02 maggio 2015 12:38
Aldo Busi nella sua casa di Montichiari, nel 2010. (Pigi Cipelli, Mondadori Portfolio)

“Tre ore di treno fino a Verona…”.
“Cambio per Desenzano, da Desenzano in taxi fin…”.
“Ecco. Ma chi gliel’ha fatto fare?”.
Prendo un respiro. Penso che togliere le zavorre a un’iperbole è l’unico modo per scoprire se era una verità in maschera. Lo dico.
“Venirla a trovare a Montichiari è come essere andati a Londra per incontrare Dickens”.
“Con la differenza che da queste parti ci sono molti meno poveri”.

Aldo Busi sorride soavemente e scalda il caffè che aveva preparato – mi rendo conto – ponderando al centesimo il mio arrivo, e infatti (calcolo a mia volta quando la fiamma si abbassa) avrebbe smesso di gorgogliare a pochi istanti dal mio indice sul campanello se il tassista non avesse sbagliato strada nel tragitto.

In effetti con un Ryanair da Ciampino sarei arrivato al London city airport nella metà del tempo. Ma a quel punto – mostra di Alexander McQueen al Victoria and Albert museum a parte – che senso avrebbe avuto la giornata? Nessuno scrittore inglese oggi (Julian Barnes? Martin Amis?) sarebbe per me interessante quanto Busi.
L’esterofilia è il cancro del provincialismo, anche se metropolitano. Ho detto Dickens e Londra ma – nel gioco dei paralleli e delle finte e vere iperboli, che se non fosse tale farebbe torto a chiunque – sarebbe stato più consonante parlare di Verdi e di Busseto. Altra malattia nazionale: sminuire la statura dei viventi quando è irraggiungibile dalla sovrapposizione di tante mezze tacche gallonate.

Busi è il contemporaneo che la distrazione di massa italiana non merita. Anche Verdi veniva da una famiglia di osti, fece una gavetta durissima, tornò in provincia a cavallo del successo, ma soprattutto fu popolare (intendo l’arte, non la ricezione) nel senso più alto del termine, poiché seppe catturare lo spirito di una comunità nel tempo, bucare la crosta ordinaria di una cultura (regionale, quindi nazionale, vale a dire europea), immergersi nella fossa delle Marianne per tornar su carico di ori. Busi lo fa da una trentina d’anni.

A parte le ragioni personali (libri come Sodomie in corpo 11 o Vita standard di un venditore provvisorio di collant arrivarono al ragazzo che sono stato con un tempismo che potevo opporre a tutti con orgoglio sprezzante fatta eccezione a chi quei libri li aveva scritti), all’opera di Busi l’Italia deve molto.

Un pezzo impeccabile
Basterebbe la lingua che – tra le sue mani – è ancora una questione nazionale aperta. Il più squillante what if che in effetti risuona dalle pagine migliori del sessantasettenne che ho davanti è: cosa ne sarebbe stato dell’italiano se a un certo punto la nostra lingua avesse imboccato la via di Boccaccio anziché quella di Petrarca, se avesse cioè conservato la sua forza materica e la sua viva complessità, libera dalla padronalità curiale, poi leguleia, poi accademica, poi ministeriale, infine televisiva e dunque non più l’autobiografia del popolo sovrano che non c’è ancora ma il guaito delle plebi di ogni censo e condominio sociale?
“Voglio farle vedere una cosa”.

Gli ho appena detto che Vacche amiche, il suo ultimo libro, mi è piaciuto moltissimo, ma non riesco a esporgli almeno uno dei motivi (nel corso della giornata capirò che in Busi ogni sollecitazione che lui non lasci cadere porta istantaneamente a favore di luce una catena di pensieri che andavano formandosi in una zona incondivisa, così ogni volta è un po’ la magia di vedere il coniglio prima del cilindro) perché mi interrompe: “Lo sa che sono tra quei pochi che correggono i propri testi persino dopo averli pubblicati?”.

In questo modo lascia che io veda “una cosa”. Mi porta dalla cucina al suo studio, spalanca il portatile ed ecco. “La prego, si metta comodo”.

