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Siamo chi siamo, ma anche chi raccontiamo di essere

Dare un senso alle nostre vite significa essenzialmente raccontare la nostra storia, un piccolo tassello della Storia della società in cui viviamo

di Vittorio Pelligra

8' di lettura

«L’uomo è ugualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto e l’infinito da cui è inghiottito» scriveva Blaise Pascal nei suoi “Pensieri”. Ecco perché ci è così necessario trovare un senso alla nostra vita: per tentare di sfuggire a questi due poli tanto concreti quanto incomprensibili della nostra esistenza. È da qualche settimana che stiamo ragionando intorno alla prospettiva di una “economia del significato”, che metta al centro dell’agire umano quel complesso processo di ricerca e costruzione di un senso profondo dell’esistenza, a partire dal ruolo che il lavoro ha in questa ricerca, fino al posto che, più in generale, possiamo giocare nelle nostre comunità; dal modo in cui le organizzazioni possono agevolare il processo di riconoscimento del senso, a come la cultura dell’ideologia dell’incentivo può, invece, impedire che ciò accada.

Alla ricerca di un senso

Ci chiediamo oggi, andando ancora un po’ più al centro della questione, quali sono gli strumenti e le strategie che possiamo utilizzare nel tentativo di cogliere il significato della nostra esistenza. “Dare un senso”, in una delle accezioni principali dell’espressione, vuol dire, essenzialmente, raccontare una storia, scoprire la trama della nostra vita, i suoi protagonisti principali e i comprimari, gli antefatti, le svolte, i colpi di scena, la tensione crescente che si indirizza, ce lo auguriamo tutti, verso un lieto fine risolutorio. Come ci ricorda Thomas Gilovich, nel suo “How we know what isn’t so: The fallibility of human reason in everyday life” (The Free Press, 1991): «Noi siamo fatti per trovare un ordine, modelli e significati nel mondo. Per questo troviamo il caso e il caos del tutto insoddisfacenti. La natura umana rifugge l’imprevedibilità e la mancanza di senso». Per questo ci raccontiamo storie. Per dare un significato alla complessità dell’esperienza, perché il nostro cervello funziona così.

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Il posto della nostra storia nella “grande storia”

Se qualcuno ci chiedesse di descriverci o di descrivere un nostro amico, chi non inizierebbe raccontando una storia, un aneddoto, il modo in cui ci siamo conosciuti e come le esperienze che abbiamo vissuto ci hanno reso ciò che siamo o ciò che crediamo di essere? La risposta alla domanda “chi sono io?” non può che essere data in forma di narrazione, di un racconto capace di integrare nella sua struttura ciò che pensiamo ci definisca in maniera univoca: i nostri valori, le nostre capacità, la nostra storia passata, i nostri successi, gli sbagli, le giustificazioni, e poi il presente e ciò che ci aspettiamo e desideriamo per il futuro, nostro e delle persone a cui teniamo di più. Una storia ben raccontata è capace di mettere ordine nella caotica confusione della vita, del nostro microcosmo ma anche del posto che abbiamo o vorremmo avere nella “grande storia” che per un piccolo tratto attraversiamo anche noi.

Raccontarsela bene

Uno dei progressi più importanti che da Freud e Adler, fino a Allport e McAdams, lo studio della personalità ha registrato, è stato capire che ciò che ci fa ciò che siamo non dipende solo da ciò che siamo, ma anche da ciò che ci raccontiamo di essere. Il nostro sviluppo e la nostra crescita individuale dipendono in maniera cruciale da questo continuo gioco di rimandi tra la realtà e il modo in cui rappresentiamo tale realtà, modo che, a sua volta, plasma e determina quella stessa realtà, per il semplice fatto di descriverla.Questo processo di costruzione di senso (sense-making) attraverso le storie che raccontiamo a noi stessi e agli altri, risponde ad uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano: la comprensione profonda del proprio “io” e del suo posto nel mondo. E, per rispondere in maniera adeguata a questo bisogno fondamentale, il racconto della nostra storia deve condurci a soddisfare alcuni bisogni specifici che, insieme, danno struttura e forma al racconto.

