle CdC, una nota specie di uccellacci locali (Cassandre della Capitanata), questi librai ci sanno fare, si allargano, e allargano anche il parco dei loro bravissimi collaboratori (Alessandro Galano, Antonella Moffa, Francesco Di Buduo, Salvatore D’Alessio). A Foggia c’è anche da anni un importante progetto scolastico a sostegno della lettura, Incontri Extravaganti, curato dalla professoressa Mariolina Cicerale in seno al liceo classico Lanza.

A Bitritto vado da Libriamoci: Christian Bavaro (pochi passi dalla laurea in medicina) e Stefania Riccardo hanno avuto il coraggio di aprire (un anno e mezzo fa) in un paese dove una vera libreria non c’era mai stata.

A San Severo sono all’Orsa Minore. Anche qui, apologo esemplare. Gabriella De Fazio e Michele Piscitelli (moglie e marito) nascono a San Severo, ma a un certo punto – come tanti meridionali – si trasferiscono al nord. Lavorano 30 anni in Emilia-Romagna. Poi, iniziano a dirsi di voler tornare. Ma come fare? Come darsi la spinta giusta? Una libreria può essere la risposta. Pur essendo due grandi lettori, oltre che persone di evidente sensibilità, non hanno idea di come funzioni, una libreria. Non importa, ci provano lo stesso.

Insomma, otto anni fa nasce Orsa Minore. I preesistenti lettori di San Severo ne vengono attratti. Alcuni non lettori si trasformano in lettori. Ed ecco, la libreria ingrana e – nonostante la crisi e i tempi difficili – è sempre lì. Gabriella e Michele (e figli) non si fermano. A un certo punto iniziano a fare una piccola rivista, I quaderni dell’Orsa.

Un numero è dedicato ad Andrea Pazienza, che qui ha trascorso infanzia e adolescenza. La mamma di Andrea, Giuliana Di Cretico, è stata la madrina di Gabriella. La quale mi mostra un disegno (inedito, cioè pubblicato su I quaderni dell’Orsa) risalente al 1973, in cui Paz rappresenta a modo suo la Questione Meridionale. Occhi attenti possono riconoscere – tra i vari personaggi che in perfetto stile APaz affollano il disegno – il profilo antico di Giuseppe Di Vittorio.

Poi Locorotondo. Qui Giuseppe Conte, dopo avere vissuto un po’ a Berlino, ha creato con altri amici il Docks 101, dove si mangia, si beve e si parla di libri. A Barletta visito la libreria Cialuna in via Nazareth 34 (nata dalle attività dell’associazione culturale Liberincipit, ha mantenuto la vocazione movimentista, buona parte del merito ce l’ha Alessandra Lovino, la quale sotto un altro nome è una tweet star letteraria molto nota e apprezzata), mentre a Trani sono dall’altrettanto ottima Luna di Sabbia, nata grazie a un piccolo gruppo di amici che prima ha preso coraggiosamente in gestione la storica Maria del Porto, e ora, in via Mario Pagano 193/95, sta facendo un lavoro splendido (ci sono presentazioni di libri, ottimamente condotte da Vito Santoro, dove ad ascoltare può arrivare anche un centinaio di appassionati).

Ad Andria c’è Gigi Brandonisio con il suo Collettivo Famelico. A Gioia del Colle Orietta Limitone si dà molto da fare per il presidio della zona. A Lucera c’è una bella Cremeria letteraria dove ogni tanto la giornalista Alessandra Benvenuto fa il terzo grado agli scrittori. A Ostuni tutti, o quasi, conoscono la Bottega del libro di Francesco Tagliente, trentacinque anni di storia. Ancora a Lecce, la cooperativa Coolclub è molto attiva nel coniugare musica e libri. A Molfetta, la casa editrice La Meridiana organizza nella sua sede incontri in cui si discute prendendo le mosse da libri pubblicati anche da altre case editrici (questo, molto meritoriamente, e sempre secondo le regole delle maggiori proporzioni, lo fa anche a Roma la casa editrice Laterza grazie all’impegno notevole di Anna Gialluca). A Rutigliano è molto attivo Carlo Picca. A Corato consiglierei a tutti di visitare il circolo Arci Locomotiva – begli incontri letterari e ottima musica (da Timber Timbre a War on Drugs) grazie a Cataldo Bevilacqua (con la complicità di Cristò Ciapparino che a Bari è il responsabile eventi della libreria Feltrinelli). Altro circolo Arci in zona amico delle lettere: il Capafresca di Palo del Colle (qui anche da segnalare il laboratorio urbano Rigenera). A Monopoli è da anni molto attivo, oltre che molto simpatico, Decio Telegrafo Chiarito (quando lo incontro mi dice che, nonostante la crisi, vuole provare ad aprire altri punti vendita nei paesi vicini), mentre a Mola c’è il Culture Club Cafè di Domenico Sparno, e c’è Annella Andriani che si dà molto da fare con gruppi di lettura anche di giovanissimi.