Sta riscrivendo Vacche amiche a sole quattro settimane dall’uscita. Quello che mi sottopone è un brano nuovo. Lo ha scritto questa notte. “Bene, parte da qui”. Vuole che lo legga. “Senta, non è ancora un pezzo del tutto lavorato…”.

Altro insegnamento: la generosità. Ammetto che l’interruzione (mi ero preparato tutto un discorso su Vacche amiche) un minimo mi era dispiaciuta. Basta riporre la cattiva vanità per stringere però la ricompensa. Quale altro scrittore avrebbe il fegato di fidarsi di un mezzo sconosciuto (in dieci anni ci siam fatti solo due lunghe telefonate, per quanto assai piacevoli) condividendo con lui qualcosa che ha finito di digitare sulla tastiera poco prima? Il pezzo è impeccabile.
“Ma a che ora lavora?”.
Sveglia ogni notte intorno alle tre, racconta, e da lì avanti a scrivere fino alla mattinata.
“Orario balzachiano”.

Questa la lascia cadere. Ma dice invece: “Senta, ma perché non usciamo? Guardi che bella giornata. Ho voglia di mettermi delle peonie in casa. E siccome qui a Montichiari c’è un tale che ne ha di bellissime in giardino, andiamo a chiederne qualcuna”.Devo avere uno sguardo un po’ spiazzato, allungo istintivamente la mano verso i fogli su cui avevo preso appunti.
“Li lasci perdere, non se li porti dietro!”.
“Ho paura di dimenticarmi qualcosa”.
“Se la dimentica, significa che non era poi così importante”.

Cogliere il volo e l’occasione
Una normale intervista. O un giro con Busi per le vie di Montichiari. A differenza del canarino cui è stata aperta la gabbia da cinque minuti senza che nulla accada, ci metto un niente a cogliere il volo e l’occasione: in pochi secondi siamo fuori.

E mi ci sono voluti molti anni ancora per rendermi conto che il mio dolore era un dolore tutto sommato occidentale e ormai privilegiato, un dolore che non usciva da una guerra, da una fuga fortunosa da un paese martoriato, da una traversata stipato con centinaia d’altri su un barcone che fa acqua, non sapevo che esistono dolori mediorientali e africani immensamente più grandi del mio e poi triplicati dalla malasorte di spiaggiare in Italia.

Ecco una delle novità dell’ultimo libro, riesco a dirgli quando siamo in strada. Il fatto che la voce narrante (a differenza di quello che avrebbero fatto gli eroi di Seminario sulla gioventù o Vita standard) eviti di attribuirsi l’esclusiva titolarità di un dolore immeritato. Addirittura non è il dolore più difficile da superare. Ce ne sono di peggiori e non ci appartengono. Busi ha definito Vacche amiche un’autobiografia non autorizzata. La mancanza di indulgenza qui è un aerostato che prende quota grazie al tempo bruciato alle spalle.

“Sa”, risponde, “quando sei giovane ti sembra di avere il monopolio di tutto. Sei il solo a essere omosessuale. Sei il solo a patire. Sei il solo ad avere il papà cattivo. Sei il solo ad avere problemi sul lavoro. E magari il problema è che non c’è nessuno che ti aiuta a decentrarti”, pausa, “le cose che in vecchiaia scopri sulla tua stessa gioventù son sconvolgenti”.

In effetti la giornata è magnifica. Il sole risplende sui campi attraversati dal fiume Chiese. Vecchie costruzioni in lontananza stampate nell’azzurro. La primavera è ovunque. Davanti ai nostri sguardi mi sembra tuttavia di cogliere un che di Paperopoli. In questa zona, Montichiari è fatta di villette ben tenute e silenziose, viali alberati, stradine che curvano su piccole isole di verde e poi un bar, un alimentari. Gli uccellini cinguettano. Un cane abbaia da qualche parte. Il paese, come diceva prima Busi, è di quelli risparmiati dalla crisi.

