31 marzo 2020 13:24

Il dio mercato e i suoi adoratori bussano impazienti alle porte della politica perché l’emergenza coronavirus sia dichiarata superata, il lockdown finisca e l’economia riparta. Ma francamente non si capisce il perché di tanta precipitosità. L’epidemia è ancora in pieno dispiegamento: da qualche giorno c’è qualche segnale incoraggiante di un lento appiattimento della curva, ma in compenso nel sud i casi crescono, sia pure non esponenzialmente, e qualche focolaio minaccia di peggiorare la situazione. Siamo ancora in piena carestia di mascherine e tamponi, il minimo che servirebbe per parlare di prevenzione di ulteriori disastri. E soprattutto c’è ancora troppa confusione nella politica sanitaria, ed è di questa che è urgente parlare, anche da incompetenti, intanto perché la sanità è un diritto fondamentale e dunque la politica sanitaria ci riguarda tutti e tutti ci autorizza alla presa di parola: del resto, la riforma sanitaria che nel 1978 istituì il servizio sanitario nazionale fu l’esito di un processo che coinvolse la società, non solo i politici e gli esperti. E poi perché guardando a ritroso il film dell’ultimo mese è evidente che sono state le strategie sanitarie ed epidemiologiche a determinare quelle istituzionali e politiche (Conte: “Abbiamo sempre operato seguendo le indicazioni del nostro comitato scientifico”), il che significa che non si può valutare l’efficacia delle seconde senza entrare nel merito delle prime.

Qualcosa sappiamo, e sapevamo
Prima questione. Di questo virus si sa ancora poco, e questo va certo tenuto ben presente nel giudicare incertezze e oscillazioni delle strategie di contrasto, scientifiche e politiche. Però dell’epidemia a questo punto qualcosa sappiamo. E qualcosa sapevamo anche prima, fin dai rapporti internazionali di inizio secolo che avvertivano del rischio incombente (“Non è questione di se, ma di quando”). Sembra perfino che in Italia esistesse dal 2010, sulla carta, un piano antipandemico nazionale, e relativi piani regionali, mai implementati e mai aggiornati. Dunque il rischio era annunciato ed è stato ignorato o rimosso, presumibilmente per ragioni di bilancio, fino allo scoppio dei primi casi, non solo in Italia ma in tutta Europa e negli Stati Uniti, per stare solo ai paesi occidentali. Ovunque non c’era una strategia, ovunque si ripete la stessa catena comportamentale fatta di sottovalutazione, negazione, allarme ritardato, assenza di precauzioni preventive; ovunque mancavano e mancano mascherine (salvo che in Cina, cui era stata lasciata la produzione in regime di monopolio), respiratori, attrezzature sanitarie di sicurezza. È vero, l’intruso ci ha preso di sorpresa e noi eravamo impreparati, ma questa impreparazione non si può dire che sia stata innocente, né in Italia né altrove. A forza di scommettere sul rischio eventuale giocando con i future e i derivati, la governance neoliberale mondiale ha finito col ritrovarsi sguarnita rispetto a un pericolo effettivo e tutt’altro che imprevisto, e col dichiarare una guerra senza avere né armi né munizioni: come andare in trincea a piedi scalzi.

La pandemia globale mette all’ordine del giorno la globalizzazione delle politiche sanitarie più che la loro nazionalizzazione

Seconda questione. Il virus, come ben sappiamo, provoca nei casi più gravi polmoniti severe che possono portare rapidamente alla morte e che richiedono il ricovero in terapia intensiva. In quel rapidamente c’è la sua perfida capacità di mettere sotto scacco i sistemi sanitari, che non ce la fanno a reggere un’ospedalizzazione così massiccia. Ma il virus ha anche la perfida intelligenza di testarli, i sistemi sanitari, e di mostrarne quei lati deboli che il discorso politico e mediatico mainstream tende a occultare sotto l’esaltazione dell’eroismo del personale ospedaliero. Esaltazione, è superfluo dirlo, sacrosanta: chiunque conosca un medico, un anestesista o un infermiere sa dai suoi racconti in quali condizioni proibitive per l’incolumità personale stiano lavorando, con quale professionalità e generosità e con quale carico di stress psicologico ed emotivo. Non è questo in discussione, né la gratitudine commossa che tutti sentiamo per loro. In discussione vanno messi, invece, i limiti che il sistema sta rivelando nonostante il loro eroismo. Due su tutti.