Chi avesse seguito su una mappa gli ultimi spostamenti, si sarebbe reso conto del mio pericoloso avvicinarmi a Bari. Il pericolo nasce dal fatto che a Bari ci sono nato. È il teatro di ogni battesimo, di tutti i miei riti di passaggio. Di conseguenza è il posto in cui il “mal di Puglia” per me raggiunge il culmine. A volte non capisco più se a Bari sono al centro esatto del mio mondo o nel luogo dove l’alienazione diventa assoluta. Un buon modo per venirne fuori è mettere in contatto la mia vita di allora con quella di adesso. Per esempio andando a trovare Enzo Mansueto (poeta, insegnante, critico letterario, ex musicista punk) che tra le varie cose organizza incontri letterari al liceo artistico De Nittis, o Isabella Dentamaro pure molto attiva con le scuole, o ancora Oscar Iarussi che, tra i molti meriti accumulati negli anni, ha (per dire il più recente) quello di organizzare con Alessandro Laterza e l’associazione Veluvre un prezioso festival sull’identità meridionale, Tu non conosci il sud.

Anche nel caso di Bari, ci sono librerie che si possono usare come bussole e ancore di salvezza. Ovviamente la Laterza, gestita e animata da Maria Laterza, libreria storica di Bari (fu aperta da Giovanni Laterza nel 1896) e al tempo stesso uno dei punti di riferimento della vita culturale cittadina. La prima volta che ci arrivai non da semplice lettore (presentavo un libro) ero molto agitato. Con il tempo il timore reverenziale si è sciolto ed è arrivata l’amicizia. Le ultime generazioni sono ben rappresentate da Zaum, la cui vita è ben animata da Clara Patella, Grazia Turchiano e tutto il collettivo CaratteriMobili – anche qui, nuove teste a riflettere sui libri, come per esempio Marco Montanaro e Giovanni Turi. Lo dicevo a proposito di 404 e lo ripeto: nessuna generazione è per fortuna l’ultima.

Giacché ci sono faccio un salto anche a Matera, alla Libreria dell’arco di Giovanni Moliterni. Il clima è euforico per via della candidatura vincente della città a capitale europea della cultura per il 2019. Da vergogna d’Italia ai tempi di Carlo Levi (e nell’immediato dopoguerra) a orgoglio nazionale. Forse, mi dico, la Basilicata raccoglierà la fiaccola che la Puglia ha cercato di portare negli ultimi anni in queste zone come distretto culturale. Due o tre fiaccole insieme contemporaneamente sarebbe meglio, ma è difficile accada.

Mentre sosto ancora davanti alla libreria in via Ridola, che ha una bellissima vista sui Sassi, mi raccontano di come (anziché essere portati al ristorante, come il protocollo avrebbe voluto, e come le altre città candidate hanno fatto) i commissari europei sono stati ospitati nelle case private dei materani che ne avevano fatto richiesta (cioè tantissimi) al Comitato Matera ‘19. Per non parlare dei gruppi di “camminatori” che hanno percorso più di cento chilometri a piedi, attraversando villaggi, boschi, montagne e valli prima di giungere a Matera per mostrare, attraverso questo “pellegrinaggio culturale”, il sostegno di tutto il popolo lucano alla sfida della città candidata.

Contestato dal ministro

Sto giusto programmando le ultime tappe del mio viaggio (la Sardegna, una puntata ligure, magari Pescara per tornare dopo anni alla Primo Moroni, rinuncio a malincuore causa date che si sovrappongono al bellissimo Gita al faro, il festival di Ventotene diretto da Loredana Lipperini che ha raccolto il testimone da Sandra Petrignani) quando arriva l’occasione di portare questa piccola esperienza a un tavolo istituzionale.