Sto per chiedergli cosa significa per lui essere “di sinistra e anticomunista”, quando dalla strada spunta un’utilitaria tutta rossa, una di queste Panda della Telecom che sembrano giocattoli. Il guidatore si sbraccia dal finestrino. L’auto rallenta, accosta. Dall’abitacolo spunta la testa di un trentacinquenne tutto sorridente.”Aldo!”.
“Eh”.
“Ti disturbo giusto un secondo”, accento veneto, voce squillante.
“Non mi disturbi”.
“Ti regalo un libro di poesie mio”.
Dalla Panda giocattolo spunta magicamente fuori la plaquette.
Busi è prontissimo: “Ma guarda che il regalo te lo faccio io a prenderlo”.
“Ue’ infatti. Probabilmente lo userai come carta igienica”. Busi non raccoglie. Questo lo si capisce già leggendolo: può tirarti un chicco di sale in una ferita aperta, ma non presterà il fianco al tuo se inizi a martoriarlo nella speranza di ottenere un vantaggio retorico. Cambia discorso. “Ma tu te ne vai in giro con i tuoi libri di poesia? Ma quanti ne hai?”.
“Ne ho anche altri. Se vuoi te li do”, poi ancora, “li usi come carta igienica”. Busi sorride, non abbassa a sua volta lo sguardo perché vorrebbe dire legittimare la debolezza del ragazzo della Telecom con una propria simulata. Infatti quello rimette in moto.
“Ciao!”.
“Ciao!”.
Proseguiamo la passeggiata alla ricerca delle peonie.

Per essere di destra basta essere un onesto trucido nella biosintesi che si accetta per quel che è, tipo i leghisti e i berlusconiani e i grillini, o, se di sinistra millantata, tipo i dalemiani e i bertinottiani e i renziani, basta essere fatalista da Realpolitik come tutti gli ipocriti mediamente istruiti, mentre per essere di sinistra senza fallo occorre ben di più di un onesto: occorre un martire, un eroe, un santo della laicità più anticlericale che esista, uno rivoltato nel suo stesso dna, un pirla felicemente indefesso, un autoflagellatore che gode troppo per rinunciare ai suoi ideali messi in pratica in cambio dei banali e sinistri piaceri degli ambidestri. Io sono di sinistra.
E visceralmente antifascista.
E anticomunista, ci mancherebbe.

Stelle polari
Lo stato di natura per gli altri animali rappresenta la normalità. Per noi sarebbe invece la barbarie, e quando davanti al mai definitivamente superato bivio con la civiltà prendiamo la strada giusta è perché abbiamo avuto la forza di sabotare in noi un riflesso che ci appartiene dalla notte dei tempi. Busi la chiama “autoviolenza etica”, è una delle stelle polari di Vacche amiche (nota: “pirla” nel vecchio dialetto lombardo significa “trottola”, e messo dopo quel “rivoltato” nell’elica del dna dà un’idea del senso per la lingua di quest’uomo).

Dall’etologia alla politica il passo è breve. Sono le chiese il nemico per Busi. Le religioni, non necessariamente la trascendenza (”vede, quella è una cosa privata, in cui non ha molto senso sindacare”). Il comunismo è stata una delle due chiese del paese nel secondo novecento (”il prosieguo del fascismo democristiano, si sa, non è stato tanto il berlusconismo quanto il cattocomunismo”) e se è vero che “bisogna avere i coglioni per prenderla nel culo”, di comunisti con il culo degli altri son pieni i borghi, ma non il suo orto.

Così Busi mi racconta una storia di cui sapevo già qualcosa. Tempo fa, in una sua casa di Brescia, ospitò un gruppo di profughi in fuga dalla ex Jugoslavia martoriata dalla guerra civile.
“Otto anni, li ho avuti in casa. Senza farmi pagare mai una lira. Li ho mantenuti: luce, acqua, gas. Ho cercato di mandare i loro bambini a scuola, gli pagavo il dentista. E ho fatto tutto questo in terra leghista e democristiana. Il risultato è che la comunità prese a odiarmi. Si rende conto dell’esempio che davo? Lei non sa le angherie… Me ne hanno fatte di tutti i colori perché andavo a infrangere i tabù della proprietà privata. A un certo punto tutto il comune di Brescia mi era contro”.

