11 maggio 2021 11:21

Ho letto con attenzione la parte del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che riguarda l’innovazione digitale. Pnrr, ossia l’acronimo onomatopeico che sta per “l’ultima occasione a nostra disposizione per recuperare l’ampia distanza che ci separa dagli altri paesi europei”. L’ho letto accuratamente e poi, dopo averci pensato un po’, ho pensato di non scriverne. Troppo ampio e comunque degno di stima mi è sembrato lo sforzo fatto dal ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao e dal suo gruppo di lavoro, troppo grande la complessità di una manovra ampia e articolata che, per la prima volta da decenni, offre moltissimi soldi per rendere anche l’Italia un paese adatto ai suoi figli. Trovarne i punti di debolezza, inevitabili in uno scenario tanto vasto, sarebbe stato semplice e accademico: non volevo cadere nel tranello di crogiolarmi nella superiorità apparente di chi osserva e critica senza fare.

Poi ho cambiato idea.

La premessa resta valida: il piano Colao è ben fatto. Ha inoltre il merito di tenersi alla larga da una certa retorica modernista che questo paese conosce così bene. Sottolinearne però alcune debolezze potrà forse essere ugualmente un esercizio utile.

Tecnologia e cultura
Poiché ragionare sui massimi sistemi è facile per chiunque proverò – anche per attenuare i miei sensi di colpa – a utilizzare quasi solo esempi concreti. L’unica premessa teorica indispensabile che mi sentirei di fare, che è anche la critica più importante al piano, è la seguente: l’Italia ha un divario digitale peculiare, diverso da quello di molti altri paesi europei; le sue motivazioni sono complesse e discutibili ma comunque differenti da quelle degli altri. Siamo in fondo alle classifiche europee anche e soprattutto per questo.

Cosa significa in concreto? Il divario digitale può essere schematizzato in due sue componenti principali: esiste un divario tecnologico, legato alla disponibilità delle tecnologie ed esiste un divario culturale, legato alla predisposizione dei cittadini a sposare una qualsiasi idea di innovazione e a dominare le tecniche che la sostengono. Le due componenti hanno ovviamente punti di intersezione continui e profondi ma non sono la stessa cosa: si tratta di problemi differenti che suggeriscono soluzioni diverse.

Il primo è un divario che sarà relativamente semplice affrontare – a patto di avere i soldi per farlo, cosa che prima del Pnrr in Italia non è mai accaduto – perché si tratta in fondo di scelte di politica industriale che attengono prevalentemente all’infrastruttura digitale; il secondo è impalpabile e sfumato, attiene alla cultura e alla mentalità degli italiani e come tale sarà difficile non solo da affrontare ma, prima ancora, da riconoscere e ammettere.

La tecnologia è sempre figlia della testa delle persone, separarle sarà impossibile

Il piano del ministro Colao affronta con decisione il divario legato alla tecnologia e si occupa molto meno della parte che riguarda il ritardo culturale dei cittadini. Lo fa – immagino – partendo dalla premessa che ho appena citato: costruire una strada è semplice, cambiare la testa di chi domani la dovrà percorrere è complicato.

Tutti gli esperti di tecnologia che ho incontrato negli ultimi vent’anni hanno sempre ripetuto – mentre io gentilmente scuotevo la testa – l’usuale mantra del tecnologo: costruisci una strada fatta come dio comanda e i cittadini la percorreranno. Continua a dirlo – a suo modo – anche il ministro dell’innovazione in questo lungo documento: così forse occorrerà a questo punto ricordare che esistono molti esempi, nella storia peculiare dell’Italia digitale, che indicano purtroppo il contrario. Il tecnologo ha costruito la strada e il cittadino ha continuato a usare il sentiero in terra battuta.

In Italia – questo indicano i numeri da almeno un decennio – la testa degli italiani alle prese con la tecnologia è assai più importante dell’eventuale disponibilità della tecnologia stessa. Noi però continuiamo a far finta che non sia così.

Carte da bollo
Qualche giorno fa mi serviva uno dei molti complicati certificati che la burocrazia italiana ogni tanto chiede ai suoi sudditi: mi sono collegato fiducioso al sito del mio comune di residenza, da lì sono stato rimandato a un altro sito, mi sono loggato con il sistema pubblico di identità digitale (Spid) e ho avuto accesso all’elenco dei certificati che avrei potuto ottenere subito in formato elettronico.

Il certificato che richiedevo era però in bollo: a quel punto l’“infrastruttura” prevedeva che io abbandonassi la mia postazione, uscissi di casa, andassi dal tabaccaio ad acquistare una marca da bollo e ne aggiungessi il codice alla richiesta digitale. Faccio questo piccolo esempio per spiegare come spesso i due divari digitali siano indistinguibili uno dall’altro: il tecnologo ha costruito una piattaforma inadatta allo scopo, la testa dell’amministratore immerso nel suo divario culturale l’ha approvata e messa online.