I quattro bisogni fondamentali

Lo psicologo sociale Roy Baumeister ha studiato per una vita questi temi identificando, tra le altre cose, i quattro bisogni fondamentali cui il racconto di una esistenza deve dare soddisfazione per produrre una visione significativa e compiuta. Il primo bisogno di ogni autobiografia è quello della “finalità”. Gli eventi che viviamo e le azioni che mettiamo in atto acquistano un significato nel tempo e nello spazio solo nel momento in cui riusciamo ad attribuirgli una finalità capace di unire ciò che abbiamo fatto, ciò che siamo stati e ciò che oggi viviamo. Gli ideali della vita, i sogni della giovinezza, i progetti e le passioni, ma anche le svolte dolorose che ci aprono nuove strade o che ci bloccano il cammino. La finalità genera senso in quanto inserisce gli eventi e le nostre scelte in una catena intellegibile di causalità, in una sequenza di cause ed effetti attraverso la quale possiamo provare a dar conto del nostro vissuto. Ma la finalità non basta. Occorre che il nostro personale racconto abbia la capacità di “giustificare” ciò che descrive. Si tratta della possibilità di giustificare ciò che ci capita e ciò che facciamo all’interno di una struttura chiara di valori. Uno schema che ci consenta di attribuire la valenza di “giusto” o “sbagliato” a eventi e azioni. Mentre la finalità genera senso inserendo gli eventi un una catena di cause ed effetti, la giustificazione lo fa situando i fatti dell’esistenza all’interno di un codice morale personale.

La terza necessità è quella dell’ “efficacia”. La possibilità di leggere le nostre azioni come capaci di “fare la differenza”, di avere un impatto su ciò che riteniamo buono e di modificare la probabilità che ciò che desideriamo si avveri. L’autonomia e il senso del controllo sono parti integranti di questa funzione generatrice di senso. Niente può togliere significato e motivazione alle nostre azioni quanto la percezione o la consapevolezza dell’impossibilità di cambiare le cose. Un ultimo bisogno fondamentale che la narrazione deve soddisfare per poter generare senso fa riferimento all'idea di “valore di sé” (self-worth). Nella storia della nostra esistenza ci è necessario trovare ragioni per descriverci come degni di valore e apprezzamento. Aveva colto l’importanza di questo aspetto già Adam Smith nella sua “Teoria dei sentimenti morali”, quando sottolineava che: «L’uomo desidera naturalmente non solo di essere amato, ma di essere amabile, ovvero di essere un naturale e appropriato oggetto d’amore […] Non desidera solo la lode, desidera esserne degno, cioè desidera essere oggetto naturale e appropriato di lode, anche se non lodato da nessuno».

Il racconto aiuta a superare i trumi

Abbiamo bisogno di un racconto nel quale ci rappresentiamo come degni di lode “anche se non lodati da nessuno”. Il valore di sé è, prima di tutto, valore nei confronti della nostra stessa coscienza. La costruzione di un racconto personale che riesce rispondere a questi bisogni fondamentali sarà, dunque, un’operazione capace di attribuire senso all’esistenza, anche a quelle dolorose, travagliate, o a quelle che stanno ai margini della “grande storia”. Il processo di costruzione di senso attraverso la narrazione appare particolarmente importante per il modo in cui ciascuno di noi vive e affronta gli eventi negativi e le oggettive difficoltà che la vita spesso ci presenta. Essere capaci di dare un senso alle cose, anche agli eventi più traumatici e difficili, ha come conseguenza non solo una migliore salute psicologica, ma anche, e questo può apparire per nulla scontato, una migliore salute fisica.

In uno studio su soggetti infartuati, Glenn Affleck e colleghi, hanno analizzato la reazione dei pazienti dopo sette settimane dall’evento, seguendone, poi, il decorso per gli otto anni successivi. Ciò che emerge è che la maggioranza di coloro che hanno saputo trarre una lezione positiva, un insegnamento, coloro che sono riusciti a dare un senso all’infarto subito, dopo otto anni mostrano uno stato di salute migliore con una probabilità significativamente più bassa di recidiva. Risultati per molti versi simili emergono da uno studio guidato da Julienne Bower su soggetti recentemente informati di una diagnosi di positività all’HIV. Tra questi, coloro che riescono a vivere l’evento con un atteggiamento costruttivo e positivo, coloro che hanno scoperto un senso nella vicenda, che ne hanno tratto un insegnamento, per così dire, mostrano, dopo molti anni, un tasso di mortalità significativamente inferiore rispetto a coloro che non sono riusciti a dare un senso all’esperienza della malattia.

La patologia dell’autoinganno

Più in generale, la capacità di raccontarsi una storia significativa rispetto alle avversità della vita, rappresenta un processo efficace attraverso il quale impariamo a gestire delusioni, conflitti e sofferenze. Questo processo narrativo, è bene esserne coscienti, non è affatto esente da rischi. C’è, per esempio, la patologia dell’autoinganno sempre in agguato, l’eccesso di fiducia e di ottimismo, così come l’opposto senso di persistente e invincibile insoddisfazione. C’è, infine, un altro aspetto da considerare che va sotto il nome di “riflessività”. Una caratteristica determinante del processo di costruzione narrativa del senso della nostra vita è l’interazione tra le nostre storie personali e la “grande storia” del nostro tempo: i “frame” nei quali siamo immersi, le retoriche prevalenti e spesso contrastanti tra loro, le visioni del futuro e le promesse del presente.