Come a dire che essere di sinistra significa fare la rivoluzione subito, disposti a rinunciare a qualcosa di proprio qui e ora, mentre il comunismo (chiesa a parte) rimanda alle prossime generazioni l’attuazione di una predica che – fin quando è un flatus vocis o lettera morta su un piano quinquennale – consente di razzolare secondo opportunità.

Visto che siamo in argomento immobiliare, gli chiedo da quanto tempo è tornato a vivere a Montichiari.
“Ah, saranno una ventina d’anni. La casa l’ho comprata dietro suggerimento di mia madre. Abitava proprio sopra dove sto io adesso. Un giorno dice: ‘Guarda che stanno vendendo quegli appartamenti lì’. E io: ‘Mamma, ma è troppo grande, che me ne faccio?’ Lei: ‘Sai l’invidia della gente’. Allora l’ho comprata subito”.
“Ma non è rimasto fisso a Montichiari”.
“Viaggiavo molto. Percorsi completamente diversi da quelli che faccio ora. Erano viaggi avventurosi, anche pericolosi. Adesso vado all’estero per tenermi in esercizio con le lingue straniere, in fondo sono viaggi da turista”.
“A un certo punto abitava anche a Roma, a San Lorenzo”.
“Sì, ma non uscivo mai di casa. Guardi come sono ingrassato!”.
Si allontana di tre passi e continua a camminare rasente i fiori dei giardini privati perché io possa vedere meglio la stazza.
“Voglio ingrassare ancora, voglio diventare come Marlon Brando alla fine”.
Non dico niente. “Ma no”, fa lui, “adesso mi rimetto a dieta”.
“Anche perché se diventa troppo grasso poi è pericoloso per la salute”.
Si riavvicina. “La salute… ma sa, io non sono un uomo felice, e allora qualche volta mi verrebbe da non fare neanche le visite mediche. Assecondare l’ineluttabile…”

Un’ombra mi vela lo sguardo. Vorrei rispondere con Flaubert (”per essere felici bastano tre cose: stupidità, egoismo e buona salute. Se però manca la prima, le altre due non servono a niente”), ma invece fingo l’azzardo giocando sul sicuro. “Dica la verità, quando sta per finire di scrivere un libro alla salute ci pensa eccome!”.
“Oh, assolutamente!”, si ferma sul posto, “quando sto chiudendo un libro non vorrei mai morire, divento autoprotettivo, potrei chiudermi in casa per non correre rischi di…”.
“ALDO!”.
Una voce femminile. Anzi, un urlo. Non si capisce da dove venga.
Aldo Busi si gira da un lato, io dall’altro. Siamo in mezzo alla strada, un po’ disorientati.
Poi ancora: “Aldo!”. Ecco. La voce arriva da una casetta qui vicino. Busi mette il piatto della destra sulla fronte per schermare il sole. Guarda in direzione del balcone. C’è una signora che si sbraccia. “Ueee!”, anche Busi allarga le braccia, risponde al saluto. La signora scoppia in una risata fragorosa. È il segnale. Busi si dirige a passo svelto verso la casa, “venga, venga!”, mi fa.

La signora scende ad aprirci il cancelletto. È una delle parrucchiere storiche di Montichiari. Lei e Busi si frequentano da quando erano ragazzini. Hanno in comune diversi fratelli e sorelle di latte. Lei è bionda, oltre i sessanta penso (scoprirò che ne ha 77), una faccia aperta, molto allegra. Ma anche potente. Oltre a fare ancora la parrucchiera (mi racconterà poi Busi) un paio di volte all’anno lavora come guida turistica, accompagna la gente (”pensionati per lo più”) in giro per l’Europa.
I due si abbracciano.
“Come ste?”.
“Bene, grassie!”.
Busi fa le presentazioni.
“Pensa te, lui si chiama Lagioia: che cognome!”.
“Simpatico!”.
Iniziano a parlare fitto fitto in dialetto. Busi traduce in mio soccorso.