Sono i giorni di Libri Come, festival del libro e della lettura che si tiene ogni anno al Parco della Musica di Roma. Oltre ai molti incontri pubblici (tra gli altri James Ellroy ed Emmanuel Carrère) sono previste due ore a porte chiuse con il ministro della cultura Dario Franceschini. Una trentina di persone che lavorano ogni giorno con i libri (editori, scrittori, librai, traduttori, giornalisti culturali, eccetera) potranno dire la loro sulla promozione della lettura in quest’epoca difficile. Il ministro, a sua volta, dopo aver raccolto le varie istanze, dirà la sua. Sono tra gli invitati a parlare.

Qualche giorno dopo, sarò rimproverato bonariamente in rete e sulla stampa (un articolo del Fatto Quotidiano) per aver accettato di confrontarmi con chi possiede una visione del mondo (perlomeno quello editoriale e letterario) troppo diversa dalla mia. Non sono d’accordo con questa posizione. Se ti danno l’occasione di parlare ai tuoi rappresentanti di ciò su cui lavori (a meno che Putin non ti chiami a discutere di libertà di stampa, o Sergio Marchionne di giustizia sociale) è quasi un dovere rispondere alla chiamata, così come a chiunque va concesso il diritto di deluderci.

Il problema principale di cui si parla è il calo di lettori di cui ho detto. In Italia si leggeva poco fino a qualche anno fa, e adesso ancora meno. Come uscirne? Parlano editori (Antonio Sellerio, Elido Fazi, Sandro Ferri), il presidente del Centro per il libro Romano Montroni, una traduttrice bravissima (Ilide Carmignani), gli scrittori Christian Raimo e Elena Stancanelli (quest’ultima anche come ideatrice di Piccoli Maestri). Le ricette, come è giusto che sia, non seguono tutte la stessa direzione. Diverse le personalità, diversi i punti di vista. Poi tocca a me. Per far comprendere con rapidità (ho quattro minuti) il mio punto di vista, porto al ministro l’istanza di uno dei primi librai da me intervistati.

Un caso esemplificativo, uno come tanti, per capirci al volo: che senso può avere, chiedo, un’iniziativa come #ioleggoperché? Regalare duecentoquarantamila romanzi ad altrettanti ragazzi e ragazze, uomini e donne per invogliarli a leggere, non è il segno di una resa invincibile? Non sono copie sottratte ai librai che potrebbero davvero venderli? Non sarebbe stata una vittoria (anziché sbatterglieli in mano così) se si fosse trovato il modo di far desiderare i libri in questione a quei non lettori, così che il desiderio li portasse a comprarli in libreria, o a chiederli in prestito in biblioteca, o perfino a rubarli? E che senso hanno i testimonial vip quando l’Italia (come ho provato a dimostrare con questo piccolo resoconto, illuminando giusto la punta dell’iceberg) è piena di librai, associazioni, circoli, comitati, privati cittadini che fanno della promozione della lettura una missione quotidiana – spesso la missione della vita –, e ai quali magari potrebbero essere destinate le risorse che alimentano queste iniziative promozionali? Iniziative per me piuttosto inutili.

Non tutti gli interventi sono sulla mia lunghezza d’onda (tra gli astanti c’è anche chi è coinvolto in #ioleggoperché, e ci sono quelli che la pensano in modo diverso) ma non sono il solo ad aver sollevato il dubbio che amore per la lettura ed eccesso di spettacolarizzazione rischino di non essere buoni amici in modo duraturo.

Franceschini non la prende bene. Dopo aver parlato dei problemi della lettura e dell’editoria, imboccando strade per me anche un po’ contraddittorie (da una parte bisogna star sereni perché “Amazon non è il nemico”, dall’altra “sogno dei bar non con il free wi fi, ma con il wi fi free, così la gente anziché stare in rete potrebbe leggere con calma”, al che viene fatto notare al ministro che può stare tranquillo, perché almeno a Roma trovare un bar col free wi fi è un’impresa), inizia a contestare energicamente il mio intervento e quelli di impronta analoga.