Personaggi in cerca di un ruolo

La “grande storia” rappresenta lo sfondo delle nostre storie individuali, come un canovaccio corale rispetto ai ruoli dei personaggi in commedia. Ma, allo stesso tempo, i personaggi non sono passivi esecutori del ruolo assegnato loro dall’autore, ma, a loro volta, attivi co-sceneggiatori della storia. Molto, dunque, nella costruzione del racconto delle nostre vite, impattano le storie che collettivamente ci stiamo raccontando circa la nostra società, la politica, l’economia, il futuro. E come in quella letteraria, anche in questa “grande storia”, osserviamo bei racconti e pessime narrazioni, lavori di qualità e altri scontati e banali. Racconti avvincenti, portatori di verità profonde e illuminanti e altri, invece, che ingannano con la loro superficialità e mancata comprensione delle dinamiche dell’animo umano.

Che storie ci stiamo raccontando, dunque? Che copione ci viene proposto dall’impresario di turno? E non si tratta solo di distinguere le notizie vere da quelle false o di renderci meno vulnerabili alle manipolazioni mediatiche. Si tratta di capire se la cornice culturale nella quale ci muoviamo possieda o meno tutti gli strumenti necessari a consentirci di dare senso, individualmente e collettivamente, all’esperienza delle nostre esistenze. Le scienze cognitive definiscono come “ipocognizione”, un’insufficienza, a questo riguardo. Si tratta della mancanza di quelle idee di cui si ha bisogno per cogliere il significato di eventi importanti per l’esistenza di ciascuno di noi: la sofferenza, l’assenza, la rottura, il mancato riconoscimento, l’avversità, la sconfitta, l’abbandono. Il temine nasce con il lavoro di Robert Levy che, nel suo libro “Tahitians: Mind and Experience in the Society Islands”, riporta i risultati di uno studio condotto negli anni ’50 a Tahiti. Antropologo e psichiatra, Levy è colpito dall’abnorme numero di suicidi presso gli abitanti dell’isola. Analizzando le esperienze degli abitanti si rende conto che nella loro lingua esiste solo un termine per descrivere il dolore e che questo viene utilizzato per designare solamente il dolore fisico. Comprende che l’assenza di una parola, e quindi di un concetto, per designare un’esperienza fondamentale della vita di ciascuno di noi, come quella della sofferenza psicologica, creava, nei tahitiani, un cortocircuito tra l’esperienza vissuta e la sua rappresentazione narrativa. Una negazione dell’esperienza del dolore che, a causa della sua insensatezza, diventa capace di produrre un disagio così profondo da indurre molti fino al gesto estremo.

Le parole per raccontarci

Abbiamo oggi tutte le parole per dire la nostra esperienza, per raccontarci e per dare senso a ciò che viviamo, siano esse storie felici o dolorose? E ritorna la domanda: in quale canovaccio ci troviamo coinvolti? Qual è il lessico della nostra storia di oggi? La risposta è ineludibile perché cruciale. Perché come ci ha mostrato Jerome Bruner: «Alla fine il processo culturale, cognitivo e linguistico che guida l’auto-narrazione della nostra vita acquista il potere di strutturare l’esperienza della percezione, di organizzare la memoria, di segmentare e di attribuire finalità agli eventi della vita. Così noi diventiamo la stessa autobiografia attraverso la quale raccontiamo delle nostre vite» (“Life as narrative”. Social Research, 1987, 54, pp. 11-32). Ciò dovrebbe indurci a grande cautela. Alla necessità di un costante controllo circa l’identità della vita che stiamo raccontando e vivendo. Ma anche alla vigile consapevolezza che, come sosteneva John Stuart Mill: «Vale meglio essere Socrate infelice che uno stupido soddisfatto. E se lo stupido è di diversa opinione, ciò si deve al fatto che egli conosce soltanto un lato della questione».

Tornando al punto di partenza, questa è, per il modo in cui la retorica dell’economia cerca di approcciare lo studio del comportamento umano, probabilmente l’implicazione più importante. Senso e felicità, significato e utilità seguono molto spesso, molto più frequentemente di quanto siamo disposti ad ammettere, traiettorie differenti. La felicità vera del Socrate insoddisfatto o l’illusione dell’idiota soddisfatto. In quale direzione ci stiamo muovendo? Verso quale direzione, individualmente e collettivamente, vogliamo indirizzarci?

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