L’atmosfera non è semplicemente cordiale. È piena di affetto e di premura, ma di toni molto verticali, virili. A tratti ruvidi. Così, tipo madeleine dell’ora prima, metto meglio a fuoco la sensazione (diversa ovviamente da questa, ma imparentata) che Aldo Busi mi ha trasmesso quando, nel suo studio, era alla ricerca di una sedia (c’erano due appoggi, entrambi a portata di mano, e nell’impercettibile indecisione della sua, di mano, il calcolo non di routine su quale potesse andare meglio per me) perché mi mettessi comodo a leggere quel che aveva scritto. Così capisco che il mio gesto (l’ho anticipato afferrando una sedia a caso, un rompere gli indugi anche questo giocato sul fil di lana dei centesimi di secondo) voleva essere la premura che – tacitamente – ne rispondeva a un’altra.

Se penso a un compagno ideale di viaggio, vedo una fetta di salame tagliata di sbieco vorticare nello spazio, come se fosse l’anamorfosi in un quadro visto andandogli di lato e il vero soggetto che del quadro non si vede standogli di fronte, come se il vero quadro stesse occultato nel quadro che ne diventa solo la depistante cornice entro la cornice vera e propria, ma non so dire perché, quindi dovrei tacermi, ma se mi taccio non richiamerò mai le parole ora sconosciute che mi avvicineranno sempre di più al perché di questa grottesca e ingiustificata visione obliqua.

Busi e la sua amica continuano in dialetto i loro scambi. Parlano di acciacchi, ricoveri ospedalieri, malattie a cui nel tempo sono sopravvissuti loro o certi loro conoscenti, si informano su qualcuno che nel frattempo è morto, senza mai perdere il sorriso, mostrando i denti.
Poi la signora: “Volete vedere la piscina?”.
Busi: “Te sei fatta la piscinina?”.
Lei: “La piscinona! Su, venite a vederla!”.

Ci fa entrare in casa. C’è un televisore acceso. Nel soggiorno due specchi montati sulla parete sotto i quali ci sono due tavolini a mezzaluna. Dal che ne ricavo (senza bisogno di vedere le forbici o i flaconi) che lei lavora in casa. Usciamo dalla parte opposta, sul giardino occupato in effetti quasi per intero da una piscina gonfiabile.
Busi: “Ma è grandissima! Ma potresti metterci dentro dei pesci rossi! Già ce n’è un po’ secondo me…”.
Lei: “Ma no!”. Ride.
Busi: “Che cosa sono quelli, kiwi?”, indica una cassetta dove ci sono dei frutti mezzi marci.
Lei: “Sì, devo buttarli”.
Busi: “Ma scusa, non avresti potuto darli alla Caritas?”.
La signora risponde indignata qualcosa in dialetto. Busi mi sussurra la traduzione: “E la Caritas a me che mi dà in cambio? Capito?”. Poi si rivolge ancora a lei: “Noi andiamo via. Sai dove? Dove sta (pronuncia un cognome) che ha in giardino una distesa di peonie. Me ne regala sempre. E senti… dammi tre limoni ché mi servono”.
Rientriamo in casa, torniamo nel giardinetto sull’ingresso dove una pianta di limoni sbuca da un vaso gigantesco. La signora ne stacca cinque con le forbici: “Consiglio: provate a mangiarli con l’olio e il sale”.
Io: “Ma solo la polpa…”.
Lei: “No, tutto, anche la buccia! Olio e sale”.
Busi: “Ma va’… Che meraviglia! Comunque bellissima proprio questa pianta di limoni. E come fai quando sei via?”.
Lei: “La metto in cantina”.
Busi: “Ma peserà tantissimo”.
Lei: “La faccio mettere in cantina da mio genero”.
Busi: “Ah, giusto. Lo sai cosa diceva una mia amica? Diceva: l’unica ragione per avere un uomo è perché è utile a portare fuori e dentro le piante”.
Rido.
Lei: “Io son vent’anni che sono vedova”.
Busi la butta lì: “Sì, ma tu ricevi ogni tanto…”.
Lei fa un salto sul posto: “Seee!”.
Busi: “Di’ la verità…”.
Lei: “Aldoh!”, è rossa in faccia, sfoggia un sorriso meraviglioso, “no, no, guarda… mio marito è stato il primo, e anche l’ultimo!”.
Busi (senza scomporsi): “E basta?”.
Lei: “E-bas-ta. Sono una donna come quelle d’una volta”.
Busi (rivolto a me): “Insomma, la fa annusare ma non te la dà”.
Lei: “Neanche annusare”.
Busi: “Ma tu sei stata sempre molto elegante, però… gli uomini ti guardavano, e a te piaceva, naturalmente, però il tuo godimento era diabolico: guardate e non toccate… Eri innamorata di tuo marito?”.
Lei (seria): “Molto”.
Busi: “E lui è stato buono con te?”.
Lei: “Sempre… sempre…”.
Busi: “Be’, ora andiamo. Salutiamoci”.
Abbraccio la donna. E Busi: “La baci, sarà come baciare una vergine di ritorno”. E lei: “Io sono ancora vergine!”.
Busi: “Questa me la racconti un’altra volta”.