I limiti dell’“autonomia“ regionale
In primo luogo, un sistema sanitario nazionale qual è quello che in Italia ancora abbiamo malgrado i tagli dissennati cui è stato sottoposto, non può sopportare un dualismo esasperato come quello fra nord e sud. L’incubo che l’epidemia colpisca le regioni del sud con la stessa virulenza di quelle del nord, e abbatta strutture ospedaliere ben più esili di quelle del nord, si è sommato e si somma tuttora all’angoscia per la tragedia che imperversa nelle zone più colpite, e ha determinato scelte politiche fondamentali, come quella di estendere il lockdown a tutto il territorio nazionale, comprese le regioni in cui il contagio era inferiore ma il sistema sanitario più debole. E si devono alle condizioni strutturali del dualismo nord-sud, non solo a una irresponsabilità fin troppo sottolineata, gli incauti ritorni a casa da Milano e dintorni degli studenti meridionali che hanno rischiato e ancora rischiano di accendere focolai ulteriori nel Mezzogiorno. Il dualismo socioeconomico territoriale è la negazione fattuale dell’universalismo di principio del sistema sanitario e si è rivelato di difficilissima composizione in una situazione di emergenza nazionale e globale. Superfluo sottolineare che la “soluzione” dell’autonomia differenziale regionale, uno dei piatti forti della contesa politica fino a un attimo prima della catastrofe, non farebbe che accentuarlo. E dunque va tolta di mezzo senza se e senza ma, tanto più dopo una pandemia globale che mette all’ordine del giorno la globalizzazione, più che la nazionalizzazione, delle politiche sanitarie.

D’altra parte bisogna prendere atto che nell’emergenza Covid-19 il sistema sanitario ha mostrato limiti e inefficienze proprio nelle regioni del nord dove è considerato d’eccellenza. Come nel modello lombardo, caratterizzato, oltre che dalla commistione tra pubblico e privato che in questa circostanza non è stata d’aiuto, da un forte centralismo ospedaliero specialistico a scapito della medicina di base e dei presidi territoriali. Di nuovo, non si tratta di misconoscere lo sforzo titanico degli ospedali lombardi per fronteggiare un’emergenza ben più crudele di quanto fosse immaginabile. Ma se l’epidemia avanza, sia pure con un decremento relativo, malgrado il lockdown; se, come sembra, i contagiati con sintomi lievi o asintomatici sono molti di più di quelli rilevati con i tamponi riservati ai sintomatici gravi da ricoverare; se, come emerge da una tragica sequenza di testimonianze, sono in tanti a morire a casa senza riuscire ad accedere agli ospedali e senza diagnosi, diventa sempre più chiaro che un modello basato su una avanguardia ospedaliera priva di una retroguardia territoriale di diagnosi, prevenzione e terapia non ce la fa. Anche la complementarità tra presidi ospedalieri e medicina di territorio rientra tra i capisaldi abbandonati della riforma sanitaria del 1978, ma lasciamo stare e torniamo a noi.

Può esistere un uso democratico e non autoritario o totalitario delle tecnologie di monitoraggio e mappatura?

Secondo il virologo Andrea Crisanti, consulente della regione Veneto, la battaglia contro un’epidemia non si vince negli ospedali ma sul territorio, con la “sorveglianza attiva” dei medici di base che monitorano il contagio curando in quarantena i sintomatici e risalendo attraverso i loro contatti agli asintomatici, con un uso a cerchi concentrici dei tamponi. Il che consentirebbe tra l’altro, e crucialmente, di ottenere una misurazione del contagio reale più credibile di quella ufficiale, basata sulla tamponatura e la conta dei soli sintomatici e dunque sull’occultamento dell’insidia più grossa, cioè dei positivi asintomatici che continuano a trasmettere il virus senza saperlo, fuori casa e soprattutto in famiglia, sì che le famiglie rischiano di trasformarsi in focolai.

Il Veneto si muove in base a questo metodo di mappatura e sorveglianza territoriale. La Lombardia ha annunciato a sua volta, pochi giorni fa, un cambio di approccio, con un incremento della mobilitazione dei medici di base (che però, insieme agli ospedalieri, sono una categoria decimata dal contagio). La provincia di Siena ha deciso in proprio di estendere l’uso dei tamponi. Ma com’è evidente, e come il direttore dell’istituto Sacco di Milano ha più volte ripetuto in tv, questa sterzata sarebbe urgente nel centrosud, dove il contagio non è (ancora) esponenziale e in questo modo potrebbe essere contenuto senza incombere troppo sulla debolezza delle strutture ospedaliere.

Perché allora nel sud non si procede nettamente, e pubblicamente, in questa direzione, invece di continuare a sigillare con i carabinieri i comuni dove spuntano i focolai, o ad aspettare la saturazione ospedaliera che prima o poi arriverà fatalmente? Perché scarseggiano i tamponi, si dirà. O perché mancano direttive chiare di politica sanitaria? O perché ciascuna regione, ciascuna provincia, ciascun comune è legittimato a fare come vuole o come può, secondo il criterio neoliberale della medicina fai da te? Arrivano notizie buone, di nuovi test che potrebbero verificare la presenza di anticorpi in chi ha già contratto il virus o se ne è immunizzato: sarebbero fondamentali per le strategie di uscita dal lockdown. Li producono gli Stati Uniti e la Cina, e in Italia è già partita la corsa delle regioni del centronord per accaparrarseli. Dal Cnr gli immunologi fanno sapere che così non va e che ci vuole un protocollo nazionale: la politica che dice?

