07 aprile 2015 19:39

A volte, come per miracolo, la letteratura giuridica, specie nei suoi elaborati internazionali, raggiunge vette di nitore assoluto. E la limpidezza delle formulazioni assume una esattezza matematica. Tale è il caso della definizione che si trova nell’articolo 1 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 e ratificata dall’Italia nel 1988. Leggiamo quelle parole:

Il termine ‘tortura’ indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.

C’è tutto in questa definizione. Ma si noti, in particolare, la rilevanza data a quelle che vengono dette “sofferenze mentali”, dove si ritrova l’intera storia degli universi concentrazionari creati dai dispotismi del novecento; e l’uso antiumano delle moderne discipline della psiche, piegate a strumenti di coazione e di annichilimento della personalità.

Le lesioni fisiche precedono, accompagnano e seguono le parole e gli atti che mirano a coartare o a manipolare la volontà del torturato e a mortificarne la dignità. Ma vivono, quelle violenze “mentali”, anche di una loro autonomia: ovvero non necessitano del parallelo ricorso alla costrizione fisica per risultare efficaci.

Quel termine appena sopra ricordato – dignità, appunto – corre sotterraneo tra le righe della definizione di tortura prima citata e diventerà, negli anni successivi, pietra angolare e cartina di tornasole nell’intero dibattito contemporaneo sui diritti fondamentali e sulla loro violazione.

La domanda a questo punto ineludibile è: perché tutto questo non vale per il nostro paese? Perché l’Italia, dopo ventisette anni dalla ratifica della convenzione dell’Onu, non ha ancora introdotto nell’ordinamento il reato di tortura? La prima risposta è semplicissima. Perché la società italiana nel suo complesso – classe politica compresa – ha paura della polizia. Sì, è proprio così. Non teme le forze di polizia in quanto strumento di repressione della illegalità e del crimine e in quanto titolari esclusivi del monopolio legittimo della forza. Se così fosse, ad averne timore sarebbero solo coloro che vivono nella illegalità e nel crimine (tutto sommato una piccola percentuale di cittadini).

Il fatto grave, che spiega tante cose e anche la mancata introduzione del reato di tortura, è che resiste nel paese, e nei suoi gruppi dirigenti, una forma diffusa di preoccupazione non per ciò che le polizie, in nome e in forza della legge, possono compiere, ma per ciò che possono compiere contro la legge.

È come se la classe politica, in particolare, non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva dalla legge, ne temesse le reazioni incontrollate. Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica che pone come prioritario l’obiettivo della stabilità e della compattezza delle stesse forze dell’ordine, anche quando ciò vada a discapito della correttezza e della piena legalità del loro agire. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e impedisce la trasparenza, che rafforza le tendenze all’omertà e ostacola qualunque processo di seria autoriforma.

Non si spiega altrimenti l’opposizione da parte dei membri delle forze di polizia e dei loro sindacati e, forse ancor più, da parte dei ministri dell’interno, della difesa e di tanti esponenti politici, all’introduzione del reato di tortura e del codice identificativo per gli operatori di polizia in servizio di ordine pubblico (misure adottate nella gran parte dei paesi europei).

Come non capire che tortura e codice identificativo sono dispositivi a tutela del prestigio del corpo e dell’onore della divisa e contro quegli uomini in divisa che disonorano il corpo cui appartengono? È interesse, in primo luogo delle polizie, partendo dall’assunto che la responsabilità penale è personale, far sì che gli autori di illegalità e violenze siano individuati e sanzionati in maniera adeguata allo scopo di distinguerli nettamente dalla gran parte dei loro colleghi che, di illegalità e violenze, non si son resi in alcun modo responsabili.

Come non capire che negando la possibilità di individuazione e di sanzione per i pochi colpevoli, si finisce con l’omologare nella colpa chi è innocente a chi non lo è?

In ogni caso, da oggi la classe politica dovrebbe avere maggiore difficoltà a eludere la questione. Ancora una volta tocca alla Corte europea dei diritti umani richiamarci ai nostri obblighi internazionali. Con la decisione di oggi l’Italia non è stata condannata solo per le responsabilità specifiche di chi inflisse maltrattamenti e torture al signor Cestaro e ai suoi compagni di sventura, né solo per le responsabilità di chi ordinò, coprì e giustificò quelle violenze.

L’Italia è stata condannata anche per l’assenza di rimedi giurisdizionali interni: per il fatto, cioè, che le vittime di quelle torture non hanno potuto avere giustizia davanti alle corti nazionali. E non certo per negligenza della magistratura, ma semplicemente perché l’ordinamento giuridico italiano non prevede il reato di tortura.

A questo punto la classe politica e le istituzioni non possono più sfuggire ai loro doveri: come per il sovraffollamento penitenziario, si deve adempiere alle richieste della Corte europea. In questi giorni alla camera è in discussione la proposta di legge istitutiva del reato di tortura già approvata dal senato. Non è più possibile girarci intorno.

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