La cosa meravigliosa dello scambio (spero di averlo reso un minimo attraverso il dialogo) è che nessuno stava mai sopra o sotto. La donna non trattava Busi dal grande scrittore che è, lui a sua volta non aveva bisogno di scendere da alcun gradino perché era implicita l’orizzontalità del piano condiviso tra due umani che si rispettano e quando capita si scambiano il bene necessario. Niente di più, per fortuna.

Un esercito di scalpellini
Non so se con gli altri monteclarensi i rapporti siano questi. Se così fosse, Busi sarebbe molto meno solo di ciò che sembra leggendo i suoi ultimi libri. Abita da solo. Non ha compagni o coinquilini. Fa una vita da monaco ateo: non sesso, non viaggio, e scrittura. Ma intorno non ha il deserto o un’arena. Nell’arena ci si arriva semmai infilando i nastri autostradali che scorrono a pochi chilometri. Milano, Roma. I giornali e le case editrici. I salotti letterari che non frequenta. E il Palazzo, che raderebbe al suolo per poi ricostruirlo da volontario in un esercito di scalpellini ispirati ai canoni della Città Ideale.

A Montichiari la musica è diversa. Ho l’impressione che ciò che c’è qui intorno lo protegga senza stringerglisi troppo addosso, e forse addirittura gli voglia bene. Ci avviciniamo al “giardino delle peonie”. Busi saluta altra gente incontrata per strada. (”Ueee, Aldo!”. “Lui è un altro mio fratello di sangue. E si vede: guarda com’è venuto su ben!”. “Ah ah! Ciao, ciao…”).

Eppure questa un tempo è stata per lui l’Arena. È qui – tra orti, conigli chiusi in gabbie coperte di iuta, salite polverose, canne della bicicletta su cui portare i figli dal dottore – che è cresciuto il Barbino di Seminario sulla gioventù nonché il fanciullo implicito di ogni libro successivo, giocandosi giorno per giorno la sopravvivenza o la resa rispetto al padre, la madre, i fratelli e un’intera comunità che altrimenti lo avrebbe distrutto. La barca che era pronta a rovesciarti in acqua adesso ti sorregge, ma comunque hai imparato a nuotare. Non c’è traccia del Busi televisivo nell’uomo con cui passeggio stamattina.

Mi domando se la sua infiammabilità a favore di telecamera (una per tutte tra le recenti: la demolizione dell’ex ministra Gelmini a Piazza pulita in meno di tre minuti) debba il suo essere istantanea – sacrosanto scontro di idee a parte – allo scattare in forma lucidata di un antico meccanismo. Uno studio televisivo o le colonne di un quotidiano o qualunque piccolo e grande contesto di potere cui siamo abituati possiedono già, introiettato fino a prova contraria, uno spirito sanguinario (meschino e violento come lo stomaco di un maschio medio italiano degli anni cinquanta davanti a un ragazzino a cui piacciono altri maschi) e dunque il fallo di reazione, perfino se anteriore a ciò che lo scatena, sta solo rimettendo le cose nell’ordine ideale.