Rimango un po’ stupito perché la reprimenda è più accesa dei rilievi che l’hanno innescata, e anche perché (penso) un tempo erano i cittadini che contestavano i ministri. Franceschini comincia a darmi dello snob, dice che sono troppo aristocratico. Il mio essere vagamente già di sasso moltiplica, per così dire, il suo peso specifico. Le prime parole che ho imparato lavorando nell’editoria sono “bancale” e “muletto”, e sentirmi dare con malcelato disprezzo dell’aristocratico da un ministro della repubblica è davvero l’ultima cosa che credevo potesse capitarmi.

Anche qui, dev’essere l’ennesima mutazione antropologica (un tempo ti davano dell’aristocratico se dicevi che preferivi Proust ai libri Harmony, oggi se dici che un circolo di lettura ben organizzato e un libraio in gamba possono insieme più di Carlo Cracco che regala Il cacciatore di aquiloni). Mi viene un po’ da ridere. A quel punto Franceschini mi chiede con tono di sfida (ma senza mai guardarmi in faccia, né rivolgersi a me, come se il mio intervento l’avesse fatto un ente impersonale, il quale ora minaccia l’intero uditorio) che problemi ho se Jovanotti decide di parlar bene di un romanzo su Twitter e quel romanzo poi vende centomila copie. Siamo allo psicodramma (in realtà il genere sarebbe un altro, perché non ho mai detto ciò di cui mi accusa il ministro). Non ho infatti proprio nulla in contrario se Jovanotti parla bene del libro di Agassi o di Joseph Conrad, sarebbe assurdo e patetico il contrario (quando ho visto Jovanotti dire che considerava Bolaño tra i suoi contemporanei preferiti gli avrei battuto il cinque). Solo, mi sembra sventurato il paese che ha un ministro della cultura convinto che Jovanotti debba vestire proprio malgrado i panni dell’eroe.

Voglio dire, non c’è bisogno del lavoro (o dei finanziamenti) di un intero ministero perché Jovanotti (o Valentino Rossi) twitti liberamente frasi da un libro che gli piace. E francamente sarebbe davvero marxiana (tendance Groucho, però) una squadra ministeriale che attendesse con il fiato sospeso il tweet di una star da qualche milione di follower per risollevare un mercato editoriale altrimenti alla canna del gas – così come sarebbe triste il destino di una casa editrice che puntasse solo su questi colpi di fortuna (che quando arrivano, sono sempre benvenuti) in mancanza di una strategia e per vendere libri in maniera stabile.

Poi Franceschini dice che sì, attività come quella dei Piccoli Maestri possono andare bene, e comunque ce ne sarebbero anche altre (artificio verbale per far capire che non tiene in gran conto neanche di quelle), ma se “per diffondere la lettura funzionano le pubblicità con i vip in tv che tengono in mano i libri non capisco perché lo si debba biasimare”.

È qui che comincio un po’ a incazzarmi. Da una parte credo che l’antitesi dei libri sia proprio la pubblicità (sono linguaggi che fanno a cazzotti tra di loro: la pubblicità, come certa politica, tende alla persuasione, vuole convincerti di qualcosa, pretende di imboccarti tutte le risposte, il più delle volte sbagliate; i bei libri al contrario sollevano le giuste domande, a volte mettono in crisi chi li legge, allargano la visuale), e non ho visto mai nessuno innamorarsi durevolmente della lettura perché gliel’ha consigliato un vip in tv.

Certo, la pubblicità può muovere delle copie nell’immediato, ma è la classica aspirina somministrata per curare un tumore. Stessa cosa per i consigli letterari degli opinion leader. Sono momenti occasionali, mentre sarebbe necessario un lavoro di lungo periodo, condotto con un linguaggio più vicino all’oggetto di cui si parla, ovvero i libri.

Mi viene lo sconforto, e non dico pubblicamente (perché temo suonerebbe retorico, la classica mossa da talk show televisivo con politici che si azzuffano tra loro) che con un’uscita del genere Franceschini umilia chi – i librai, gli insegnanti, le associazioni, tutte le persone di buona volontà a una cui minima rappresentanza ho dato voce in questo racconto – fa della lotta per la diffusione della lettura la battaglia di sempre, e non l’occasione per un’uscita serale, o per un flashmob. So bene che #ioleggoperché coinvolge anche biblioteche e gruppi di lettura, ma è tutto incellofanato in un’idea che mi pare tradisca ciò che dichiara di voler fare. Puoi chiamare Vargas Llosa e Donna Tartt a parlare di libri in prima serata televisiva, ma il risultato è il naufragio se la logica è quella di #VeryBello (ah, tra l’altro, volevo mettervi il link, ma spesso non funziona)

Nel frattempo Franceschini finisce di parlare, recupera il soprabito adagiato proprio accanto al posto dove sto seduto io, provo a controbiettare, lui mi dà le spalle, vola via perché ha altri impegni.