Modelli a confronto
Terza questione. L’Italia ha seguito il modello cinese del lockdown, dopodiché tutti gli altri paesi occidentali, quale più quale meno, si sono accodati. In verità l’abbiamo seguito inevitabilmente a metà: perché la Cina ha chiuso solo una provincia e noi invece abbiamo dovuto chiudere tutto il paese, perché lì la reclusione è stata più rigida che qui, e perché i metodi con cui la reclusione è stata imposta lì – da quelli polizieschi classici alle tecnologie della sorveglianza: tracciamento dei dati personali, telecamere, droni, riconoscimento vocale e facciale – non sono (ancora?) tutti proponibili in una democrazia come la nostra.

Ma il modello cinese non era l’unico possibile: c’era anche quello della Corea del Sud che è a sua volta un paese democratico e non ha chiuso niente, eppure è riuscita a domare l’epidemia. In Corea del Sud identificano i sintomatici, anche lievi, con tamponi facilmente eseguibili per strada stando in auto, li isolano in quarantene selettive e tracciano i loro contatti attraverso le carte di credito, la geolocalizzazione degli smartphone e le telecamere, rilevando così la mappa precisa del contagio e risalendo anche agli asintomatici. Infine, usano app programmate per segnalare a ciascuno dove sono i rischi di contagio. Com’è noto il metodo ha funzionato: a oggi la Corea del Sud è fuori dall’epidemia, e chi ha studiato da vicino l’esperimento sudcoreano sottolinea che l’uso dei dati personali anonimi – temporaneo, finalizzato all’emergenza Covid-19, pubblico e condiviso – non ha avuto le caratteristiche autoritarie che ha avuto in Cina.

Domanda: il governo italiano ha scelto la via cinese pour cause o di default, senza neanche prendere in considerazione quella coreana? E se l’ha scelta intenzionalmente, delle opzioni in campo non avrebbe dovuto essere informata e investita l’opinione pubblica, secondo il criterio della trasparenza tanto spesso evocato e rivendicato da Conte? Solo pochi giorni fa, quando sul paragone tra la via cinese e quella sudcoreana i social si interrogavano già almeno da una settimana, il consulente del ministro della sanità Walter Ricciardi, in un’intervista di seconda serata su una rete all news, ha detto di avere analizzato il metodo coreano e di essersi persuaso a consigliarlo al governo, e ha annunciato la call, poi effettivamente lanciata sul sito del ministero, per l’elaborazione di app di telemedicina, assistenza domiciliare ai pazienti, monitoraggio attivo del rischio di contagio, che saranno vagliate in relazione alla loro efficacia e alla compatibilità con la tutela della privacy. A che punto è l’offerta delle app e la loro valutazione? Oltre che con la tutela della privacy, l’adozione di queste tecnologie è compatibile con le infrastrutture esistenti in Italia (la rete sta già scoppiando per l’improvviso uso estensivo del telelavoro), nonché con il tasso di alfabetizzazione digitale del nostro paese, sicuramente assai inferiore a quello della Corea del Sud, di Taiwan o di Singapore? Può esistere un uso democratico e non autoritario o totalitario di queste tecnologie? Si può, con un’informazione corretta, abbassare il tasso di allarme tecnofobico di chi teme per la raccolta dei dati sensibili a fini sanitari e poi li cede in continuazione su internet a fini commerciali?

Invece che inchiodarsi sulla contrapposizione tra sicurezza sanitaria ed esigenze dell’economia, come ha fatto all’inizio dell’epidemia procurando oscillazioni deleterie e come ricomincia a fare adesso, il dibattito pubblico dovrebbe virare su questo ordine di questioni. Che verosimilmente diventerà presto quello decisivo, perché è evidente che la soluzione tecnologica è l’unica alternativa che abbiamo a una clausura inevitabile nella fase di esplosione del contagio, ma sicuramente difficile da prorogare se e quando da questa fase usciremo ma il virus continuerà a circolare, salvo tornare a recludersi ogni volta che si accenderanno nuovi focolai o che la curva epidemica rischierà di rialzarsi.

La scelta è tra il rimedio medievale della quarantena, basato sulla segregazione all’interno di mura mai abbastanza spesse da impedire a un virus di penetrarle, e l’uso di una tecnologia che avendo la stessa forma virale del “nemico” si presta forse meglio a seguirne e contrastarne l’espansione. Ma è anche tra la disposizione psicologica e politica alla condizione bellica dell’assedio – peraltro puramente difensivo – contro un agente esterno, e la disposizione psicologica e politica a una vigilanza che lo schiva e lo sorveglia con la consapevolezza che è ormai interno alla nostra specie, e resterà tra noi fino a quando non negozieremo con lui una qualche forma di convivenza pacifica o di immunizzazione.

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