L’essere umano non avrà altro dio che io, il suo proprio io antiegotico, un dio collettivo, un dio che si afferma per annullarne ogni altro imposto da qualsivoglia altro padreterno, profeta, guru, tiranno, un dio funzionale e democratico e quindi un dio volto a vanificare se stesso a operazione conclusa”.

Ed ecco infine le peonie.
I fiori troneggiano in un lungo giardino rettangolare simile a un campo di calcio in miniatura. Sembrano fatte di luce. A separarci dalla bellezza una grata ridipinta di verde. Il problema è che il proprietario non è in casa. Pazienza, torneremo sui nostri passi senza fiori. “Una fame…”, fa Busi. Quasi ora di pranzo. Passeggiamo verso il centro. Costeggiamo la piazza di Montichiari. Ce ne riallontaniamo e: “Guardi, quello è stato uno dei bar gestiti da mio padre”. Cambiato il proprietario, ha mantenuto il vecchio nome: bar Ferdy. Ferdinanda è la sorella di Aldo.

Il canzoniere introvabile
Stiamo tornando verso casa dello scrittore. Ci affianca un’altra auto, ma in questo caso l’abboccamento era previsto. Si tratta di Flavio Marcolini.
“Marcolini come sei elegante, sembri un mediatore di cavalli”.
“Aldo, guarda che il mercato è domani”.

Ci presentiamo. Professore al liceo linguistico di Montichiari e critico letterario su Brescia Oggi, Marcolini è amico e sparring partner di Busi. “Il patto è che io possa rompergli le scatole sulle pagine che mi manda, e ovviamente lui poi fa le pulci alle mie pulci e certe volte non si finisce mai”. Pranzeremo insieme. Questa è la sorpresa di cui mi sono accorto non appena arrivato. L’ufficio stampa di Marsilio mi aveva detto che Busi per più di un’ora, un’ora e mezza, non era detto che avrebbe voluto intrattenersi. Invece ho trovato la tavola apparecchiata già per tre. La cosa mi fa un gran piacere.

Rientrando in casa, Busi dice che in una mia vecchia recensione a Troppi paradisi c’era un accostamento tra lui e Walter Siti che non gli era piaciuto. Io: “Ho fatto questo parallelo? Non mi ricordo”. Busi: “Sì, a sproposito secondo me” (nel suo tono non c’è nulla di risentito, solo la constatazione). “Possibile?”. Possibile, verificherò una volta a Roma (l’articolo uscì su Lo Straniero quasi dieci anni fa, ed è sorprendente come Busi se ne ricordi, tenendo conto che tra l’altro parlavo di un libro non suo).

Poi dice: “Guardi là”, indica degli A4 poggiati su un mobile in soggiorno. Questa è ancora più strana e spiazzante. È la stampata di una email che gli ha inviato un ragazzo conosciuto a Genova nel corso di una presentazione, contiene una mia recensione a El especialista de Barcelona giudicata (mi dice Busi) da quel ragazzo lì: “Fondamentale”. È davvero tutto troppo divertente. Ma Busi è già in cucina. Ne viene fuori con due bicchieri di pinot: “Bevete”. Li allunga a me e Marcolini, il messaggio è: adesso statevene a chiacchierare di qua e lasciatemi in pace di là a occuparmi di voi.

Il dialogo con Marcolini è assai piacevole. Ci informiamo sulle rispettive vite e professioni. Dopo venti minuti Busi ci chiama dalla cucina: “Su, venite”.
Tagliatelle al ragù. Salame e polenta calda (”si sbrighi altrimenti Marcolini fa fuori tutto”, scherza). Nove uova “appena prese dal contadino” che Busi ci invita ad assaggiare con una salsa (in effetti buonissima) fatta da lui con “tonno, alici, capperi, prezzemolo fresco e appena un tocco di aglio. Ci ho messo quindici giorni per prepararla, ci ho lavorato fino a trovare il punto giusto del suo carattere”. Mangiamo e beviamo e continuiamo a chiacchierare.