“Che cosa ti aspettavi?”, mi dice uno scrittore il giorno dopo, “Franceschini, oltre a essere quello di #VeryBello, vuole battersi per inserire i testi dei cantautori nelle storie della letteratura italiana che si insegnano a scuola, da De Gregori a De Andrè. Hai presente la scuola Marilyn Monroe di Nanni Moretti in Bianca? Ma allora bisognerebbe prenderlo davvero sul serio il povero De Andrè! In particolare, quando citava Benedetto Croce sul fatto che fino a diciott’anni tutti scrivono poesie, mentre da lì in poi continuano a farlo i poeti e i cretini, motivo per il quale De Andrè diceva di essersi rifugiato prudentemente nella canzone”.

“Nicola, sbagli”, mi dice invece un editore, “chiedi troppo alla politica. Il ministro Franceschini una cosa molto importante l’ha fatta: ha evitato che la legge Levi fosse abrogata (nda, si tratta della legge che regolamenta gli sconti sui libri, a tutela dei piccoli editori, ma ormai anche dei meno piccoli, dopo l’arrivo sulla scena di Amazon). Era questo che il mondo dell’editoria seria gli ha chiesto. Lui l’ha fatto. I ministri in Italia sono spesso molto fragili. Se Franceschini non è il Jack Lang della Francia di qualche tempo fa, la colpa non è sua. Qui da noi i ministri durano poco, si muovono spesso in campi che non sono i loro, occupano poltrone diverse da quelle per cui avevano lottato, si sentono continuamente sotto tiro. E così reagiscono in maniera snervata alla prima obiezione. E poi, perfino in Francia ormai… Aurélie Filippetti (nda, la ministra della cultura fino allo scorso agosto) ha ammesso di non leggere un libro da due anni”.

Forse è vero, non bisogna chiedere troppo alla politica. E d’accordo, anche i ministri sono esseri umani con le loro fragilità. Ma sperare che arrivi qualcuno interessato alle prossime generazioni, oltre che alle prossime elezioni, continua a sembrarmi sano oltre che lecito.

In hoc signo

Il mio viaggio è agli sgoccioli. Ancora una tappa in Liguria. Un’altra in Puglia, nella bellissima Libreria Francavillese(qui ho visto, dunque posso testimoniarlo, la libreria trasformarsi in sala da pranzo subito dopo la fine di una presentazione, un tavolo, dieci sedie, una tovaglia a scacchi: da tempio del sapere a culla della convivialità senza cambiare i protagonisti dell’uno e dell’altra). Poi a Città di Castello, dove Lorenzo Alunni, Andrea Tafini e un pugno di altri tifernati (così si chiamano gli abitanti di questa cittadina) riuniti sotto l’associazione culturale Il Fondino organizzano CaLibro, altro festival letterario a misura d’uomo (quest’anno c’è Antonio Moresco che legge nella maestosa Collezione Burri). In certe tappe parlo dei miei libri. In altre, di libri altrui. Oppure torno in Calabria per una scommessa bella e pericolosa con Piccoli Maestri: raccontare ai ragazzi di quarta superiore Viaggio al termine della notte di Céline. Presentare il dottor Destouches come il paladino degli oppressi, e subito dopo come un collaborazionista. O invece ne approfitto per visitare ancora un’altra libreria, la sede di un altro comitato di lettura. Quando la curiosità del mondo diventa malattia?