Un esempio del genere ricorda uno dei primi esilaranti esperimenti di digitalizzazione dei servizi ai cittadini, messo in piedi e raccontato come grande innovazione dalla polizia di stato molti anni fa: il cosiddetto commissariato online. Da domani, raccontava un decennio fa il tecnologo visionario, i cittadini potranno fare le loro denunce online: il cittadino entusiasta accedeva al sito, compilava tutti i campi e poi veniva invitato a stampare il documento, subito dopo si sarebbe dovuto recare di persona in questura a presentare l’usuale denuncia nelle forme solite. In presenza, come si direbbe oggi.

Detto in altre parole: la tecnologia è sempre figlia della testa delle persone, separarle, per quanti sforzi si decida fare, sarà impossibile. Così un piano di innovazione digitale basato sull’infrastruttura, come quello di digitalizzazione della pubblica amministrazione, incontrerà da noi difficoltà spesso insormontabili.

Neutralità e scuola
Del resto, con quale leggerezza il ministro avrebbe potuto investire miliardi di euro in attività per combattere il divario culturale, battaglia dai tempi lunghi e dai risultati incerti i cui risultati sarà possibile osservare forse fra un decennio? Insomma, mettersi nei panni di Colao di fronte a scelte operative da fare subito, sarà per qualsiasi critico (me compreso) una saggia idea.

Tuttavia, alcune piccole cose il ministro – dentro il lavoro enorme che si è trovato a comporre – avrebbe potuto forse farle. Me ne vengono in mente due, le cito perché entrambe, mentre dicono altro, sottolineano l’importanza del divario culturale e il suo dominio sull’altro.

La prima riguarda la cosiddetta neutralità tecnologica: nel piano e in alcune interviste rilasciate ai mezzi di informazione il ministro Colao afferma che la copertura delle aree del paese non ancora raggiunte dalla banda ultralarga avverrà in condizioni di neutralità tecnologica. Ebbene la neutralità tecnologica, vale a dire il lasciare alle aziende di comunicazione le modalità attraverso le quali raggiungere gli obiettivi che lo stato richiede, è da sempre in netto contrasto con la lotta al divario culturale. Questo perché gli interessi delle aziende di telecomunicazioni non coincidono con quelli di uno stato che intenda accrescere le competenze digitali dei suoi cittadini. Finanziare le reti 5g non è la stessa cosa che finanziare quelle via cavo che raggiungono le case dei cittadini (Ftth), mettere soldi sulle connessioni wireless dedicate (Fwa) non è come portare la fibra in un piccolo paese di montagna.

In altre parole, uno stato peculiare come il nostro, che soffre di un divario culturale molto ampio, dovrebbe immaginare di finanziare tecnologie che lo riducano in maniera più evidente di altre e lasciare al mercato il resto. Per fare un esempio concreto: il divario culturale si riduce – da sempre – con le connessioni flat. Possiamo permetterci che gli operatori telefonici impongano domani, dopo essere stati finanziati dallo stato, i loro usuali contratti a consumo? Possiamo accettare di avere nelle “aree bianche” – quelle meno redditizie per il business – accessi alla rete non neutrali (come sono da sempre quelli di rete mobile) e nelle grandi città invece accessi nei quali la neutralità della rete (che è cosa del tutto diversa dalla neutralità tecnologica) è mantenuta? Insomma la neutralità tecnologica di Colao non rende un buon servizio alla lotta al divario culturale e questo andrà sottolineato.

La seconda e ultima questione che mi sentirei di aggiungere riguarda la scuola. Il piano di cablatura in fibra delle scuole italiane ha una storia disastrosa di sottovalutazioni politiche e amministrative ed è costantemente inevaso da anni. Poiché la scuola digitale è forse il presidio più importante per combattere il divario culturale perché non trattarla come tale? Perché – come si dice in questi casi – non dare un segnale? Perché non sancire una priorità?

Il Pnrr è molto timido al riguardo: si propone di completare la copertura in fibra (che doveva essere completa già da anni) con parametri tecnologici che erano adeguati a un decennio fa (banda minima garantita 100 mbps) e partendo da dati verosimilmente del tutto sottostimati (l’80 per cento delle scuole già coperte?) e smentiti – mi pare – dai numeri di Agcom. Secondo il Pnrr resterebbero da cablare in fibra circa novemila scuole su più di 75mila, mentre gli ultimi dati ufficiali disponibili diffusi da Agcom nel 2020 parlavano di connessioni in fibra in meno del 20 per cento di tutte le scuole italiane. Inoltre, i fondi europei al riguardo verranno trasferiti al ministero dell’istruzione, che li gestirà direttamente e nemmeno questa sembra essere una buona idea.

Si tratta solo di due piccoli esempi: che si possono aggiungere agli altri accenni che il piano comunque contiene nella lotta al divario culturale, ma sono due esempi che mi pare rivelino non solo una scelta ponderata in termini di risultati attesi, ma anche una vecchia rigidità.

Il piano progetta cose dove si possono fare e non si abbandona a sogni impalpabili. Tuttavia sottostima, come abbiamo continuato a fare da un decennio a questa parte, la scorza antitecnologica dura e pura degli italiani, che è il vero motivo del nostro ritardo. Per molti anni ci siamo sentiti dire che non c’erano soldi per occuparsene. Ora che i soldi ci sono, occuparsene così poco e così vagamente suona un po’ come una piccola occasione persa.

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