Dico a Busi che al suo primo libro ci sono arrivato relativamente tardi. “La vedevo al Costanzo Show e la tentazione di leggerla mi passava”. Lui: “Lo sa perché ci andavo? Quelle cose lì infastidivano i borghesi alfabetizzati”. Racconto un paio di storie mie. Gli chiedo che destino hanno avuto certe querele francamente assurde (la querela in Italia è non di rado uno strumento di intimidazione di cui non fanno a meno anche scrittori e intellettuali) che gli avevano mosso Emilio Riva (”È morto nel frattempo”) e Veronica Lario (”Vinta io e persa lei”).

Parliamo poi di cose personali, Busi mi chiede di tenere magari fuori da ciò che scriverò un paio di vicende che, messe nero su bianco, gli farebbero soltanto onore. Gli fa onore (ho modo di notare più di una volta) il fatto che, quando parla di persone con cui si è scontrato in passato o ha proprio rotto, insieme ai torti ne riconosca anche i meriti senza far pesare la concessione sull’assente. Parliamo del rapporto tra lettore e pagina e dell’autobiografia che, dentro i romanzi, assume (cioè perde) sempre le forme del sesso degli angeli.

Non esiste l’autofiction degli scrittori veri, esiste solo l’autofiction dei non lettori.
Mentre i lettori non lettori vogliono trovare in un libro o uno specchio alle loro paturnie o non vedono niente, lo scrittore vero non si immedesima nel suo ‘io’ più di quanto non si immedesimerebbe in un lavello, che sia sporco o pulito. Uno scrittore vero non è mai autobiografico nemmeno quando lo è, un non lettore lo è sempre e sovrappone la sua biografia – sempre immaginaria e consolatoria, sempre finzione di sé – all’autobiografia dello scrittore che, se è vero, non c’è.

Il pranzo è finito. Busi si fuma una sigaretta. Io e Marcolini commentiamo certi articoli su libri recenti che abbiamo letto in rete. Ancora il tempo per qualche battuta (chiedo a Busi com’è arrivato a Miguel Ángel Martín, il disegnatore di Brian the brain che firma la copertina del Manuale della perfetta mamma, “lei non mi sembra proprio il tipo da fumetto ciberpunk”, e lui ribatte al volo: “Ma è preparatissimo! Sa più cose su di me che su di sé!”), poi, dal momento che non so come abbiamo cominciato a fare un elenco di rarità, ci mettiamo tutti e tre – io, Busi e Marcolini – a cercare in casa una copia di L’amore trasparente, il canzoniere ormai introvabile che Busi pubblicò per Mondadori del 1997.

La caccia è inutile, il libro non si trova neanche qua, ma la luce trasparente che entra dalla finestra rischiarando e spegnendo i nostri corpi a seconda dei movimenti recapita un minuscolo disagio adesso inevitabile. Una sensazione di sazietà, di appagamento, la contrazione fisiologica che certifica come tutti abbiano dato il proprio meglio, e da qui in poi si possa solo perdere quota. Anche una certa stanchezza fisica, il risultato dello sforzo mai scontato di accogliersi l’un l’altro come esseri umani. Marcolini mi guarda. E Busi – tocca a lui tradurre in voce le invisibili “monetine scroscianti su un tamburo” – rompe gli indugi.
“Allora grazie, e a rivederci”.

Ci salutiamo. La giornata è stata bella. Marcolini è così gentile da accompagnarmi in macchina alla stazione di Desenzano. Di lì a Verona, poi ancora un cambio verso sud. Sulla banchina vedo il drago plastificato di Gardaland. Un controllore fuma e urla al cellulare. Nel finestrino scorre già l’Italia senza lingua, il trucido e feroce patrigno che tuttavia nasconde (dunque possiede contro se stesso) i fiumi carsici del suo perfetto opposto.

(Tutte le citazioni sono prese da Vacche amiche).

Nicola Lagioia è uno scrittore. Ha vinto il premio Viareggio-Rèpaci nel 2010 con il romanzo Riportando tutto a casa. Il suo ultimo romanzo è La ferocia (Einaudi 2014), con il quale è candidato al prossimo premio Strega.

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