Ogni tanto ricevo una telefonata. Mi chiedono che fine ho fatto. La primavera è tornata a scaldare i nostri borghi, le nostre città scassate, ma anche la segreta speranza – ciclica a levarsi come la bandiera bianca del comune di Roma sui crateri nell’asfalto, sui barboni che vomitano a piazza Vittorio – che un cambiamento arriverà. Sette mesi che giro senza dormire più di tre giorni nello stesso posto. Non ho parlato in queste cronache del mondo editoriale che frequento dal 1998, degli scrittori e dei poeti che con i loro libri e le loro vite (in genere più strozzate che ben organizzate, più autodistruttivamente furbe che produttivamente furbe, senza che io trovi nell’una cosa o nell’opposta una patente di nobiltà) danno credito alle mie speranze nel presente. Il nostro tempo esiste. Ho invece parlato di certi librai, di certi operatori culturali che conosco meno, persone con cui non avevo di solito mai pranzato prima di incontrarle in questi mesi, né probabilmente ci andrò mai in vacanza, né dormirò con loro nella stessa stanza o letto (chiarisco: in ambito editoriale fino a una certa età anagrafica lo si fa più per spartire spese che per unire umori), in modo che la sorpresa, l’alterità, l’estraneità giocassero un ruolo decisivo. La vita è l’arte dell’incontro, diceva la canzone.

Avrei potuto tenermi fuori dalle loro storie, starmene chiuso in casa. Ci ho riflettuto in certi inevitabili momenti di sconforto (”La vita è un risveglio triste in un treno all’alba”, questo invece è Sandro Penna; e ancor più triste il risveglio in una camera d’albergo affacciata su un parcheggio desolato, all’ombra di qualche rilievo appenninico incorniciato d’anticorodal che dell’Italia mostra giusto il punto cieco e non la ricompensa). Non partire. Invece ho fatto il contrario.

Oltre ai motivi elencati, cos’altro mi porta a scrivere alla luce livida di quelle stanze, oppure, come faccio proprio adesso, seduto per terra, in un corridoio dell’ennesima stazione (sala d’aspetto chiusa per ristrutturazione o truffa), in attesa del prossimo treno mentre fuori cade la calda pioggia di primavera?

E poi mi capita l’ultima cosa che avrei voluto succedesse. Notturno pugliese. Dopo avere visitato l’ennesima libreria, mentre guido in una strada di campagna completamente buia su un’auto presa in prestito, metto sotto un gatto. Sbuca all’improvviso dalla campagna, si scaglia al centro della carreggiata proprio mentre passo io. Sterzo d’istinto, rischio di finire fuoristrada, non mi riesce di evitare l’impatto. Sento il colpo. Proseguo in stato catatonico per un minuto buono. Amo i gatti e li amerò per sempre. Ho scritto su di loro. Ne ho avuti molti (ricordo un gatto bianco strappato alla setticemia, sempre malaticcio, accudito con ostinazione per cinque lunghi anni). Non potevo evitarlo, eppure ne ho probabilmente appena ucciso uno (ma se anziché sterzare, quello stesso istinto mi avesse fatto inchiodare? Se anziché rischiare di finire fuoristrada fossi davvero finito fuoristrada? Se avessi rotto la macchina, se mi fossi fatto magari anche un po’ male ma avessi evitato di colpirlo, o lo avessi colpito con meno violenza? Di cos’è fatto questo mio istinto che per paura di perdere tutto rifiuta di ripartire il danno in parti uguali?)

La strada è immersa nel silenzio. Passa il minuto ed esco dallo stato di ipnosi. Allora freno, faccio inversione a u, torno indietro. Non so cosa augurarmi. Se il gatto è agonizzante dovrò caricarlo in macchina – ma avrò la fermezza, lo stomaco per fare ogni cosa come si deve? –, dovrò cercare un veterinario. Dove trovarlo a mezzanotte passata nella campagna intorno a Ostuni? Di sicuro morirà sul sedile, e allora sarà ancora più tremendo. Ecco, lo vedo. Accosto, tiro il freno a mano e scendo dalla macchina. Sento subito il freddo pungente, i sensi avvertono il pericolo: se dal buio sbucasse all’improvviso un’altra auto? Fare a me quello che ho fatto al gatto. Rientro prudentemente nell’abitacolo, accendo le quattro frecce. Torno con i piedi sull’asfalto. Illumino la carreggiata con il telefonino, cerco sul manto compatto della strada. Rieccolo. Il gatto è bianco con qualche macchia grigia. Inequivocabilmente morto. Venti anni di patente e una cosa del genere non mi era mai successa. Penso di essere stato punito per non aver sepolto il pettirosso morto nella villa sullo stretto di Messina. Ma che punizione è mai quella che fa morire un innocente? Da megalomani pensarci. Intanto con cautela tolgo il gatto dal centro della strada per evitare che altre auto si accaniscano sul corpo, e forse per trovare uno scarico di coscienza (restare scissi è la nostra dannazione ma pure una risorsa). Resto in silenzio. Penso che se voglio avere la speranza di pareggiare i conti dovrei almeno diventare vegetariano. Mi viene in mente Dimensioni, il meraviglioso racconto di Alice Munro, dove la protagonista salva una vita per espiare la colpa di suo marito che tempo prima le ha ucciso i figli. Lì un’innocente prova a emendare le colpe del mostro che le ha distrutto la vita. Sono decisamente lontano da quel tipo di profilo. La verità è che l’unico modo per non investire il gatto sarebbe stato non partire. Starsene a casa, non intraprendere il lungo viaggio degli ultimi mesi. Non esserci.

Metto in moto, ingrano la prima, riprendo a muovermi nella notte di fine marzo.

Sbagliare, penso costernato. È il rischio di chiunque decida di appartenere a questo mondo. Personalmente, non conosco altro sistema per farlo (sbagliare e stare al mondo) se non dedicandosi a ciò che più ci sta a cuore. È questo il vero banco di prova. Su questo siamo chiamati a misurarci. Il resto non è vacanza o estasi (Carmelo Bene pagava ogni sera le proprie con la vita) ma una pavidità che non ammette rischi. Ho investito un gatto tornando da una libreria, porca puttana. Qualcuno potrà considerarlo un evento insignificante, ma io sento di appartenere alla poesia di Simon Armitage (”non è quello che fai / ma quello che fa a te”). Incontrare persone. Discuterci. Litigarci. Oppure entrarci in confidenza, arrivare a volersi bene. E poi sbagliare ancora. L’alternativa è chiudersi in una torre d’acciaio, su una montagna altissima o in una nuvola rosa. Ma un errore resta un errore, e non si emenda per il fatto di essersi messi nelle condizioni di commetterlo.

Ho l’impressione che la vita sia diventata un mestiere sempre più duro. Si lavora come pazzi per continuare a fare ciò che fino a qualche tempo fa costava sempre molto, ma giusto un po’ di meno. Mandiamo avanti ciò che per noi è fondamentale, e nel frattempo dobbiamo ricucire strappi che altrimenti impedirebbero il cammino quotidiano. Si prova, quando si è al meglio, a dare spazio al proverbiale non inferno delle Città invisibili. Ma ciò che veniva ritenuto sufficiente a fare il tentativo, adesso non lo è più. Le mareggiate di senso opposto sono continue e violentissime. Dovresti metterci ancora più energia. In questo modo si riduce la possibilità che – dall’allentamento delle tensioni – si apra lo spiraglio necessario a uno scambio autentico. Bel paradosso: evitare il naufragio aumenta le probabilità di diventare meno umani.

E tuttavia di spazi simili bisogna andare a caccia, meritarseli oltre i propri limiti (significa cercarli irragionevolmente), quindi abitarli per quello che è possibile. Mettersi nelle condizioni di fare un danno, considerare quel danno un errore (un’ingiustizia di cui siamo partecipi) perfino quando era inevitabile. Quindi mettersi ancora nelle condizioni di sbagliare, ma questa volta non sbagliare.

A Ponte Milvio stamattina c’è un sole virginale. Carmelo, il factotum della libreria Pallotta, parla al telefono con l’ufficio stampa di una casa editrice. Vuole convincerlo a mandargli uno scrittore per la prossima edizione di Libri a Mollo. A pochi metri da qui, millesettecentotre anni fa, l’imperatore Costantino fece il famoso sogno. Il prodigio di Carmelo è essere almeno due persone in una. Mentre convince l’ufficio stampa, con il taglierino apre i cartoni pieni di libri arrivati stamane col corriere. Chiude la comunicazione telefonica. Beve un caffè. Poi tira fuori vittorioso da un cartone la nuova edizione di Finzioni di Jorge Luis Borges, bella fresca di stampa. “In hoc signo vinces”, ammicco. “Oppure”, ribatte, “aiutami a scaricare gli altri libri”.

Nicola Lagioia è uno scrittore. Ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 con il romanzo Riportando tutto a casa. Il suo ultimo romanzo è La ferocia (Einaudi 2014), con il quale è candidato al prossimo premio Strega.

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